di Pino de Luca
Il culto dell’uovo nei giorni di Pasqua ha radici remote, legate alla fecondità e alla ripresa della vita. La storia d’Europa e del Mediterraneo ne è pregna. La parola si è poi materializzata nelle endemiche “uova di cioccolata”, a volte ottima e spesso pessima.
Anche nei dolci simbolici e ancestrali c’è stato il culto dell’uovo.
La tradizione scandita dai nomi sopravvive in Sicilia: campanaru o cannatuni a Trapani, pupu ccù l’ovu a Palermo, cannileri nel nisseno, panaredda ad Agrigento e a Siracusa, cuddura ccù l’ovu a Catania, palummedda nella parte sud occidentale dell’isola. Qualunque sia la forma e il nome si tratta di pasta di dolci impreziositi da uova intere cotte nel forno.
Ne abbiamo pure nel Salento, con nomi simili in qualche caso e completamente diversi in altri. I più interessanti sono la “Panareddhra” (dolce) e il “Puddhricasciu” (salato).
Quasi sperduti nella notte dei tempi, ancora qualche forno di paese continua a farli e a sentirsi chiedere cosa siano. La panareddhra ha la medesima radice e formulazione del corrispondente Sicano. Più interessante è la storia del “puddhricasciu”. Almeno nel mito, di incontrovertibili origini leccesi.
… Il Fatalò narra che dimorando San Francesco d’Assisi in Lecce, nel 1219, «giva, secondo il solito dei mendicanti religiosi, limosinando per la città, giunse dinanzi al palazzo di un patrizio (oggi si possiede dalla nobile famiglia dei Perroni ed è immemorabile tradizione dei leccesi che questo fosse stato il palazzo del nostro primo vescovo Santo Oronzo) vi picchiò la porta e chiese per amor di Dio la limosina ; in un subito vaghissimo un paggio diedegli un bianco e grande pane e disparve. Al picchiarvi della porta ere accorso un famigliare della casa a cui San Francesco rendè le grazie in nome di Dio per il pane già ricevuto e che fino a quel punto teneva in mano. Disse colui non essere pane di loro casa, onde, conosciutosi da San Francesco il tratto della divina provvidenza e da quelli della casa il miracolo ne diè i ringraziamenti all’Altissimo e gli altri conservar ne vollero perpetua la memoria, mentre fecero sull’arco della porta scolpire un angelo in atteggiamento di scendere dal cielo ed offrire un pane. Questa memoria sin oggi in quel palagio si vede.» …N. Vacca
Il passo è tratto da Rinascenza Salentina – Anno II, 1934 – pp 207-208.
Quel pane fu nominato “puddhricasciu” e quel rione prese il nome di Pollicastro, per la tendenza a toscaneggiare che s’aveva in quel tempo. Vi sono alcune imprecisioni ovviamente. L’angelo di cui si parla è tipico del 1500 piuttosto che del 1200 e probabilmente quel palazzo non vide mai Sant’Oronzo abitarvi. Ma il rione Pollicastro esisteva per davvero e doveva il suo nome ad una forma di pane bianco con le uova dentro che si portava allu riu …. ma questa è un’altra storia.
La ricetta oggi non c’è, solo l’invito a cercare ancora l’antico “puddhricasciu”, a consumarlo con gli amici sorseggiando un vino nuovo, nuovissimo: il Merlot del Salento della cantina Santi Dimitri. Il primo merlot salentino in assoluto, siamo qui a testimoniarlo come fece il Fatalò per il “pollicastro”, sperando che qualcuno, un giorno, se ne ricordi.
A Copertino il nome è “palummeddha”, ed è salato.