di Rocco Boccadamo
Nel pomeriggio di Giovedì Santo, il tempo non era gran che, per cui, invece di recarmi, per il rito della Cena, al solito, in centro, nel Duomo, ho preferito portarmi nella Parrocchia vicina a casa: peraltro, piena zeppa di fedeli, adornata e attrezzata a puntino per l’occasione, con un folto coro, in mezzo al quale ho scorto il viso di Tiziana, un’amica, che, qualche giorno fa, su Facebook, ha rilevato come una giornalista di Sky si fosse prodotta nella pronuncia “Messa in coena (proprio coena) domini”, dimostrando di essere completamente a digiuno di latino.
Al termine del rito della Cena in parrocchia, piovigginava e, quindi, ho raggiunto direttamente casa, rinviando al venerdì mattina l’adempimento della tradizione di accedere in alcune chiese cittadine e di sostare brevemente innanzi ai relativi altari recanti l’esposizione del Santissimo Sacramento.
Fra i luoghi di culto visitati, la scena che mi ha colpito di più l’ho trovata nella magnifica chiesa di S. Irene, sul Corso, con un affascinante intreccio fra lo spettacolare insieme di un altare barocco e gli ornamenti inseriti nella circostanza della Settimana Santa: tanto, che non ho resistito a riprendere l’immagine con il cellulare.
Purtroppo, proseguendo il giro, ho incontrato alcune chiese chiuse, segno che i tempi non sono facili neppure per le case di Dio.
In mezzo a Lecce, numerosi turisti, arrivati per la Pasqua, da vari paesi: ho personalmente potuto appurare la presenza di una comitiva di austriaci con la loro brava guida e, poi, di un gruppo di tedeschi, provenienti per l’esattezza dalla città di Lipsia. Ancora, mi sono fermato a domandare da dove venissero a una giovane coppia, capelli e carnagione chiara, ricorrendo all’abituale e sommario: “From where are you coming?”, con una pronta risposta che ha preceduto la conclusione della mia richiesta: “Da Barletta!”; al che, è scappato, naturalmente, un sorriso, ai due e a me stesso.
D’altronde, sempre turisti sono, o dall’Austria o dalla Germania o dal nord della Puglia, gente di fuori, attratta da Lecce e dalle sue bellezze.
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Non aveva completamente torto, l’antica zi Tora di Marittima, che, negli anni della seconda guerra mondiale, interpellata da qualcuno su dove si trovassero due dei suoi figlioli chiamati alle armi, con materno affanno, rispose in questo modo: “Eh, comare mia, uno, per fortuna, ce l’ho qua vicino, alla Valona”, riferendosi alla città di Valona in Albania, allora colonia italiana, sull’altra sponda del Canale d’Otranto, effettivamente, in linea d’aria, non molto distante da Marittima e, continuava la zi Tora, “l’altro, al contrario, me l’hannostrarignato”, dove l’accezione dialettale “strarignato” é esattamente traducibile in me l’hanno mandato fuori dal regno o extra regno, “si trova niente poco di meno che a Bari”. Laddove, Bari, anche a quell’epoca, era il capoluogo della nostra regione, e però situato a duecento chilometri da Marittima e, dunque, la differenza di considerazione, nel senso di vicinanza/distanza, fra Valona e Bari aveva un reale fondamento.
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I Sepolcri di oggi, i riti della Settimana Santa nel loro insieme, la Pasqua, per il ragazzo di ieri, riportano alla mente immagini, volti, eventi degli anni della fanciullezza e della fase dell’adolescenza, quando, analogamente, avevano luogo le celebrazioni, ma, chiaramente, in una cornice di tutt’altro genere, completamente diversa. Ad esempio, solo per citare qualche sequenza, la Sacra Cena, nella natia Marittima, vedeva semplicemente una tavola grande rettangolare posta al centro della navata della chiesa, con dodici sedie intorno, dove prendevano posto altrettanti paesani, di varia età – ragazzi, giovani e persone anziane – e a cui s’avvicinava il vecchio arciprete, don Francesco, che, ogni anno con maggiore fatica per via dell’età incalzante, s’inginocchiava per lavare i piedi di ognuno, procedeva con lentezza, appena assistito dal sacrestano,mesciu Vitali, a sua volta vecchio.
Finita la cerimonia della lavanda, l’arciprete prelevava dalla tavola una forma di pane “moddre” oggi diremmo pagnotta, dove pane moddre (morbido) voleva dire cotto da poco nei forni pubblici del paese e dotato, anche, della proprietà, caratteristica di questo tipo di pane, di mantenersi fragrante e mangiabile per più giorni.
E dava un pezzo di tale pane a ogni “apostolo”, insieme con una bottiglia riempita di vino locale.
Così la Cena, una festa ricordata da un anno all’altro, allora, del resto, di feste, non è che ve ne fossero molte.
E finiva il giovedì.
Il giorno successivo, Venerdì Santo, dopo una normale parentesi di lavoro con l’unica eccezione dell’assoluto silenzio delle campane, i riti in chiesa erano incentrati, la sera, nella celebrazione della cosiddetta “Missa scerrata”, scordata, un po’ strana oggi si potrebbe tradurre, che conteneva, al cuore, un panegirico o predica o omelia per opera di un predicatore proveniente da fuori, talvolta la figura si ripeteva, talvolta cambiava ogni anno.
Ed era, la voce del religioso, molto suggestiva, tuonante, vibrante e coinvolgente; arrivava al culmine nel momento in cui, dal pulpito, sempre nella navata centrare della chiesa, era rivolta alla Madonna Addolorata, la chiamava ad accorrere, la statua era portata e issata in alto da quattro giovani di statura elevata e il predicatore, con enfasi intorno a frasi di circostanza, deponeva fra le braccia della Madonna il Crocifisso, come a volerle consegnare il corpo del Figlio finito sulla Croce. Di fronte a quella scena, nella chiesa, ogni anno, s’ingenerava un fenomeno di profondissima commozione generale, che toccava tutti, dai bambini, alle persone grandi, alle mamme, ai papà, ai nonni, e scaturivano pianti, lacrime, insomma un clima assolutamente unico, proprio esclusivo della sera del Venerdì Santo.
Riguardo alla Madonna Addolorata, v’è da precisare che il relativo simulacro in carta pesta, con un volto bianchissimo, ceruleo e un abito di color nero lucido, durante l’arco dell’anno non era conservato nella chiesa matrice, bensì nel convento o Santuario della Madonna di Costantinopoli, alla periferia estrema di Marittima, sulla via per Castro. Sicché, all’inizio di ogni Settimana Santa, occorreva trasferirlo, dal suo abituale alloggiamento, alla sacrestia della parrocchia.
Un compito a cui, per molti decenni, provvide mesciu Miliu, portalettere del paese e facente funzioni di sacrestano nel citato Santuario. Per lo spostamento della statua, egli si serviva di un piccolo traino in legno (trainella), da sospingersi a mano afferrando le stanghe, adoperato, di norma, dai compaesani per caricarvi e trasportare al forno pubblico la “mattra” e i “limmi” (contenitori, rispettivamente, di legno e di terracotta) ricolmi di pasta di farina di frumento, con cui si provvedeva alla periodica panificazione per il fabbisogno familiare.
Mesciu Miliu era, notoriamente, un buon bevitore, non sapeva stare a lungo senza un bicchiere, ragione per cui, in un’occasione, nel tragitto dal santuario alla parrocchia, con la trainella e, sopra, la statua della Madonna Addolorata, egli pensò di fermarsi davanti a una bettola (puteca) per bagnarsi le labbra, parcheggiando il mezzo di trasporto e il relativo contenuto di fronte all’ingresso.
All’uscita, evidentemente brillo e allegro, si profuse nell’eccezionale quanto indimenticata esclamazione: “ Madonna via bella, ti eri mai vista in trainella?”.
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Seguiva, per la gente, una notte leggera, giacché il pensiero, sin da quando si poggiava il capo sul cuscino, era rivolto al mattino successivo, che avrebbe comportato di alzarsi ancora più presto del solito, proprio all’alba: a quell’ora, si muoveva, dalla chiesa, la processione di Cristo Morto, con l’urna del Nazzareno dalle pareti di cristallo trasparenti, preceduta dal simulacro della già citata Madonna Addolorata, fra le cui braccia, la sera precedente, era stato deposto il Crocifisso.
Non mancava nessuno a quella processione, che percorreva ogni strada e viuzza del paese, da cima a fondo in tutte le direzioni, le ore del primo mattino avanzavano in silenzio e il corteo scorreva fra preghiere e saltuari canti intonati alla circostanza.
Un paio d’ore e, in pratica al sorgere del sole, il corteo faceva già rientro in chiesa e i partecipanti, per lo meno gli uomini, avevano il tempo d’indossare gli abiti ordinari e di recarsi in campagna per attendere ad un altro turno di lavoro.
Mi piace ricordare un piccolo particolare.
In questo venerdì mattina, dicevo all’inizio, sono stato attratto, in S. Irene a Lecce, da un sito, con l’esposizione del Santissimo Sacramento: in segno d’omaggio alla Divinità, su quell’altare c’erano diversi fiori.
A Marittima, si era soliti, non so se ciò avviene a tutt’oggi, porre in atto un’ambientazione similare sopra un altare, alla destra del principale, donato alla parrocchia da una nobildonna del posto, donn’Anna Mauro; un tempo, non si parlava, però, di “luogo per l’esposizione del Santissimo Sacramento”, ma di sepolcro, quasi che si trattasse di deporvi il Nazzareno alla stregua di un morto vero, mentre adesso le autorità ecclesiastiche sono restie a mettere in evidenza la rappresentazione della morte nei luoghi sacri.
Dunque, un sepolcro sull’altare di donn’Anna Mauro, in dialetto chiamato “sabburcu”, dove, rispetto al presente, erano, comunque, decisamente diversi gli ornamenti, atteso che, il sabburcu, era reso bello, ornato pressoché esclusivamente da vasi di creta (di terracotta) con, dentro, filamenti di grano lasciato germogliare in cantina. Potrebbero sembrare una cosa da niente simili piante, mentre, invece, conferivano un’immagine bellissima, con gli steli di una tonalità frammista fra il verde e il giallo, offrivano allo sguardo molta suggestione, personalmente le ho conservate vive nella memoria per la loro semplicità e la loro bellezza semplice che non si godeva in nessun altro giorno dell’anno.
Si era abituati a vedere le piante di grano, nei campi, con steli ben più elevati e man mano crescenti dalla semina sino all’intenso verdeggiare primaverile e, quindi, all’ingiallimento in vista della maturazione e della falciatura nei primi giorni d’estate.
Ad impreziosire il sabburcu, erano, invece, infiorescenze e steli atipici, i semi di grano deposti nel terriccio di minuscoli vasi arrivavano a produrre una varietà speciale di pianticelle, giacché il sito in cui avvenivano il germoglio e la crescita era un luogo umido, semibuio, la cantina.
In più, i vasi erano tenuti coperti e, in assenza o penuria d’aria, di luce e d’ossigeno, si determinavano le sfumature cromatiche fra il verde e il giallo.
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Ecco, che dire, i tempi cambiano e, insieme con loro, si rivelano mutevoli anche i correlati problemi, che, alla fin fine, però, sono sempre presenti.
Attualmente, specie in questo periodo, siamo seriamente circondati da una lunga serie di problemi, senza dubbio gravi, che ci devono indurre a riflettere, stare attenti e preoccuparci.