di Armando Polito
Oggi l’acqua viene estratta dalla falda freatica con elettropompe ad immersione di potenza variabile a seconda del tipo di pozzo artesiano. Quando l’elettricità ancora non aveva possibilità di utilizzo nelle campagne e lo stesso motore a scoppio era poco diffuso, l’unico sistema per emungere l’acqua era quello di utilizzare una carrucola, una fune, un secchio e la forza delle braccia. Tale sistema, però, non era certo praticabile quando bisognava utilizzare acqua in quantità non modeste, come, per esempio, quando il fine era quello irriguo. E allora?
A beneficio dei lettori non salentini ma anche dei più giovani fra quest’ultimi dico subito che la ‘ngegna, in uso fino alla metà del secolo scorso, può essere considerata come l’antenata della moderna elettropompa, anche se azionata dalla forza animale e enormemente più ingombrante e solo parzialmente e, in un certo senso, alternativamente sommersa, per giunta non fino al livello di profondità di oggi.
Essa era sostanzialmente costituita da un lungo palo collegato ad un ingranaggio formato da un tamburo orizzontale piolato connesso con un altro dentato al quale erano fissati dei recipienti che alternativamente si riempivano durante l’immersione e si svuotavano durante l’emersione. Un asino legato al palo procedeva in senso antiorario intorno al pozzo facendo funzionare il sistema. L’acqua veniva, così, pescata nel pozzo, versata in una vasca di raccolta, e, da qui facendola defluire, utilizzata.
Nell’immagine che segue una versione più moderna, non credo ad energia animale, ma strutturalmente identica.
La ‘ngegna, però, non solo può essere considerata come la progenitrice dell’elettropompa ma anche come la sorella di quella che in italiano è chiamata nòria1, ancora in uso in parecchi paesi cosiddetti sottosviluppati (così li abbiamo finora definiti in riferimento alle loro condizioni economiche, ma fra poco probabilmente il termine, con riferimento esteso alle capacità cerebrali, in primis al cosiddetto buonsenso, si ritorcerà contro di noi …). e elemento di attrazione turistica, nei pochi esemplari sopravvissuti, in quelli sviluppati.
Se dovessimo sinteticamente tratteggiare le tappe della storia dell’estrazione dell’acqua dalla falda attraverso il nome dialettale dato alla cavità praticata e diversamente “arredata”, potremmo individuare:
1) puzzu: estrazione manuale mediante secchio legato ad una fune; puzzu, come l’italiano pozzo, è dal latino pùteu(m). La struttura più semplice è un buco senza alcuna barriera protettiva.
2) trozza: estrazione, sempre manuale, mediante secchio legato ad una fune, ma con l’ausilio di una carrucola; al lemma trozza il Rohlfs: “confronta il greco antico τροχαλία2=carrucola, τροχιά3=cerchio di ruota, latino volgare *tròchia”. Rispetto al pozzo precedente la struttura è molto più complessa e talora con pregevolissimi esiti estetici, come testimonia, per esempio, la trozza di Villa Scrasceta a Nardò.
Ogni volta che viene messa in campo, anche autorevolissimamente come in questo caso, una forma latina volgare (ricostruita, perciò correttamente tròchia è preceduto da asterisco) ho un attimo di perplessità e mi chiedo se prima di cedere ad una conclusione di natura deduttiva (ho una certa forma che fa supporre, in base a leggi fonetiche consolidate, la derivazione da un’altra che, però, non è attestata) tutti i controlli siano stati esperiti. Nel nostro caso mi sorprende il fatto che al Rohlfs (o a qualche suo collaboratore) sia sfuggito prima che nel latino classico tròchlea (o tròclea) è attestato col significato di carrucola in Lucrezio, Vitruvio e Quintiliano e poi il fatto che nel Glossario del Du Cange4 (inimmaginabile che non sia stato consultato e ancor più inimmaginabile che se ne ignorasse l’esistenza: la prima edizione risale al 1678 e la citazione che tra poco farò è tratta dall’edizione Favre del 1883-1887) si legge:
(TROCHLEA, Tipo di strumento di tortura presso gli antichi, usato nel supplizio dei martiri. Si tratta propriamente di una ruota come è riportato da Baronio il 7 settembre e dopo di lui Baluzio tomo 2 Miscellanea pag. 496. È costituito da una ruota in movimento con la quale attraverso una trazione di fune il reo legato per le braccia viene alternativamente tirato e rilassato. Questo supplizio è ricordato nella Passione di S. Ponzio n. 19 presso il medesimo Baluzio tomo citato pag. 137. La tortura della trochlea, pag. 326. Vedi Altaserra nel libro 5 Gregorio di Tours cap. 49 e Gallonio sul supplizio dei martiri.
Glossario latino-gallico dal codice regio 7679: trochlea, bindas5. Ancora, dal codice 4120: trocla, è la ruota del tessitore).
In questo dipinto del XIX secolo l’anonimo autore propone la sua interpretazione della ruota usata dai legionari romani per torturare i Galli prigionieri. Immagine tratta da Michael Karrigan, Gli strumenti di tortura, L’Airone Editrice, Roma, 2001
La tortura di una donna sospettata di stregoneria in una stampa del XVI secolo; immagine tratta da Michael Karrigan, op. cit.
Dopo questa parentesi iconografica che non depone certo a favore della nostra specie rispetto alle altre animali, torno all’argomento principale.
La filiera esatta di trozza è, sulla scorta degli elementi addotti, questa: tròchlea>*tròccia6)>trozza, con un processo analogo a còchlea>coccia>cozza.
Non credo che ci sia nessun rapporto tra la nostra voce e l’omofona italiana che nell’attrezzatura navale velica designa il collegamento metallico che unisce i pennoni delle vele quadrate, le bome ed i picchi delle vele auriche ai rispettivi alberi (n. 3 nell’immagine successiva; questa trozza è fatta concordemente derivare dal francese troche, variante di torche=cosa attorta, che probabilmente è dal latino torquère=torcere; d’altra parte, se il nostro trozza fosse derivato da troche mi sarei aspettato tròscia come pòscia=tasca da poche.
Il latino tròchlea, che è dal citato greco τροχαλία, a sua volta dal verbo indicato in nota 2, è sopravvissuto nell’italiano tròclea che indica qualsiasi formazione ossea che per struttura o funzione ricorda una puleggia.
Insomma, la trozza è per sineddoche (una parte, cioè la carrucola ha dato il nome al tutto) un pozzo tanto profondo da richiedere la carrucola per l’estrazione, altrimenti faticosissima, dell’acqua.
3) ‘ngegna; la sua etimologia sarà trattata a breve.
4) puzzu ‘rtesiànu; per l’etimo di puzzu vedi il n.1; ‘rtesiànu (in italiano artesiano) è dal francese artésien, da Artois, regione della Francia settentrionale dove questo tipo di pozzo fu scavato la prima volta.
Avevo lasciato in sospeso l’etimologia di ‘ngegna perché con lei ho aperto il post e con lei mi sembrava opportuno chiudere. Anche qui comincio dal Rohlfs: “antico italiano ingegna=ingegno”. Pure per ‘ngegna intendo fare delle precisazioni.
Un antico italiano ingegna, in verità, sarebbe (perché uso il condizionale si capirà a breve) presente in Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini, Società l’unione tipografico-editrice torinese, Torino e Napoli, 1869, v. II, parte II, pag. 1512:
Gli autori ritengono ingegna variante di ingegno per analogia “d’altri (nomi) ant(ichi) che usavansi ne’ due gen(eri). Fr(a’) Guittone Rim(e) (Manoscritto?) E per malvagitate e falsa ingegna”.
Nel verso così citato di Guittone d’Arezzo ingegna appare senz’ombra di dubbio sostantivo, dal momento che il verso andrebbe trascritto in italiano corrente con E per malvagità e ingannevole indole.
Siamo di fronte al classico caso in cui l’estrapolazione, in buona o in mala fede, di qualcosa dal suo contesto finisce sempre per alterare la verità dei fatti. Perché il lettore comprenda, riporto l’esatta lezione, concordemente adottata, del pezzo in questione citandolo dall’edizione delle Rime a cura di Francesco Egidi, Laterza, Bari, 1940:
XXXII, 30-36: Or chi è ora leale,/chi fedel, chi benigno, chi cortese/non m’è certo palese;/ma chi è malvagio e chi galeadore/e chi per disamore/e per malvagità e falseza ingegna/ amico o frate, veggione a comuno.
(Ora chi è in questo momento leale, chi fedele, chi benigno, chi cortese non mi è certamente chiaro; ma chi è malvagio e chi menzognero e chi per disamore e per malvagità e falsità circuisce amico o fratello, ne vedo comunemente)
Dunque ingegna nel verso appena esaminato è verbo e non sostantivo. L’errore del Tommaseo e del Bellini sorprende tanto più che l’esatta lezione è già presente nella prima edizione (1612) dell’Accademia della Crusca (ultime due righe dell’immagine sottostante).
Ma, allora, attestazioni di ingegna sostantivo non ce ne sono? Dopo lunga ricerca ne ho trovate solo due risalenti entrambe al XIII secolo ma, come vedremo, potrebbero non far testo.
1) in un sonetto7:
(Nobile donna, degna di corona per il valore di cui siete fornita, tanto che il mio cuore disdegna tutte le altre considerando la vostra perfezione, che non credo potesse né possa venire in questa vita una creatura così nobile se Dio non vi mettesse in opera il suo ingegno, come fece con Eva, e il suo vero aiuto).
2) in un sonetto8 di Bonagiunta Orbicciani: Per fino amore lo fiore del fiore avragio/perc’a l’usagio ch’agio si convene,/del gran dolzore sentore al core ched agio/in segnoragio sagio mi ritiene./ Del meo calore splendore de fore non tragio:/ senn’ e vantagio per legnagio vene;/rendo aunore laudore in core, e ‘n visagio/per tal coragio non cagio di spene./ Così lo bene vene in acrescensa,/presgi’ e valensa in caonoscensa regna,/ disvia sdegna, spegnasende orgoglio./La fede spene tene per plagensa,/ valensa pensa che lausor la tegna./ Chi vive a ‘ngegna – pèra – di cordoglio!
Per brevità rendo in italiano corrente solo l’ultimo verso: Chi vive di espedienti9 muoia di dolore!
Ho detto che queste due testimonianze potrebbero non far testo ed affermo questo per due ragioni:
a) ‘ngegna nella prima poesia potrebbe essere stato indotto da esigenza di rima con degna, isdegna e vegna, nella seconda dall’intreccio di rime interne, oltre quelle normali, di cui essa è grondante (non sono rima solo le parole che nel testo non ho sottolineato), gioco in cui è rimasto coinvolto pure ‘ngegna con tegna.
b) quanto affermato nel punto a può trovare conferma nel fatto, non irrilevante, che ‘ngegna non è attestato (meglio non l’ho trovato …) neppure una volta in testi in prosa.
Il venir meno dell’antico italiano ingegna, tuttavia, non costituisce un ostacolo difficile per meglio definire l’etimo di ‘ngegna che credo di poter indicare nel latino ingènia, neutro plurale di ingènium che in epoca classica ha i significati di indole, ingegno, invenzione. Questi significati piuttosto astratti trovano concretezza in quelli che ingenium assumerà in epoca medioevale10: arte, macchinazione, frode, macchina bellica, strumento per pescare (rete o amo o, aggiungo io, esca), strumento nautico atto a portare le navi a terra. Essi, poi, troveranno la loro continuazione moderna prima nel francese engin=strumento, macchina e, da questo derivato, nell’inglese engine.
Cosa impedisce di pensare che dal punto di vista semantico ‘ngegna (da ingègna, neutro plurale) si riallacci, specializzandosi, ai significati medioevali concreti appena riportati e che dal genere neutro con valore collettivo si sia passati, grazie alla terminazione in –a, al femminile singolare, fenomeno, questo, normalissimo che proprio il Tommaseo e Bellini avevano, come abbiamo visto, ricordato nella loro infelice citazione di un verbo scambiato per sostantivo?11 Lo impedisce il sospetto che ‘ngegna possa essere dallo spagnolo aceña=mulino ad acqua , da un precedente assánya che è dall’arabo sāniyah=macchina elevatrice; così l’idea che questo strumento sia stata introdotta dagli Arabi è tutt’altro che campata in aria, anche per il groviglio di incroci emerso nelle voci ricordate in nota 1. Tuttavia c’è da notare che la derivazione da aceña è foneticamente meno lineare di quella da ingenia.
È giunto, comunque, il tempo di concludere giustificando (ammesso che il sospetto di cui ho appena finito di parlare sia infondato e che, al limite, non si sia verificato un incrocio tra l’arabo-spagnolo e il latino) la prolificità di cui si parla nel titolo. Dopo aver ricordato che ingènium è formato da in+gènere, forma arcaica di gìgnere=generare e che la radice di gènere è gen-, la stessa del greco γεννάω (leggi ghennào) =generare e γίγνωμαι (leggi ghìgnomai)=essere, essere creato, nascere, sottopongo all’attenzione di chi mi ha fin qui seguito una nutrita serie di discendenti (chissà quanti me ne saranno sfuggiti!):
gene genesi genetico genocidio genoma genotipo genetliaco congenito genìa endogeno esogeno genio geniale genitale gente gendarme gentaglia gentile gentilezza gentilizio congeniale genealogia, ingenuo genere generare generazione generazionale generale generalizzare generico genericità generativismo degenere degenerare generoso generosità genitore genitrice genitale genitivo gente gentile congegno congegnare ingegno marchingegno ingegnere ingegneristico genocidio genoma genotipo, gonade.
E il dialetto neretino quale altre voci annovera, oltre a ‘ngegna, connesse con questa radice? A parte ‘ngignàre (usato sempre con un pronome in uso riflessivo), i soli verbi cungignàre (in italiano congegnare) e il suo contrario scuncignàre (manomettere) che trova il suo uso traslato più icastico nel participio passato scuncignàtu riferito a persona, come sinonimo di sciatto, disordinato, anche in senso morale.
Sarò, come sempre, grato a chi dovesse segnalarmi qualche altra voce connessa, reale o presunta, anche non neretina.
Va da sé che una voce simile aveva enormi probabilità di diventare nome proprio e precisamente toponimo essendo il nostro dispositivo una parte significativa, se non la più significativa ed importante, del paesaggio rurale di un tempo. Così è avvenuto per La ‘Ngegna, zona di Nardò appena fuori le mura, oggi completamente edificata; così, probabilmente allo stesso motivo deve il suo nome la masseria ‘Ngegna in territorio di Arneo (foto sottostante), su una diramazione a destra della SP359 Salentina di Manduria12.
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1 Dallo spagnolo norìa, dall’arabo ispanico na‘úra, a sua volta dall’arabo nā‘ūrah, con influsso, per quanto riguarda l’accento, di acequìa=canale (dall’arabo ispanico assáqya, a sua volta dall’arabo sāqiyah) e cenìa=macchina per sollevare l’acqua (dall’arabo ispanico assánya, a sua volta dall’arabo sāniyah).
2 Leggi trochalìa.
3 Leggi trochià. Questa voce, insieme con quella della nota precedente e a τρóχος (leggi trochos)=ruota, è dal verbo τρέχω (leggi trecho)=correre. E poi, chi ha reminiscenze classiche ricorderà senz’altro il trocheo, cioè quel piede (metricamente parlando) formato da una sillaba lunga e da una breve (— ∪): τροχαῖος (leggi trochàios), sempre da τρέχω, alla lettera significa che corre svelto e al piede fu dato questo nome perché adatto ad esprimere un ritmo veloce.
4 Glossarium mediae et infimae Latinitatis.
5 Binda, dall’alto tedesco antico winde=argano
6 La forma ricostruita, perciò, dovrebbe essere solo un italiano volgare *tròccia .
7 Attribuito a Ubaldo di Marco nell’edizione a cura di Lodovico Valeriani e Urbano Lampredi Poeti del primo secolo della lingua italiana, s. e., Firenze, 1816, v. II, pag. 60 (da cui riproduco i versi 1-8) e ad anonimo in quella a cura di Bruno Panvini Le rime della scuola siciliana, L. S. Olschki, Firenze, 1962.
8 XII. Riporto il testo integrale da Guido Zaccagnini e Amos Parducci, Rimatori siculo-toscani del Dugento serie I Pistoiesi-Lucchesi-Pisani, Laterza, Bari, 1915, s. p.
9 Qui ingegno è usato nella sua accezione negativa, come sinonimo di intelligenza perversa, cioè furbizia.
10 Riporto sinteticamente tutti questi significati dal citato glossario del Du Cange.
11 Non è ipotizzabile che ‘ngegna abbia un’origine deverbale, perché sarebbe stato ‘ngigna.
12 Così si chiama il tratto in provincia di Lecce della ex SS174 (Manduria-Avetrana-Nardò), mentre il tratto in provincia di Taranto ha preso il nome di SP ex SS. 174 Nardò-Avetrana. Com’è regola in Italia, questo bizantino cambio di nome non ha portato giovamento di sorta alla viabilità.