di Paolo Vincenti
“Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio”: in questi versi della dantesca preghiera alla Vergine di San Bernardo si concentra una delle espressioni più alte, nella storia del pensiero mondiale, dell’amore che l’uomo abbia saputo esprimere in poesia nei confronti dell’alma madre, la Madonna. Mala storia della letteratura di tutti i tempi è ricchissima di autori che, in prosa o in versi, si sono rivolti alla propria madre per cantarne la dolcezza, lamentarne l’assenza o vivificarne la presenza, piangerne la partenza, per sublimarne il volto e l’immagine o per cullarne il ricordo, per scrivere della propria nostalgia, dei propri rimpianti e travagli, di contrasti ormai sanati, di inquietudini e conflitti pacificati.
Così fa Maurizio Nocera, l’arsapo che continua a volare alto nei cieli della cultura salentina e che ogni tanto ha bisogno di ritornare al nido, là dove la sua avventura è cominciata, per ripararsi dalle intemperie della vita, per far riposare le ali e per cercare nel conforto materno quel caldo che aiuta a riprendere il volo. E quel nido per l’arsapo-angelo Maurizio è Tuglie, borgo avito, dove sono i suoi ricordi di infanzia e adolescenza, il porto-quiete dove vivevano i suoi genitori, il padre e la madre, prima che la nera Signora li chiamasse a quell’ultimo viaggio dal quale( forse) non si ritorna.
Compianto (7156 ore) è un lungo canto d’amore per la madre e il padre di Maurizio Nocera, scomparsi entrambi a pochi mesi di distanza l’una dall’altro. Come spesso succede, chi scrive non conosce altro modo, per eternare un ricordo, l’amore profondo di figlio, che quello di scrivere, a volte in preda alla commozione ancora viva e palpitante, fogli che poi magari si strapperanno, a volte con animo più disteso, quando ormai il tempo ha fatto il suo dovere, fogli pieni di parole che sublimano quell’affetto filiale, facendone poesia, pura e semplice, ma immortale. Un Atto di dolore è quello che Maurizio Nocera sembra voler recitare attraverso questo sfogo confessione, lettera aperta alla madre scomparsa, viatico poetico per un’anima sensibile, onesta, delicata, la “Madre scolpita nel dolore”, come scrive Roberto Carifi, “l ‘Angelo che veglia fino all’alba, tace sulla soglia”. E un angelo appare la madre di Maurizio nella ricostruzione del poeta, in questa elegia dedicata alla sua “Mater dulcissima”, citando Quasimodo, nella quale Maurizio, come il Cristo dell’Anonimo Romano del Quattrocento, sembra voler dire: “O Madre, io sono il tuo figliol verace qual partoristi, prendi ormai conforto”, per sentirsi rispondere dalla madre-Madonna: “ Figliuolo, abbraccia la tua madre cara che in gaudio è volta la sua pena amara.”
Abbastanza travagliata la genesi di questo libro, così come complesse sono le vicende editoriali ad esso legate. Questa lunga poesia, infatti, ebbe in un primo momento il titolo provvisorio di “Madre mia”, poi di “Lamentazione”, poi di “Lamento” e infine di “Compianto”. Il numero dei versi variò in seguito alle varie stesure dell’opera, allungandosi via via, fino all’ultima. La prima edizione di Compianto (7156 ore) risale al 2002. Venne pubblicato nelle Edizioni del Pescecapone di Giuseppe Conte. E in questa edizione compariva una Prefazione di Mario Geymonat, professore di Latino all’Università Ca’ Foscari di Venezia, il quale scriveva: “ C’è musica in questi versi, a volte una semplice ninnananna come per cullare la moribonda, altre volte un ritmo complesso, simile alle Lamentazioni cinquecentesche di Pierluigi da Palestrina”. Nel libro, inoltre, Nocera, con un operare del tutto inconsueto, inserì le lettere ricevute da alcuni eminenti intellettuali salentini ai quali aveva inviato il testo in visione, onde avere dei consigli in merito. La prima lettera era quella di Mario Marti al quale Nocera aveva inviato due testi sulla madre, un primo che Marti indica come Redazione A, dal titolo “Questa madre” , già pubblicato sulla rivista “Foglie di noce marcite” di Vignacastrisi, un secondo, appunto l’inedito, che Marti indica come Redazione B. Marti dà dei preziosi consigli all’autore, di carattere più che altro stilistico. A completare la lettera martiana viene pubblicato anche il testo “Questa madre” , precedente a “Compianto”, quasi a permettere anche al lettore più esperto di tracciare un parallelismo fra le due versioni della lamentazione e quindi un confronto. La seconda lettera inserita è di Ennio Bonea, il quale scrive a Maurizio: “ il tuo pianto del figlio mi ha richiamato, in maniera coercitiva il “pianto” di Iacopone sul figlio, “bianco e vermiglio”. E ancora una lettera di Donato Valli, il quale scrive: “ Il valore del componimento è determinato anche dal suo equilibrio stilistico, mediato tra movimenti di popolare cantilena, echi di alti modelli letterari, archetipi di una antropologia mediterranea e meridionale”. Nocera inoltre aveva inviato il testo a Nicola G. De Donno, il quale aveva scritto e fatto pervenire le proprie riflessioni quando ormai il libro era stato pubblicato. Sicché Maurizio decise di pubblicare quel testo di De Donno sulla rivista della Società di Storia Patria, sez. di Maglie, “Note di storia e cultura salentina” nel 2005.
Nello stesso anno Compianto venne ripubblicato dalle prestigiose Edizioni Tallone di Alpignano (Torino) in veste deluxe, come rarità per bibliofili. Infatti il libro, dato il suo grande valore economico, venne stampato in un numero limitato di copie, solo 103, composte a mano con i caratteri di Alberto Tallone, di cui 85 su carta Magnani di Pescia, 10 su Amatruda di Amalfi e le rimanenti su carte esotiche della Cina e del Giappone.
Un volume molto particolare, quindi, che ora soltanto pochi fortunati amici di Maurizio possiedono, come ad esempio Francesco Saverio Dodaro, il quale scrive in una lettera indirizzata a Nocera e pubblicata sulla rivista “Arte e Luoghi”, Lecce, del gennaio 2007: “La pagina di Tallone è un capolavoro. Palpita. Pagina antropica, attraversata dai segni: un perfetto sistema venoso. Parole vive. Vagiti. Urli. Che emozione l’ascolto! Che sensazione carezzare la parola impressa sul corpo. Sentirne il respiro.”
Nel volume compariva la “Prefazione” di Mario Geymonat e una nuova “Postfazione” di Sergio Vuskovic Rojo, Professore di Filosofia all’Università Playa Ancha di Valparaiso (Cile). Ed eccoci giunti a questa ultima versione del libro, pubblicata nella collana “ I Poeti de L’Uomo e il Mare” (Tuglie 2009).
Il nuovo titolo dato da Nocera è (F)atti di dolore. In questa ultima e più completa versione, compare innanzitutto una Avvertenza di Maurizio Nocera. Poi viene ripubblicato lo scritto di Nicola G. De Donno, che fa una lunga disamina del poema, ricca di suggestioni , con una dotta esegesi del testo, linguistica, sintattica, stilistica.
Scrive Nicola De Donno: “ L’autore del poema è Maurizio Nocera, artista, scrittore, poeta di largo ingegno e versatile cultura. Nella quale egli include, per niente secondari, i valori della sua famiglia, di cui continua a sentirsi partecipe. Immensa gli era, egli è, la venerazione della mamma, idolatrata. In due tempi, novembre 2000 e giugno 2001, cioè in circa 8 mesi, Maurizio, l’autore, ha dedicato alla mamma non un solo poema ma due. Evidentemente ha scartato il primo poema, dopo averlo stampato: ne ha certo sentito una qualche falsità ben lontana dalla “idolatria” verso la mamma. Il titolo del primo poema era Questa madre, il titolo del secondo è Compianto. […] Intercorre, dicevo, una distanza di soli 8 mesi: ma è una distanza che vorrei dire abissale. Nella iniziale, Maurizio ha composto un dolore artistico, letterario: nella seconda, quasi che della prima provi vergogna, egli scoppia in una forma di dolore più assai che letterario, dolore vero, e con ciò artisticamente letterario”. E in questo De Donno concorda con Marti che aveva fatto una analoga osservazione. E poi, più oltre: “ Maurizio, autore, ritorna alla terra perché ritorna alla mamma. Meglio: è la mamma a chiamarlo alla terra di entrambi. Ciò Maurizio è riuscito a scoprire, di colpo forse, ripensando definitivamente alla mamma perduta, morta. Oppure in un pensamento ha scoperto le processioni consacrate alla maestosa, grande statua dell’Addolorata. Nelle terre del leccese, le imponenti statue delle Vergini vengono dette “dei sette dolori”, in quanto contengono, ficcate a corona nei cuori, sette autentiche piccole spade di ferro”. E in questo De Donno ci aveva visto molto bene tanto che lo stesso autore, Maurizio, scrive, in una nota al testo : “ Sui sette dolori, Nicola G. De Donno coglie nel segno, perché si tratta proprio dei Sette Dolori dell’Addolorata, nel nome di Maria,la Madonna -mamma di Cristo”.
“Madre / oh madre mia, / madre di sette dolori, / e di stupendi amori, / tu che la gioia davi, / tu madre che soffrivi, / sospiravi./” . Questi i versi con cui si apre il poemetto noceriano, che definirei un moderno epicedio, un canto funebre nel quale sembra di risentire quegli alti lamenti che fino a pochi anni fa in Salento, con consumata teatralità, emettevano, sul corpo del defunto, le prefiche, donne specializzate nelle lamentazioni dietro pagamento, il che ci riporta alla tradizione e alla cultura classica di cui noi tutti siamo imbevuti. “Madre,/ oh madre mia, / madre che la vita davi, / e che di fiori ti adornavi, / tu che al campo amato dormivi, / tu che al mercato del venerdi andavi, / i tuoi avi veneravi. / All’incontro conla Morte / già da tempo t’eri preparata, / tremando come ramoscello di tenero ulivo. /”. Quando Maurizio scrive: “ il tuo ampio ventre di madre grande”, sembra voler ritornare “un piccolo bambino”, come Joseph Roth in “Dove?”, ma l’accento acuto della sua disperazione ci fa capire che egli ritiene sia tardi, “ è tardi ormai”, come dice Attila Jòzsef.
Il corpo del libro è costituito dal Compianto, il poema in morte della madre, 7156 ore, in morte del padre, anche qui viene ripubblicata “Questa madre”, prima stesura di Compianto e inoltre una poesia dedicata al fratello Silvio Nocera. La lirica A Silvio esprime il dolore dell’autore di fronte a questa ennesima, devastante perdita.
“Madre, / oh madre mia, madre che bambino mi lavavi, e che sempre mi asciugavi, tu che il calore davi, tu madre che in silenzio te ne andavi, mi lasciavi/”. Davvero belli e vibranti, si dipanano lungo le pagine del poemetto i versi di questo canto monodico, lo scoperto dolore di Maurizio per la madre che lascia questa terra nel giugno del 2001. Come vibranti, sebbene più concentrati, sono i versi del poemetto in morte del padre, il quale si spegne nell’aprile del 2002, seguendo il destino della sua compagna di vita.
Si tratta di un canto continuo, un flusso lungo di pensieri, di ricordi, nei quali si spiega la lamentazione dell’autore, laddove i versi hanno spesso e forse volutamente una caduta prosastica (caratteristica questa di tutte le poesie noceriane) e dove l’inserimento di termini presi dal parlato quotidiano nonché di lessemi ed anche costruzioni tipicamente dialettali spezza la cantabilità del poema, ne interrompe la metodicità. L’autore si abbandona al canto funebre con animo intatto, incorrotto: “Madre, / oh madre mia, / madre che alle cave di pietra andavi, / e tra le pietre partorivi, / tu madre che ora immobile stavi, / più non ti sentivo, / tra i pianti della casa/”. A volte invece è il ritmo a prendere il sopravvento con frequenti reiterazioni di lessemi ( uno su tutti, “madre”, che ritorna ciclicamente in tutto il poema) che si sciolgono quasi in un mantra, un salmodiare lento e ipnotico che fa venire in mente, e non potrebbe essere diversamente, il canto delle prefiche di cui abbiamo già detto. Nocera si riappropria di un sentimento, in questo poemetto in cui più che in altri viene in evidenza la temporalità e la limitatezza del significante rispetto alla extratemporalità, all’universalità del significato. Il vissuto personale dell’autore diventa simbolico e il suo lamento diventa l’interrogarsi di tutti gli uomini, accomunati da un abbraccio di uguale destino, diventa meditazione filosofica su un grande tema umano, la morte, che tutti noi appassiona e coinvolge. Molto significative sono le foto che compaiono nel libro e che ritraggono spesso la madre di Maurizio, il padre, Maurizio bambino con i suoi fratelli, scene di vita famigliare e lavorativa, immagini bucoliche che ci riportano ad un tempo, quello della fanciullezza di Maurizio, e ad un paesaggio, quello tugliese-gallipolino, che sembrano così lontani e diversi dalla facies che hanno assunto oggi. Dopo una poesia di Silvio Nocera e alcune foto che ritraggono il noto e apprezzato pittore tugliese con le amate civette, vi è il testo di Maurizio: “T’ho amato / Silvio / oh! Se t’ho amato / e quanto! / Testimone mi è la luna / che conosce gli squarci del cuore / lo sgomento dell’anima / la tristezza della solitudine /”.
Alla fine del libro si trova una “Postfazione” dello stesso Nocera, il quale riporta in una lunga lista gli autori più importanti che hanno scritto della perdita della madre: da Sant’Agostino a Giovanni Pascoli, da Umberto Saba a Leonardo Sinisgalli, da Salvatore Quasimodo a Giorgio Vigolo, ma anche Franco Fortini, Eugenio Montale, Giuseppe Conte, Carlo Betocchi, e via dicendo. Così, fra ricordi vicini e lontani, si arriva alla fine del libro che, sulla quarta di copertina, riporta proprio un olio di Silvio Nocera, con i suoi caratteristici colori. Sul colophon del libro, in forma di calice perfetto, c’è scritto : “ I poeti de L’Uomo e il Mare, quaderno fuori collana, stampato a Tuglie nella Tipografia 5 Emme, su carta Old Mill 130 gr, carattere Garamond, corpo10, in300 esemplari fuori commercio, destinati a parenti e amici di Maurizio Nocera, 3 settembre 2009, in memoria di Silvio Nocera”. È vero, siamo “fatti di dolore”, ma con il caldo abbraccio fra compagni di pena, con il canto degli uomini che addolcisce la triste ineluttabilità del nostro destino , il dolore, forse, si può lenire.
(in “Il Paese Nuovo”, Lecce, 18 novembre 2010)