CULTI MAGICO-RELIGIOSI
NEL SALENTO FINE OTTOCENTO
LA NNUCCICATA TI CHIASCIONE
Nella notte di Parasceve
i pastori copertinesi anticipavano la Risurrezione di Cristo
celebrando un loro rito simbolico sul sagrato della chiesa matrice.
La “Nnuccicata ti chiasciòne” (“Piegatura di lenzuolo”)
era la cagliata ivi approntata:
simboleggiando la sindone e quindi l’avvenuta risurrezione
la distribuivano gratuitamente ai poveri e ai derelitti
sicuri che fosse apportatrice della benedizione di Cristo,
riconducibile ai doni della salute, della prosperità, della pace.
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Nel contesto di un dettato storico-sacrale che la figura del Cristo fondeva al costrutto sacrificale degli agnelli nell’insistita cornice di simbolici pascoli e altrettanto simboliche premure per il gregge, i pastori salentini vedevano nella Pasqua non solo la ricorrenza liturgica più importante ma anche il figurativo convenzionale del loro vissuto, che pertanto ne usciva avvalorato nei termini di un’autoidentificazione per rispecchiamento.
Partendo da questa piattaforma di credute equivalenze – comodo strumento di mediazione nel disagio provocato dalle inevitabili contraddizioni insorgenti fra l’investimento metaforico di un privilegio categoriale e la realtà del quotidiano individuale – si sentivano autorizzati ad esprimersi in chiave di libere interpretazioni e rappresentazioni. Con la scusa della loro impossibilità a partecipare alla Messa di resurrezione – in quanto, all’epoca, liturgicamente Cristo risorgeva il mezzogiorno del sabato santo, ora di pascolo per le greggi e quindi di loro impegno nella sorveglianza – si arrogavano il diritto di anticiparne i tempi di proclamazione. Priorità nell’enunciazione peraltro espressa attraverso una ritualità per così dire autonoma, cioè discostata da quelli che erano gli ufficiali canoni ecclesiastici, pur se, in definitiva, a questi si rifaceva traducendone in proprio la manifestazione simultanea dell’emozione, dell’azione e della trasmutazione. Emozione come adesione affettivo-memoriale dell’evento messianico; azione come riconoscimento interpretativo del sublime nella donazione – insito nella passione, morte e deposizione del Cristo -; e trasmutazione nel senso celebrativo di quell’energia vitale che si era appalesata nel momento della risurrezione; energia che loro, arbitrariamente accostando al misterioso intervento divino il tentato parametro di una possibile rappresentazione umana, prefiguravano nel processo enzimatico del latte. Un assunto la cui peculiarità costitutiva si imperniava su una voluta esaltazione dei significanti, primo fra tutti quello di una presunta complicità di Dio, che nella compiacenza di un’elezione a beneficio categoriale, li voleva nelle vesti di fervorosi pur se anomali ministri.
Da ciò si può evincere come nell’ambiente pastorizio vigesse il legame con un arcaismo di marca ebraica attestante, nella strutturazione mentale del divino privilegio, l’implicito riporto a Israele, popolo eletto per antonomasia, gratificato dalla facilitazione a un esodo tanto storicamente liberatorio quanto miticamente consolatorio. Popolo dedito appunto alla pastorizia, organizzato in tribù i cui vertici patriarcali avevano non solo il diritto al comando ma anche il permesso all’officiatura, da intendersi come rapporto diretto conla Divinità al di fuori di ogni intermediario.
Sarebbe certo di troppo affermare che, nel compiere la loro ritualità pasquale, i pastori fossero consapevoli dell’originaria matrice e di riflesso agissero in netta funzione rievocatoria di quello che – nella loro misura cognitiva – si poneva come il più remoto degli atavismi. Col trascorrere del tempo e più che altro con l’avvenuta sovrapposizione del Cristianesimo si era determinata un’intersecazione di moduli fideistici per cui anche le suggestioni evocative dell’eredità arcaica ne uscivano commiste venendo a creare nella dominante simbolica un’interscambiabilità di applicazioni. Nel momento che si accingevano a dare corpo alla ritualità pasquale avveniva un’assunzione globale di moventi che, scartando ogni differenza o incidenza cronologica, flettevano fra la visita al sepolcro di Cristo e il cammino versola Terra Promessa, antonomastica meta del celebrato esodo. Due elementi fusi in un’unica funzione liberatoria, perché se l’esodo biblico era valso ad affrancamento dalla schiavitù egiziana e contemporaneamente dal nomadismo – grazie ai pascoli opulenti di una terra dove scorreva latte e miele -, l’andata al sepolcro di Cristo valeva la remissione delle colpe commesse e quindi ad accaparrarsi la promessa del paradiso. Un senso di rinascita spirituale che prendeva corpo dal loro raccogliersi in gruppi sotto la guida degli anziani per subito uscire dall’abituale dimora e affrontare a piedi il lungo cammino nella notte, eloquente figurale e della dolorosa Via Crucis e della faticosa marcia nel deserto.
Sul calare della notte di Parasceve infatti, nelle masserie sparse nel profondo della campagna copertinese, si avvertiva un clima frenetico e insieme sofferto, quasi aleggiasse nell’aria la consapevolezza di una imminente partenza sospesa alla dialettica di una necessaria reintegrazione morale ottenuta attraverso l’offerta olocaustica. Un procedere alla cancellazione di ogni colpevolezza – singola e collettiva – che prendeva avvio nel momento che si provvedeva a trasferire il bestiame, togliendolo dagli abituali stazzi esterni per ammassarlo intr’a lla curte ti lu mmàsunu, ovverosia lo spiazzo situato all’interno dell’arco d’ingresso e di solito prospiciente la casa del massaro. Un provvedimento che si offriva a ulteriore chiarificazione di quello che era l’atavico nucleo ideologico che governava l’agire: nella spontaneità delle equivalenze non elaborate mentalmente ma avvertite sensibilmente quale frutto di avvenute sedimentazioni, quel cortile, così invaso di pecore e agnelli, veniva a rapportarsi ai recinti del tempio di Salomone dove i pellegrini israeliani ammassavano i capi del bestiame in offerta, subito abbandonandoli per recarsi il più vicino possibile all’Arca e attendere alla propria depurazione.
Quasi vedessero rinsaldare il circuito delle affinità, anche i nostri pastori si comportavano allo stesso modo: non appena si assicuravano di aver convogliato nel recinto tutti i capi di bestiame, si estraniavano da ogni immanenza di cure terrene, cercando integrazione solo nell’urgenza di raggiungere il sepolcro di Cristo, dove di lì a poco, nel contesto della loro ritualità a nette scansioni testamentarie, la vita avrebbe trionfato sulla morte.
Sbarrato il portone d’ingresso, legato ai battenti due cani scelti fra i più svegli e aggressivi e accesa la linterna ti lu camìnu (la lanterna da viaggio), mmassàru, picuràri e ppicurasciùli (massaro, pastori e pastorelli), lasciando le donne nella masseria, a gruppo stretto e a marcia serrata si avviavano frettolosamente verso il paese, ad ogni curva o bivio invocando l’aiuto di Santu Ggiuànni ti lu picurièddhru, cioè San Giovanni Battista che, per essere appunto iconograficamente raffigurato con in un braccio un agnello, consideravano loro particolare protettore.
Quella notte, nel desiderio di renderne concreta la presenza e quindi ottenere il desiderato aiuto, il capogruppo simbolicamente ne assumeva l’identità facendo – per così dire – piovere dall’alto ogni sua parola, incitamento o raccomandazione, cioè intercalando nel dialogo un’autoritaria declinazione di accredito: “Cu lla occa mia stà cconta lu Ggiuanninu” (“Con la mia bocca sta parlando Giovannino=San Giovanni Battista”). Curioso scambio di oggettività nel linguaggio, per di più adottato non soltanto nei confronti degli altri componenti il gruppo, ma addirittura usato con il mulo che li accompagnava trasportando sulla groppa nnu cutrùbbu (un recipiente di zinco della capacità di cinque litri) pieno di latte e nna mmarzàta, ossia un secchio di legno provvisto di coperchio, normalmente usato per il trasporto delle marzòtiche (pezzotte di formaggio fresco impastato con erbe aromatiche) ma che quella notte si portavano dietro vuoto, più esattamente con all’interno un rametto verde di mortella.
Punto di convegno dei vari gruppi era il sagrato della chiesa matrice, a quell’ora già chiusa e perciò emanante una gelosa accumulazione di trascendenza che la rendeva dolorosamente fusa all’atmosfera di quella notte già di per sé stessa satura di mistero. Notte sacra che sembrava trasformare gli umidori del selciato in lacrime rapprese e rimandare in permanenza di echi i singulti della Vergine Addolorata, la cui statua poche ore prima era stata portata in processione per le vie del paese, passando da chiesa a chiesa, da cappella a cappella nell’affannata ricerca del Figlio crocefisso. Un peregrinare sincopato dal rullìo funebre dei tamburi e convertito in assillo umano dal coro lamentoso delle donne che interpretando, da madre a madre, lo strazio della Madonna, chiedevano a gran voce, spesso roteando su sé stesse:
“Fìgghiu, fìgghiu mia!… a ddò stàe lu fìgghiu mia?!… Lu stà ccercu e nno llu ttròu!… Fìgghiu, fìgghiu mia!… Ticìtime a ddò stàe lu fìgghiu mia!…”
Richiesta tanto umanamente delirante quanto spiritualmente ancorata ai sensi di una catarsi la cui certificazione si era esplicata a processione conclusa, su quel sagrato appunto, quando il padre quaresimalista, rimasto ad attendere in chiesa, aveva spalancato la porta facendo portare all’aperto e proprio ai piedi dell’Addolorata l’urna di vetro con dentro la statua del Cristo morto: “Ecco tuo figlio”, aveva esclamato con voce accorata, e cincischiando un rettangolo di lino bianco a simbolica testimonianza del sudario, aveva precisato: “E’ morto Maria, è morto in croce per i nostri peccati!”.
Cadendo in ginocchio e battendosi il petto a pugni chiusi, il popolo aveva singhiozzato:
“Pi’ lli piccati nuésci è mmuértu… pi’ lli piccati nuésci è mmuértu an croce!… Pirdònane, Maria, comu nn’à ppirdunàtu Iddhru!…”
Come fosse doverosa assimilazione di un sollecito al pentimento, anche i pastori, salendo i gradini del sagrato, proiettavano sul metafisico schermo di quella notte la loro dolorosa considerazione, ripetendo – ognuno per suo conto e tutti insieme – “E’ mmuértu an croce pi’ lli piccati nuésci… pi’ lli piccati nuésci è mmuértu an croce…”.
Un intrecciarsi di voci basse, di parole sussurrate che si interrompeva di colpo non appena raggiunta la porta della chiesa, ai cui stipiti i componenti dei vari gruppi si addossavano in silenzio nell’attesa che lu nannimmassàru (il nonno massaro, ossia il più anziano fra di loro) li raggiungesse. Questi infatti non saliva subito e insieme agli altri i gradini del sagrato: si attardava sulla strada prospiciente la chiesa al fine di dare previa sistemazione al rituale che nel suo svolgimento non doveva essere turbato da distrazioni o preoccupazioni di ordine materiale.
Coadiuvato da due giovani aiutanti agiva con decisione, e nell’impartire i suoi ordini spesso preferiva al suono delle parole l’eloquenza dei gesti, quasi volesse accreditare una sorta di iniziatico misterioso cifrario. Bisognava infilare il muso dei muli dentro li puppàri (i sacchetti di iuta dentro i quali a ristorazione delle bestie si mettevano manciate di biada), scegliendo il punto più riparato dove farli riposare; bisognava trasportare sul sagrato li cutrùbbi pieni di latte e li mmarzàte con dentro il rametto di murtèddhra; e infine si doveva accendere nel mezzo della strada un piccolo falò di ramaglie d’ulivo, cosa che si faceva battendo forte l’acciarino sobbra’a nna èsca ti pirnacòcchia (su un’esca ricavata dal tronco marcito di un albicocco) cosparsa di salnitro.
Al primo divampare del fuoco lu nannimmassàru si chinava a baciare per terra e subito dopo, tracciando nell’aria un grande segno di croce, dava il via allo svolgimento della cerimonia schioccando la lingua contro il palato e ricavandone quel suono caratteristico che era il loro abituale richiamo delle mandrie. Da quel momento non si poteva pronunciare parola che non fosse di preghiera, e anche nel muoversi si doveva fare attenzione a non suscitare rumori capaci di incrinare il silenzio o, come usavano dire, nfastitiàre lu ssignùttu ti l’Angilu ca stàe ncucculàtu nnanzi a lla petra ti lu santu sipùrcu (infastidire il singhiozzare dell’Angelo che sta accoccolato davanti alla pietra che ottura l’ingresso del santo sepolcro).
Era perciò con mosse lente, quasi timorose, che i pastori si staccavano dalla porta della chiesa per convenire l’uno dopo l’altro al centro del sagrato e deporre a terra i loro bastoni, sovrapponendoli a forma di croce in chiaro riferimento all’avvenuta deposizione di Cristo. Un gesto che, al di là di ogni valenza memoriale, veniva assunto attivamente come doverosa risposta all’appello da parte dei capifamiglia, la cui singola identità si intendeva appunto dichiarata e testimoniata dalla presenza del bastone.
L’ultimo a declinare – si fa per dire – le proprie generalità era lu nannimmassàru, che dopo aver salito lentamente i gradini del sagrato, deponeva il suo teste al vertice della piccola catasta calcandolo con le mani a più riprese, quasi volesse mettere in risalto l’ipotetica apposizione di un sigillo di compatibilità fra la suggestione di un figurato rievocatore e la tangibilità del quotidiano. Un gesto di qualificazione sociale esercitato non come semplice potere acquisito con l’età, bensì come frutto di un’avvenuta elezione nel cui conferimento era sottinteso un preciso privilegio divino, oseremmo dire una predestinazione a condottiero di popoli. Legittimazione che acquistava sostanza di convincimento ideologico sovrapponendo alla realtà dell’azione l’allegoria di un immaginario ambientale triangolato fra il divampare delle ramaglie nel mezzo della strada – riporto al mitico roveto ardente –, la nudità del sagrato simboleggiante il deserto, e la presenza dei bastoni valevole tanto come certificazione di cammino, quanto come dichiarazione di arrivo nella terra promessa. Arrivo come sospensione di penitenza, come conquista di potere, come affermazione di spettanza.
Con il lento spegnersi del piccolo falò scattava infatti la tacita comunicazione di un mutamento in atto, ovverosia cessava quello che poteva intendersi come scenografico riporto alle mitiche radici bibliche immettendo, sia per completamento sia per superamento, in un pregnante clima neotestamentario. A chiave di svolta del graduale passaggio veniva eletto il latte, più precisamente le sue proprietà enzimatiche, proprietà che, come abbiamo già detto, nel processo ideativo dei pastori ben si comparavano a quella combustione di energie vitali che aveva determinato la resurrezione di Cristo. Ne conseguiva un’immediata parificazione fra i pastori presenti sul sagrato, quale trasformazione della patriarcalità nei ritmi indifferenziati di una collettività che annullava la privativa del geloso “io” nell’amplificazione di un “noi” tanto più valevole quanto maggiormente espresso nell’uniformità dell’agire.
Smessi i panni di Mosè – figura antonomastica del celebrato esodo – lu nannimmassàru rientrava nel gruppo, assieme agli altri intonando a mo’ di preghiera:
“Lu fuécu s’à stutàtu
e cce gghète… e cce nno gghéte…
lu santu patriarca nduliràtu
si nn’à sciùtu rretu a llu parète.
Stà spètta la nzuppittàta
ti l’àunu mmaculàtu
ca intr’a lla rutta mpitràta
si nni stàe mpannàtu”.
“Il fuoco si è spento / e cosa succede… e cosa non succede…/ il santo patriarca addolorato / se n’è andato dietro al muro. // Sta aspettando il risveglio / dell’agnello immacolato / che dentro la grotta ostruita da una grossa pietra tombale / se ne sta addormentato”.
A “grotta ostruita da una grossa pietra tombale” veniva focalizzata la porta della chiesa, a ridosso della quale i pastori allineavano li mmarzàte, pronti a riempirli con il latte trasportato nei capaci cutrùbbi. Un travaso che eseguivano con religiosa delicatezza, attenti a sincronizzarne il flusso affinché simultaneo risultasse il momento delle varie colmature e altrettanto simultanea l’immissione dei pizzichi di caglio che, a travaso avvenuto, lasciavano cadere nel latte, a questo amalgamandoli con un lungo tramestio circolare eseguito con i rametti verdi di mortella. Il tutto in una crescente assimilazione di solleciti emotivi, sicché quella che di base voleva essere motivazione mitico-allegorica si trasformava in tensione oggettiva, sorpassando il compiaciuto senso di partecipazione al rito in favore di una profonda immedesimazione. L’iniziale misura di memento cedeva infatti il passo all’azione del momento, e i convenuti sul sagrato non si consideravano semplici coadiutori al buon andamento della celebrazione: si sentivano protagonisti nella totalità del significato, e accoccolati sui talloni – ognuno accanto il più possibile alla propria mmarzàta – attendevano in religioso silenzio il concretizzarsi dell’evento, convinti che lo stesso potesse trarre forza di esplosione anche dalla loro affettuosa presenza.
“L’àngilu à nnuccicàtu lu chiasciòne!” (“L’angelo ha ripiegato il lenzuolo!”), proclamava lu nannimmassàru non appena constatava il definitivo indurimento della cagliata; e questa volta, non essendo in clima di passione e morte e quindi non più vincolato alla mortificazione e al silenzio, batteva forte le mani, palma contro palma, incitando i presenti: “Asàmu a nterra e spartìmune lu bene ca Cristu nn’à rricalàtu” (“Baciamo a terra e scambiamoci il bene che Cristo ci ha regalato”).
Se baciare per terra era gesto di ringraziamento e lode a Dio, spartirsi il bene ricevuto significava mettere in atto il comandamento dell’amore fraterno, per prima cosa cancellando dal proprio animo ogni eventuale dissapore nei confronti del prossimo. Un invito che nel contesto del rito celebrato nella notte di Parasceve, non si poneva come frutto di vana retorica, essendo più che risaputo come, fra pastori, spesso e volentieri si entrasse in rivalità: per la contesa di un pezzo di pascolo, per la perdita di un capo di bestiame o sia pure semplicemente per gelosia connessa alla maggiore o minore fortuna nello smercio dei prodotti.
Quali che fossero i motivi del risentimento, questo non poteva e non doveva permanere fra i convenuti sul sagrato: all’invito del nannimmassàru dovevano subito riconciliarsi, tant’è che, a segno tangibile del ritrovato sentimento fraterno, usavano scambiarsi i secchi con le relative cagliate: “A tte la nnuccicàta mia, a mme la nnuccicàta tua”.
Traendo spunto dal passo evangelico che racconta come nel sepolcro scoperchiato fu rinvenuta soltanto la sindone ripiegata, la cagliata preparata sulla soglia della chiesa veniva detta “nnuccicàta ti chiasciòne” (“piegatura di lenzuolo”), intendendo con tale denominazione alludere alla sua simbologia e sottolinearne le proprietà sacre che aveva sviluppato. Metaforicamente elevata a sudario di Cristo non poteva infatti non rappresentarlo e quindi essere vista come apportatrice della sua benedizione riconducibile ai doni della salute, della prosperità, della pace.
Affinché il rito avesse, oltre all’equivalenza mitico-psicologica, la concretezza di un tracciato informatore, il principio – fino a quel momento perseguito idealisticamente o al massimo come cementazione di rapporti categoriali – doveva attuarsi a livello comportamentale più vasto, ovverosia ricondotto alle radici primarie dell’amore fra tutti e per tutti. La cagliata approntata sulla soglia della chiesa nella notte di Parasceve – simbolicamente eletta a testimone del trionfo nel conflitto fra la dualità morte-vita, tenebre-luce, condanna-redenzione – andava perciò distribuita gratuitamente, destinando a fruitori di tanto dono i più poveri e derelitti.
Ancor prima che l’alba schiarisse il cielo, i pastori, con appese al braccio le loro mmarzàte colme di cagliata, si sparpagliavano per il paese, percorrendone il dedalo di viuzze e vicoli alla ricerca di usci filtranti luce, segno convenzionale che in quella casa si poteva fare l’opera di misericordia: c’era un ammalato, una partoriente, un orfanello o più comunemente un vecchio.
“Chiasciòne ti Cristu!…” (“Lenzuolo di Cristo!…”), annunziavano con voce cantilenante, e battendo con un cucchiaione di legno sulla fiancata del secchio, attendevano che la porta venisse aperta e nel tenue fiotto di luce si delineasse l’orlo di un piattino entro il quale deporre tre cucchiaiate di cagliata: “Quista comu pruitènzia ti lu Patre, quista rricàlu ti lu Fìgghiu, quista asu ti lu Spìritu Santu” (“Questa come provvidenza del Padre; questa, regalo del Figlio; questa, bacio dello Spirito Santo”).
Così di strada in strada, di vicolo in vicolo, di porta in porta, finché nei secchi non rimaneva che un sottile strato di cagliata, capace appena di coprirne il fondo: era lu rispìcu ti la ràzzia (il racimolo della grazia), ossia la porzione di benedizioni che i pastori trattenevano a beneficio delle proprie famiglie, nonché del gregge a loro affidato. Una volta tornati nelle masserie – il che avveniva subito dopo l’alba – si premuravano infatti di versare questo residuo dentro nnu fiscariéddhru (un piccolo cestello di giunchi intrecciati usato per sgrondare la ricotta), ricavandone una pezzotta di pseudoformaggio che poi seccavano rigirandola quotidianamente nel sale, accorgimento reso necessario dal fatto che, essendo il composto a base di latte non cotto, tendeva a inacidire. E se per qualsiasi prodotto caseario l’inacidimento rappresentava un pericolo da evitare, nel caso specifico sarebbe stato recepito come il peggiore degli accadimenti, in quanto superstiziosamente interpretato come presagio di sventura per la masseria: le persone che vi abitavano si sarebbero di certo ammalate; il gregge sarebbe stato decimato da qualche morìa; i pascoli distrutti dalla grandine; e c’era il rischio che financo le opere murarie avrebbero accusato un improvviso deperimento. Questo perché la piccola forma di formaggio ricavata dai residui della nnuccicàta ti chiasciòne non veniva vista alla stregua di un qualsiasi prodotto destinato al normale consumo, bensì ritenuto elemento apotropaico, tanto più efficiente in quanto commestibile.
Una volta indurita, infatti, la si metteva gelosamente da parte, se possibile addirittura sotto chiave, ricorrendovi solo in caso di bisogno, cioè quando occorreva sventare una minaccia, arginare un pericolo, combattere una malattia, ristabilire la pace in una famiglia lacerata da gravi discordie.
Se in famiglia scoppiavano liti o si temevano delle infedeltà, le donne ne grattugiavano un pezzettino e lo mescolavano alla pasta del pane, sicure di esorcizzare in tal modo lo spirito della discordia e riavere integro l’amore del marito; sempre grattugiata e sempre a parsimoniosi pizzichi, veniva aggiunta alle minestre degli ammalati per affrettarne la guarigione, al pancotto degli anziani per salvaguardarli dal micidiale risintèriu (dissenteria) e financo inserita nelle pupatelle (succhiotti) degli infanti, soprattutto nel periodo critico della dentizione, spesso costellato da febbri e deperimenti. Né da tanta panacea venivano escluse le bestie, ché anzi si può dire ne fossero le maggiori fruitrici: nessun massaro dimenticava di elargirla alle sue pecore gravide, certo di aiutarle in tal modo a partorire agnelli sani e di vello bianco; con la stessa premura ne assicurava una porzione ai capri e ai tori da monta per regolare la pericolosa violenza, così come non mancava di somministrarla ai puledri per renderli docili alla domatura. Si può ben dire che financo i cani riuscivano ad assaggiarla, anche se, in verità, solo di traverso e cioè quando, nell’incalzare di una tempesta, il massaro, per placare la furia degli elementi, ne gettava un pezzettino all’esterno, certo di salvaguardare così i campi dalla grandine e a tenere lontane eventuali trombe d’aria.
Tutte queste credenze sui poteri “soprannaturali” della nnuccicàta ti chiasciòne derivavano dal fatto che le benedizioni assorbite durante il rito nella notte di Parasceve erano state determinate dalla forza enzimatica del latte, principio base dell’operato-vissuto pastorizio (riportabile all’agricolo impinguarsi della spiga) e quindi anche fulcro di tutta una formulazione di implicazioni superstiziose. Il positivo o il negativo di una masseria, infatti, si decretava in base alla maggiore o minore riuscita del caglio giornaliero, ché se questo accidentalmente (imperizia nella preparazione, condizioni atmosferiche sfavorevoli o anche difetto di pascolo) per più giorni sortiva male, non si esitava a parlare di malocchio e di conseguenza richiedere con urgenza un intervento esorcistico, non dissimile da quello richiesto per una scarsa fermentazione del vino o per un insolito inverminirsi del grano.
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Nino Pensabene, quale collaboratore ed erede dell’autrice, si riserva tutti i diritti.
“Mmàusu” e non “mmasùnu”.
Sicuramente gli esperti di antiche masserie mi avranno già battuto per un involontario errore di digitalizzazione. Si trova all’ottavo rigo del paragrafo che inizia “Sul calare della notte di parasceve”.
A parte il fatto che “mmasùnu è proprio delle galline e degli uccelli, lo “spiazzo situato all’interno dell’arco d’ingresso e di solito prospiciente la casa del massaro” non poteva essere un abituale ricovero delle mandrie, adibito in via del tutto speciale per quella particolare notte, da un punto di vista pratico riguardante la sicurezza – trovandosi all’interno del portone – e dal punto di vista simbolico spiegato attraverso la “chiarificazione” che segue immediatamente, quella che riporta infatti “ai recinti del tempio di Salomone e agli usi dei pellegrini israeliani”.
In sintesi, la “curte ti lu mmàusu” era il cortile dove abitualmente avvenivano i lavori successivi alla mietitura del grano, tipo appunto la legatura dei mannelli di spighe, in copertinese chiamata “mmàusu”. L’aia di campagna, insomma.
Chiedo scusa per l’errore e auguro a tutti una buona Pasqua.
e mi auguro che l’amico Armando trovi una spiegazione per questo inedito termine, almeno a me sconosciuto.
Auguri anche a te, Nino, e grazie a nome di tutti gli Spigolatori per averci fatto il dono pasquale di questo originalissimo “pezzo” di Giulietta
Più che un commento un chiarimento…all’inizio del testo si afferma che solo gli uomini lasciavano le masserie per recarsi in paese. Ma poi si racconta che il rito sacro cominciava con un canto da parte delle donne. Da qui la mia domanda, chi erano queste donne? Come mai si trovavano lì?
Chi ha letto attentamente, o per lo meno non affrettatamente, si è reso conto che il coro lamentoso delle donne non è in relazione al rito de “La nnuccicata ti chiasciòne”, ma alla processione della Madonna addolorata, avvenuta nella serata del venerdì:
“Notte sacra che sembrava trasformare gli umidori del selciato in lacrime rapprese e rimandare in permanenza di echi i singulti della Vergine Addolorata, la cui statua poche ore prima era stata portata in processione per le vie del paese, passando da chiesa a chiesa, da cappella a cappella nell’affannata ricerca del Figlio crocefisso. Un peregrinare sincopato dal rullìo funebre dei tamburi e convertito in assillo umano dal coro lamentoso delle donne che interpretando, da madre a madre, lo strazio della Madonna, chiedevano a gran voce, spesso roteando su sé stesse:
“Fìgghiu, fìgghiu mia!… a ddò stàe lu fìgghiu mia?!… Lu stà ccercu e nno llu ttròu!… Fìgghiu, fìgghiu mia!… Ticìtime a ddò stàe lu fìgghiu mia!…”
Richiesta tanto umanamente delirante quanto spiritualmente ancorata ai sensi di una catarsi la cui certificazione si era esplicata a processione conclusa, su quel sagrato appunto, quando il padre quaresimalista, rimasto ad attendere in chiesa, aveva spalancato la porta facendo portare all’aperto e proprio ai piedi dell’Addolorata l’urna di vetro con dentro la statua del Cristo morto: “Ecco tuo figlio”, aveva esclamato con voce accorata, e cincischiando un rettangolo di lino bianco a simbolica testimonianza del sudario, aveva precisato: “E’ morto…”
A proposito di “mmàusu” mi dispiace che l’autrice non è più fra noi per poterci dare i chiarimenti necessari, ma so di sicuro (e basta essere anziani, o pastori o contadini o persone che hanno dedicato la vita nella ricerca di questo tipo di linguaggio), sono sicuro, dicevo, che nella “curte ti lu mmàusu” avvenivano tutti quei lavori conseguenti alla mietitura, tipo, mmàusare, scernitàre, ecc. (leggendo tutti i lavori della Giulietta, chissà quanti altri termini consimili potrei trovare). Mi dispiace che l’esperto non sono io, né ho la presunzione di esserlo. Sicuramente potrà darci qualche chiarimento l’amico Armando Polito, che saluto.
Ricambio il saluto e mi faccio da parte cedendo, doverosamente, la parola al Rohlfs. A pag. 327 del suo Vocabolario, lemma màusu, attestato per il Brindisino ad Erchie e per il Tarantino ad Avetrana: “legame del manipolo di spighe [lat. balteus=cintura]; vedi àusu, mmausare”.
Al lemma àusu, attestato per il Leccese a Castrì di Lecce, Novoli e Vernole e per il Tarantino a Manduria insieme con àuzu (Uggiano Montefusco) e a Sava (con pronunzia sonora di z): “legame con cui si lega il manipolo o il covone di grano [lat. balteus=cinghia], v. bazu, vàusu”.
Al lemma bazu (attestazione non orale per Lecce) insieme con barzu (attestato per Seclì): “legame del manipolo di grano [lat. balteus=cintura]; v. ausu, vàusu, azu, vazu”.
A vàusu, registrato per Ugento insieme con vàvuzu per San Giorgio sotto Taranto, vàuzu per Mesagne, vazu per Cutrofiano, Nardò, Parabita, Seclì, Sogliano e Carovigno, varzu per Aradeo e Sogliano, varsu per Ruffano, vosu per Castrignano del Capo, Patù e Salve, vozu per Fragagnano, vanze per Ostuni, valze per Massafra e, con pronuncia sonora di z, a Cisternino, vàsele a Ceglie Messapico: legame del manipolo di grano [lat. balteus=cintura].
Evito, per brevità e perché nulla aggiungono ai fini di quanto sto per dire, di riportare gli altri lemmi con valore di sostantivo, oggetto di rinvio da parte del Rohlfs.
Per quanto riguarda i verbi: al lemma mmausàre, (registrato per il Leccese a San Cesario di Lecce e per il Tarantino a Manduria, nella variante mmauzàre a Sava, mbasàre a Galatone (ne approfitto per ricordare che mbasàre a Nardò è sinonimo di socchiudere le imposte e ha tutt’altro etimo: da in+basare=poggiare sulla base): “legare il manipolo di spighe; v. bbausàre”.
E, a bbausàre, infine, attestato per Novoli e Otranto: “legare il manipolo [lat *ad-balteare]”.
Mi limito solo a riconsiderare il verbo mmausàre; al lemma corrispondente (attestato nel Leccese per San Cesario di Lecce e per il Tarantino a Manduria, e, nella variante mmauzàre a Sava, mbasàre a Galatone; ne approfitto per ricordare che la stessa voce a Nardò è sinonimo di “socchiudere le imposte di una finestra o una porta” e ha tutt’altro etimo: da in+basare=poggiare sulla base): “legare il manipolo di spighe; v. bbausàre”.
A bbausàre, infine, attestato per Novoli e Otranto: “legare il manipolo [lat *ad-balteare]”.
Anche qui lo studio delle varianti si mostra illuminante. Per farla breve, per quanto riguarda il sostantivo la forma più vicina al latino bàlteus è quella di Seclì: barzu, che rispetto alla voce latina mostra evoluzione fonetica da manuale. Tutte le altre forme sono ulteriore sviluppo di barzu.
Il verbo bbausàre, poi, aiuta a capire la formazione di màusu.
All’inizio mi ero fatto da parte, ma pensavate che la cosa potesse continuare?
A miserrima integrazione (bella figura!) di quanto detto dal Maestro ho solo da dire che nella formazione di mmausàre rispetto a bbausàre interviene non la preposizione “ad” ma “in”: *inbalteàre>imbalteàre>mbausàre>mmausàre; e da questo verbo, infine, prima mmàusu (la nostra voce) e poi màusu (quella registrata dal Rohlfs).
Siamo stati fortunati che il Rohlfs nel suo dizionario abbia riportato il nostro termine con relativo significato, perché il maestro (e questo era l’osservazione che, pur giustificandolo, gli muoveva la Giulietta) nella sua ricerca non ha coperto tutto il linguaggio del dialetto salentino. Molti, moltissimi termini sono assenti. Questo non sminuisce la sua grandezza e la devozione che il Salento è tenuto a tributargli, ma non dimentichiamo che era un ricercatore tedesco, non era cioè nato e cresciuto in loco e in tempi quando tutti parlavano il dialetto per cui aveva già di suo assorbito un linguaggio parlato e ascoltato che magari andava semplicemente approfondito e confrontato con altri paesi.
Io so che la Giulietta, a suo merito, diceva sempre: “Io ho trascorso l’infanzia e la giovinezza fra contadini e massari; sei mesi l’anno addirittura a tu per tu in campagna, quando per ettari ed ettari era tutto un formicolìo di contadini e di massari appunto”. La sua ricerca in effetti, continuata o condotta negli anni della maturità aveva già le basi consolidate.
In quanto alla “curte ti lu mmàusu”, per me stesso faceva parte del linguaggio parlato giacché ancora dopo sposati (1965) avevamo in proprietà più di una masseria: ne cito una, “Lu garzùtu”, situata al confine fra Copertino e Nardò.
“Mmasàre” (che nulla ha da vedere con “mmausàre”) anche a Copertino è sinonimo di “socchiudere le imposte di una finestra o una porta.
Va detto, ad onor del vero, che pure il Rohlfs condusse la sua ricerca sul campo e, pensando alla sua terra d’origine, al fatto che chi parla il dialetto quasi vergognandosene (allora, perché oggi si parla comunemente un italiano che esteticamente e grammaticalmente fa schifo…) tende ad italianizzarne i vocaboli, nonché all’attendibilità (in buona o in cattiva fede…) dei suoi informatori e delle fonti consultate, la sua opera ha del miracoloso. E si tratta di un miracolo (non mi stanco mai di ripeterlo) del quale non è stato capace un salentino e tanto meno un lombardo…Per motivi, poi, di spazio, egli non poteva spiegare tutti i passaggi fonetici che sottendono le varianti. In fondo, quasi tutti i miei interventi etimologici sono ispirati proprio da questo intento divulgativo, dalla volontà di attenuare, cioè, la distanza che ancora, nonostante tutto, permane tra la conoscenza settoriale e la sua fruizione da parte del lettore non particolarmente o per nulla preparato in quel campo. Insomma, uno spirito di servizio che spesso nei lavori, per così dire, originali, finisce per slittare in passaggi che a qualcuno potranno sembrare anche banali.
E, a proposito dello spirito di servizio, “mbasàre” neritino è da “imbasàre” con aferesi di i-, “mmasàre” copertinese è sempre da “imbasàre” con aferesi di i- (imbasàre>mbasàre) ma anche con successiva assimilazione -mb->mm.
Ben detto Armando, dobbiamo solo assoluta riconoscenza al Rohlfs, il quale, come tu stesso precisi, ha fatto per la nostra lingua più di chiunque altro, un piccolo miracolo che non è riusciuto a nessun altro, salentino o lombardo o tedesco che sia.
Complimenti al sig. Pensabene per questo splendido articolo e per averci fatto conoscere un termine così antico e desueto quale è lu “Mmàusu”. Scavare nel passato della nostra lingua e cercare in essa la nostra civiltà (quella contadina s’intende) fa della compianta studiosa e artista Giulietta Livraghi una delle più splendide figure del Salento contemporaneo.
Io francamente non avevo dubbi sul termine “Mmàusu”, e ciò non vuole screditare l’ottimo contributo del sig. Polito, perché il conforto viene proprio da quella cieca attendibilità riservata, nel settore dell’antropologia, alla compianta N.D. Giulietta Livraghi Verdesca Zain.
Vorrei muovere un appunto circa l’attendibilità del Rolfhs. Non possiamo dire che il termine menzionato da Pensabene (leggasi Giulietta Livraghi) esiste sol perché questo studioso lo “elenca” nel Dizionario e ciò poiché, negli ultimi tempi, gli stessi studi del Rolfhs sono soggetti ad una revisione critica da parte di dialettologi e glottologi (si vedano i nuovi studi sulla lingua osca e i suoi collegamenti con l’albanese e da qui alla lingua romanza da cui provengono non pochi termini dialettali del Salento). Se un dubbio deve muoversi, direi, è quello relativo al termine “mmasùnu” che sicuramente non esiste essendoci invece il tipico “mmàsunu” (complimenti all’autore per la responsabilità assuntasi nel constatare l’errore. Qualità ormai rara, a parer mio, per l’umiltà carente in tanti pseudostudiosi).
Complimenti alla redazione tutta per gli ottimi contribuiti che quotidianamente leggo perché preziosi a chi ama questo Salento e la sua Storia.
Saluto tutti spigolatori.
cav. dott. G. Balsamo
E, invece, “lu mmasùnu” (la parola, almeno a Nardò, è piana) esiste e come! E, assolutamente diversa da mmàusu e con diversa etimologia, c’è anche nel dizionario del Rohlfs che, come tutte le cose di questo mondo, contiene qualche svista ed è fisiologicamente soggetto a revisione. Anche la teoria della relatività lo è, ma non per questo Einstein, improvvisamente, è diventato nessuno o quasi…
Gent.mo sig. Polito,
La ringrazio per quanto mi appunta e chiedo venia. Intendevo perfettamente dire il contrario ossia esiste lu “mmasùnu” (nascondiglio, sottrarsi alla vista tipico degli animali) e non lu “mmàsunu” come nel corpo del saggio.
Quanto al nostro glottologo tedesco e Einstein ha perfettamente ragione. La mia era una sottolineatura finalizzata a dire che per accertare un qualcosa non bisogna prendere per oro colato ciò che qualcun altro scrive ma andare dritti alla fonte per avere certezza assoluta e pertanto mi sarebbe piaciuto che la verifica fosse stata fatta direttamente riprendendo una voce antica quale un canto, un’espressione tipica ecc. così come sapientemente sapeva fare la N.D. Giuletta Livraghi. Solo questo.
La ringrazio di cuore per la precisione della replica e continuerò a leggerla con piacere.
Un saluto a tutti dalla piovosa Firenze.
cav. dott. G. Balsamo
La ringrazio, a mia volta, per la cortese e direi, competente, attenzione che ha manifestato, manifesta e che promette di continuare a fare nei confronti del sito e del sottoscritto. Un saluto dall’assolato, oggi non tanto, Salento (sembra quasi uno scioglilingua, e me ne scuso). Armando Polito
Ringrazio tutti.
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