Tommaso Cavazza (1540-1611) alchimista di Galatina

La pietra filosofale quintessenza della chiave del sapere

INEDITI SU GIOVAN TOMMASO CAVAZZA (1540-1611) ALCHIMISTA DI GALATINA

Circolazione in area meridionale di scritti alchemici del ‘500

"L’Alchimista" di David Teniers il Giovane (1610-1690)
“L’Alchimista” di David Teniers il Giovane (1610-1690)

 

di Luigi Manni

Il beneventano Nicolò Franco, finito sulla forca dell’Inquisizione l’11 marzo 1570, durante il processo accusò Girolamo Santacroce, suo avversario, di aver conosciuto il “mago di Soleto”, l’astrologo Matteo Tafuri (1492-post 1584), in quel periodo processato per eresia e incarcerato nelle galere romane della Santa Inquisizione. Il Santacroce, su chi poteva aver notizia della scarsa religiosità del Tafuri, indicò, tra gli altri, “don Gio. Thomaso Caruso de Taranto”, poi, una seconda volta, come “Capato de Taranto”, che altri non è che il galatinese Giovan Tommaso Cavazza, “scholaro” appunto del Tafuri.

La certezza della patria tarantina ci viene da due inediti rogiti nei quali Joanne Tomasio Cavazzade civitete Tarenti era ad presens (1594) comorante (abitante) dicte terre Sancti Petri (Galatina). Giovan Tommaso ha due fratelli, Donato Antonio, sinora sconosciuto, e Mario, sposato nel 1560 con Giovanna, figlia naturale del duca Castriota Scanderbeg. La madre Joannella Galiota (Giovanna Galeota), nel 1595 risulta vidua relicta quondam magnifici domini Caroli Cavazza (vedova di Carlo Cavazza, padre del nostro). Dal testamento di Mario, sappiamo che i fratelli ereditarono tutti i suoi beni mobili, stabili, oro e argento.

Ora, oltre le date 1568 e 1570, da me individuate, che testimoniano la presenza a Galatina di Giovan Tommaso, disponiamo di un profilo del Cavazza, o Cabazio, curato nel 1679 dal domenicano galatinese Alessandro Tommaso Arcudi nella sua Galatina Letterata,da recepire, in qualche caso, con le dovute cautele, se non la si libera da tare e invenzioni.

Firenze, Palazzo vecchio, Francesco I nel suo studio di alchimia (Stradano, 1570)
Firenze, Palazzo vecchio, Francesco I nel suo studio di alchimia (Stradano, 1570)

Giovan Tommaso Cavazza, dottissimo nella lingua greca, ebrea e latina, non ebbe “eguali nella teologia, filosofia, matematica, cosmografia, astrologia, alchimia, retorica, poetica, come appare dalle tante opre, che scrisse in queste materia”. L’Arcudi lamentava la dispersione delle sue opere: “La maggior parte delle fatighe di questo ingegno grande l’ho andato io raccogliendo manuscritte, eziandio i medesimi originali, benché alcune con mio rammarico le ritrovai poscia consumate da vermi e dall’acqua, che distillava sopra per negligenza ed ignoranza de’ miei domestici”. Il domenicano afferma che il Cavazza aveva “non poca cognizione della magia naturale e fece prove mirabili di chimica, investigatore acuto de’ profondi secreti della natura”. Pensava di “mandar alla luce le sue dotte e degne fatighe, ma cedendo in quella deliberazione troppo tarda alla comune nemica, nel 1611 terminò settant’uno anno di vita”. Il poeta Silvio Arcudi invitò tutti quanti a leggere “del gran Cavazza i dotti fogli”.

Tra i tanti scritti Del Cavazza, ci è rimasta, in volgare, un’opera alchemica intitolata Della pietra filosofale, overo della quinta essenza, che oggi sappiamo conservata nella Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli. Il trattato, incompleto, inserito in un codice miscellaneo già noto agli studiosi, ci riporta direttamente agli ambienti dei neoplatonici salentini, raccolti intorno al “protosavio del mondo”, il “philosopho, matematico et medico” soletano Matteo Tafuri. Ed è proprio dal Tafuri che Giovan Tommaso, suo allievo, trasse la linfa vitale per gli esperimenti alchemici di trasmutazione, condensati appunto nel suo Della pietra filosofale, nel quale è citato ripetutamente un altro allievo di messer Matteo Tafuro, il matematico galatinese Giovan Paolo Vernaleone (1527-1602), la cui specifica fama come alchimista è ricordata nella Operatie elixirisphilosophici, un manoscritto polacco attribuito all’alchimista Michele Sendivogio, in cui è citato “un gran’uomo di Napoli”, tal Wernalcon, corruzione di Vernaleone, che avrebbe compiuto a Roma un tentativo mal riuscito di trasmutazione. Ma il Vernaleone fu attivo principalmente nella Napoli tardo-rinascimentale.

Come argomenta Massimo Marra, tutto il trattatello alchemico del Cavazza appare debitore degli scritti dell’alchimista friulano Giulio Camillo (1485-1544), soprattutto il De Transmutazione e l’Interpretazione dell’Arca del Patto. Il galatinese, attingendo come fonti Omero e Virgilio, “utilizza ripetutamente l’ermeneutica alchemica di miti classici”. Tutto ciò testimonia, da una parte, la circolazione in aree meridionali degli scritti camilliani e, dall’altra, come rovescio della stessa medaglia, la produzione e la circolazione di trattati meridionali come quello del Cavazza, che risulta una miscellanea di alchimisti di area meridionale. Viene ribaltata così la convinzione che in Italia l’alchimia fosse un fenomeno essenzialmente settentrionale.

Cavazza esordisce nella sua opera dissertando su un concetto base della dottrina ermetica, cioè sull’Anima del mondo, dalla quale uno spirito vitale, “prodotto come un suo lume, un fiato, uno spirito, un vehicolo di lei”, si congiunge con il “corpo mondano”. La sua speculazione filosofica conclude che da questo “generativo spirito di tutte le cose, et che da questo celeste spirito habbia origine l’essere, la vita et la generazione di tutte quelle (parti dell’Universo)”, per cui “gli elementi, le pietre, l’herbe, le piante e gli animali per quello (spirito) sono, vivono et si generano”. L’alchimista, nella solitudine e segretezza della sperimentazione, agendo “sotto certe costellazioni”, aveva il compito di portare al di fuori della materialità delle cose mondane, “le virtù di questo mondano spirito (…) in tutte le parti del mondo diffuso et nascosto”. Gli obiettivi erano nobili e alti, forse troppo alti: la ricerca della quintessenza della vita, della pietra filosofale, della trasmutazione di un elemento in un altro, della possibilità di trasformare la materia e lo spirito.

(E’ utile consultare: L. MANNI, La guglia, l’astrologo, la macàra, Galatina 2004, pp. 114-8; G. VALLONE, Restauri salentini, in “Bollettino Storico di Terra D’Otranto, 1 (1991), p. 158; A. T. ARCUDI, Galatina Letterata (a cura di G. L. DI MITRI e G. MANNA), Aradeo (Le) 1993, pp. 47-54; M. MARRA, Il discorso sopra il lapis philosophorum del signore Giovan Thomaso Cavazza, in Alchimia (a cura di A. DE PASCALIS e M. MARRA), “Quaderni di Airesis”, Milano 2007, pp. 213-54).

 

 

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2 Commenti a Tommaso Cavazza (1540-1611) alchimista di Galatina

  1. Credo sia complessa la valutazione temporale complessiva sui confini geografici riguardanti la circolazione di opere alchemiche. Vorrei citare un piccolo caso riguardante qualcosa che ci riguarda un po’ più da vicino, il caso di tal Pietro Salentino un manoscritto del quale viene attribuito dallo studioso che se ne è occupato ad una data solo di poco posteriore alla traduzione del Testamento di Morieno ,riconosciuta,questa, come la prima opera alchemica entrata (1144) tramite la Spagna in Europa grazie alla traduzione di Roberto di Chester. Lo studioso che situa il “nostro” Petrus nell’arco di tempo indicato annota poi che il testo presenta numerosi elementi terminologici arabi ,il che ancora una volta ci indica come la nostra terra sia stata crocevia importante e luogo di confronto e di elaborazione prima che di scontro fra popoli diversi .
    P.S. Non mi risulta , e sarei felice di sbagliarmi, che a tutt’oggi filologi e studiosi abbiano dedicato molte delle loro energie a questa figura salentina

    • concordo con te. Non mi pare siano stati condotti studi in merito. Vediamo se qualcuno sa darci delle dritte. Quanto ancora non sappiamo! Grazie Gianfranco per la segnalazione

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