di Cristina Manzo
Anima mia, alla tua zolla detti da bere ogni saggezza, tutti i vini nuovi e anche tutti i forti vini della saggezza, vecchi di immemorabile vecchiezza. Anima mia, io ti innaffiai con ogni sole e notte e silenzio e anelito: – e così tu crescesti per me come una vite. Anima mia, ora sei traboccante di ricchezza e greve, una vite dalle gonfie mammelle e dai grappoli densi, bruni come l’oro: – densa e compressa di felicità, in attesa per la tua sovrabbondanza, e vergognosa perfino del tuo aspettare.
Friedrich Nietzsche
Possiamo dire che da sempre questa magica bevanda, il nettare degli dei, ha assunto nella storia un ruolo di magia e di mistero, di ambiguità: da un lato era considerato un dono praticamente di-vino, dall’altro uno strumento peccaminoso e di rovina, il tutto inquadrato dalla filosofia e dagli antichi filosofi come un problema di misura e ambiguità, nel contesto del suo uso. La bevanda magica che scioglie la lingua agli uomini, privandoli del loro freno inibitorio, ma anche la bevanda deleteria che riporta l’uomo ai suoi istinti bestiali, e alla mancanza di decoroso controllo, che fa perdere la dignità.
Ma si racconta che ad inventare questa divina bevanda (theion poton) fu Dionisio, “colui che dà il vino”, Didoinysos, il primo a cui venne in mente di pigiare, i frutti di questa pianta, e di lasciarne fermentare il succo ottenuto, scoprendo così questa divina bevanda. “come un eroe o un missionario culturale… visitò l’intero mondo abitato per diffondere la sua scoperta ed insegnare agli uomini la coltivazione della vite.”1 Tuttavia Dionisio si premurò di istruire gli uomini sull’uso attento che dovevano fare di questa pericolosa bevanda, e consigliò loro di berlo solo mescolato all’acqua, per attenuarne gli effetti negativi, il vino greco aveva una gradazione alcolica molto forte, già dalle sue origini. Un chiaro esempio, della sua pericolosità, che in questo caso fu provvidenziale ci viene raccontata proprio dalle gesta di Omero, nell’Odissea, quando Ulisse offrendo al ciclope il vino che Marone d’Ismaro, fugace personaggio dell’Odissea (Od. IX,197), gli aveva regalato riempiendogliene un’otre, ottiene la sua liberazione. Se costui non avesse omaggiato Ulisse del suo generoso vino, probabilmente la peregrinazione dell’eroe si sarebbe conclusa nella grotta del ciclope. Si tratta di un vino dotato di una struttura e di un corpo prodigiosi, data la sua resa nella miscelazione con acqua e gli effetti micidiali che ha su Polifemo, il quale, “agendo da pazzo” osa berlo in purezza.2
“La coppa ei tolse e bevve ed un supremo del soave licor prese diletto e un’altra volta men chiedea… (Od: IX,450-452) Non solo, ma: Tre volte io gliela stesi ed ei ne vide nella stoltezza sua tre volte il fondo (Od: IX, 461-462)”3
La storia della vite in Puglia ha radici antichissime e si ritiene che questa pianta sia stata sempre presente nel territorio della regione. La vite era probabilmente presente in Puglia prima dei tempi della colonizzazione greca, nel VIII secolo a.C., tuttavia alcune delle varietà oggi considerate autoctone di questa regione sono state introdotte proprio dai greci, come il Negroamaro e l’Uva di Troia. Dalla Grecia fu introdotto anche il sistema di coltivazione della vite ad “alberello”, il metodo più diffuso in Puglia. La coltivazione della vite era diffusa uniformemente in tutto il mondo greco, tanto che anche gli ecisti che si imbarcavano dalla madrepatria per andare a fondare nuove colonie in Italia meridionale o sulle coste turche portavano con sé anche tralci di vino da impiantare nelle nuove terre da colonizzare: in un secondo momento, dall’Italia i Greci portarono la coltivazione della vite anche lungo le coste mediterranee dell’Africa, nella Francia meridionale e lungo le coste della penisola iberica. La nostra penisola prese tra l’altro il nome di Enotria, ovvero il paese dei pali da vite, proprio per lo straordinario sviluppo che ebbe questa coltivazione.
Le tecniche di viticoltura prevedevano la coltivazione delle piante a gruppi di tre per volta e legate tra di loro a formare una specie di piramide. I vini greci erano classificati per il loro colore e si dividevano in bianchi, neri e mogano, per il loro profumo, per il quale erano utilizzati diversi tipi di fiori, come la rosa e la viola, e per il sapore, per addolcire il quale si utilizzava anche il metodo del riposo su un letto di uva appassita che rendeva il nettare particolarmente dolce (vino passito). Altri vini presentavano invece un gusto più aspro e acido ed erano classificati come secchi. Il problema principale consisteva nella conservazione dei vini stessi, data la scarsa resistenza all’aria; questi, infatti, tendevano a ossidarsi con discreta velocità e fu introdotto il processo di aggiunta della resina. Ancora oggi uno dei vini greci maggiormente apprezzati è il Retsina, che sfrutta il medesimo processo.4
Con l’arrivo del dominio degli antichi romani, in seguito alla vittoria contro Pirro nel 275 a.C., la produzione e il commercio di vino furono particolarmente vivaci e i vini della Puglia cominciarono ad essere presenti e apprezzati nella tavole di Roma.5
Narra la leggenda che il dio Giano Enotrio6, durante il suo viaggio verso l’Etruria, abbia sostato nella foresta di Nardò e piantato nei dintorni una delle prime vigne. L’umore limpido e forte prodotto da quelle viti piacque moltissimo agli aborigeni e ai mercanti di passaggio che ne bevvero a volontà. Ben presto la fama di quel vino raggiunse paesi e genti lontani e crebbe, crebbe e dura ancora. Da allora esperti vignaioli hanno coltivato e coltivano la vite in questa pianura compresa tra due mari, traendone vivi arguti coi quali hanno dissetato aride ugole consolato delusioni e tristezze combattuto dolori fisici esaltato fantasie di letterati e poeti.7
In realtà gli amabili rosati e i corposi rossi salentini e neritini sono quel che occorre per far compagnia e confortare lo stomaco e, in passato, sono stati grandi alleati del popolo nella lotta alla malaria, alla carie dei denti, alle coliche intestinali, ai reumatismi ai raffreddori.8
Nella sua monumentale opera Naturalis Historia, Plinio il Vecchio, nell’elencare le varietà di uve greche, ricorda che in Puglia erano presenti le Malvasie Nere di Brindisi e Lecce, il Negroamaro e l’Uva di Troia. Plinio il Vecchio, Orazio e Tibullo hanno lasciato ampie testimonianze nei loro scritti sulle tecniche di coltivazione della vite e della produzione di vino in Puglia ai tempi degli antichi Romani, decantando in particolare il colore, il profumo e il sapore dei vini pugliesi.
Plinio il Vecchio definì Manduria la terra della Puglia più rappresentativa per il Primitivo come viticulosae, cioè “piena di vigne”. Manduria non fu l’unica zona a guadagnarsi l’appellativo di viticulosae: anche Mesagne, Aletium (Alezio) e Sava furono definite in questo modo da altri autori. Altri autori illustri di quei tempi come Marziale, Ateneo e Marrone elogiarono nei loro scritti le qualità dei vini pugliesi. Con la costruzione del porto di Brindisi nel 244 a.C. il commercio del vino pugliese conosce un periodo piuttosto fiorente e a Taranto, con lo scopo di facilitare la spedizione e l’imbarco, si conservano enormi quantità di vino in apposite cantine scavate nella roccia lungo la costa.
Già a quei tempi, quindi, la Puglia diviene un importante “deposito” di vino, una terra che farà del vino, e dell’olio, due prodotti fortemente legati alla propria tradizione e cultura. Tuttavia il legame con il vino sarà caratterizzato dall’enorme quantità piuttosto che dalla qualità. Nonostante questo, il vino di qualità lascerà un segno indelebile nella cultura della Puglia: da merum, che in latino significa “vino puro” o “vino genuino”, deriva infatti il termine mjere, che in dialetto pugliese significa “vino”.
Dopo la caduta dell’impero romano, la viticoltura e la produzione di vino in Puglia subiscono un periodo di crisi e sarà solo per opera dei monasteri e dei monaci che le due attività saranno conservate e continueranno a caratterizzare la Puglia. Nel Medioevo, in Puglia si registrano ancora enormi produzioni di vino: non a caso Dante Alighieri, nei suoi versi, descrive la Puglia come «terra sitibonda ove il sole si fa vino».
L’importanza dello sviluppo della viticoltura e della produzione del vino fu ben compresa anche da Federico II che nonostante fosse astemio fece piantare migliaia di viti nella zona di Castel del Monte, importando le piante dalla vicina Campania.
Il vino assume un ruolo strategico per l’economia della Puglia tanto che, nel 1362, Giovanna I d’Angiò firma una legge che vietava bel territorio l’introduzione di vino prodotto al di fuori della regione. Sarà solamente durante il Rinascimento che i vini della Puglia cominceranno a conoscere i consensi delle altre zone d’Italia e di alcune zone della Francia, i vini pugliesi fanno il loro ingresso nelle tavole delle corti nobili. Andrea Bacci, uno degli autori di vino più conosciuti di quel periodo, ricorda nella sua opera De naturali vinorum historia che nelle zone di Lecce, Brindisi e Bari si producono vini di “ottima qualità”
I vini che maggiormente rappresentano la Puglia sono i rossi e i rosati, tuttavia nella regione si producono anche interessanti vini bianchi, anche da uve autoctone. Primitivo, Negroamaro e Uva di Troia sono solamente tre delle uve che hanno contribuito al rilancio dell’enologia della Puglia, un successo fatto di vini rossi e di tanto sole 9
Per la vite pugliese si può ricordare il principio di una nuova storia il 17 febbraio 1863. In quel secolo guerre spaventose hanno devastato l’Europa, nuove tecnologie si sono affacciate a modificare la vita e l’organizzazione sociale del Vecchio Continente. I sentimenti di civiltà espressi oltralpe alla fine del secolo precedente, per quanto sconfitti si sono radicati. Ma un piccolo afide, microscopico e letale, distrugge tutta la tradizione vinicola del regno della viticultura: la Francia. La fillossera della vite compie il misfatto devastando la quasi totalità dell’agricoltura francese che rimane priva di uve.
In Italia la fillossera non è giunta e il 17 febbraio 1863 viene stilato un trattato commerciale tra Italia e Francia per la fornitura di uve e vino. Il Salento nelle mani del latifondo viene rapidamente riconvertito impiantando estensioni di vigneti a perdita d’occhio. Il tabacco, il grano, i frutteti e le ortive, finanche gli oliveti, lasciano spazio ad una monocoltura della vite con un sesto straordinario per le terre salentine che rimarrà per oltre un secolo il simbolo della campagna: l’alberello.10
La fortuna che le nostre terre siano circondate dal mare, il clima mite che ne consegue e il calore del sole presente per gran parte dell’anno, rendono da sempre adatta alla coltivazione della vite la ridente terra d’Otranto, tanto da farne una delle aree vinicole tra le prime d’Italia, e del mondo.
Attualmente la Puglia è arrivata al riconoscimento di ben 26 vini DOC. La produzione vinicola, in stretta connessione, con il turismo, il suo territorio e il suo folklore rappresenta una grande risorsa economica per l’intera regione.
Nel Salento, sin dai secoli passati, si è andato tracciando un percorso, una specie di strada dei vini, che segnala quei paesi che ne sono divenuti i maggiori produttori, e nelle cui cantine, aperte occasionalmente anche a visite turistiche, è possibile degustare e centellinare questa bevanda degli dei.
La miglior produzione e le cantine principali si trovano a Lecce, Manduria, Salice Salentino, Guagnano, Leverano e Nardò, con il feudo delle Cenate e la Baia di Uluzzo. “ I vini dell’Acenata, infatti, hanno acquistato grande importanza e si sono imposti perfino in competizioni europee, come l’esposizione di Parigi del 1900 dove il Barone Luciano Personè il quale fu esperto viticultore prima di sedere a Montecitorio, conseguì il gran premio pe’ vini, mantenendo così alto il prestigio d’una produzione che è la nostra ricchezza e dev’essere il nostro orgoglio.”11
1 G. Casadio, Il vino dell’anima. Storia del culto di Dioniso a Corinto, Sicione, Trezene, Il Calamo 1999, p. 13.
2 www.taccuinistorici.it
3 www.wineup.it/post/4716559539/lodissea
4 www.informasalus.it
5 www.diwinetaste.com
6 Virgilio parla di Giano nel Libro VII dell’Eneide quando ci narra dei profughi Troiani alla ricerca della antica madre. In quell’occasione il poeta ci ricorda che Giano avrebbe “… regnato in Italia prima di Saturno e di Giove”
7 Vittorio Zacchino Storia e cultura in Nardò fra medioevo ed età contemporanea, Congedo editore, Galatina (Lecce) 1991, p. 61
8 Sull’uso del vino quale remedium salutis cfr Apulus, Merum Nostrum in “Nuovapulia”, a. I, 1974, N. 5-8, p. 11; R. Buja, De vino Mero in “Lu Lampiune” a. V, 1989, 1, p.105 ss; vi è riportata la frase ad effetto di Mussolini “Il bevitore di vino vive più a lungo del medico che glielo proibisce.”
9 www.diwinetaste.com
10 culturasalentina.wordpress.com
11 Vittorio Zacchino Storia e cultura in Nardò fra medioevo ed età contemporanea, Congedo editore, Galatina (Lecce) 1991, p. 65, cfr in A. S. L . Catasto Onciario 1750
Su questo sito si vedano anche:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/04/28/oggi-parliamo-di-vino-il-merum-pugliese/
Sono curioso di sapere da dove è stata presa la notizia che il Negroamaro sia stato introdotto dai Greci così come l’uva di Troia. Del Negroamaro non esiste traccia bibliografica alcuna (a mia conoscenza) fino al 17 gennaio 1863 né vale la “leggenda” di niger e mavros che non ci azzecca nulla poiché o è arrivata con i greci che ci sono stati prima dei latini o è arrivata con i romani e non si capisce perché avrebbero dovuto dargli un nome greco. Miei cari sapete che vi voglio bene ma non dobbiamo scrivere a cuor leggere so un sito che va in tutto il mondo e magari davvero le persone ci credono alle cose che diciamo e ce ne chiedono conto. Il pezzo è intriso di buona volontà ma di un sacco di inesattezze e di alcune colossali ed amplissime lacune. Se non si fa la differenza fra Atene e Sparta del vino si capisce poco o nulla .. L’Ecista era un personaggio di Sparta e infatti Falanto fu Ecista di Taranto dove, per davvero, introdusse la vite alla sua fondazione. Solo quando i Tarantini lo scacciarono e rifugiò a Brindisi svelò ai Messapi il segreto della coltivazione della Vite.
Ad abundantiam la Vite è la prima pianta che mette a dimora Noé dopo il Diluvio Universale ovvero assai prima del viaggio di Ulisse ed inoltre il vino compare già nella epopea di Gilgamesh …
Bisogna studiare, con grande umiltà sempre vi saluto. Pino De Luca
e le tue dritte sono per noi tesoro, come, son certo, lo saranno per l’autrice del pezzo odierno, che senz’altro provvederà a correggere quanto da te segnalato. Grazie Pino
Caro Pino, nel pezzo che ho scrito sono citate tutte le fonti da cui ho attinto, e non manca quella che cerchi, ora il punto è che purtroppo, uno degli annosi problemi della storicità e della storiografia è che purtroppo molto spesso le fonti storiche vengono consapevolmente o involontariamente alterate, e di conseguenza inducono nell’errore anche chi le studia e le legge, poichè nella sua totale buona fede si fa proprio quello che viene scritto senza poter sapere se corrisponde a verità, soprattutto nel caso di un’astemia, poco esperta…di uve e vini. Quindi grazie per l’informazione, che mi piacerebbe molto poter segnalare a chi prima di me ha sbagliato. :-)
Mi permetto di precisare : in base alle fonti , soprattutto archeologiche, nel Salento (antica Messapia) la coltivazione della vite ha inizio dopo la conquista romana, quindi tra terzo e secondo secolo a.C. ( si pensi, ad esempio, alle fabbriche di anfore da trasporto di vino di Apani, Brindisi). I contesti di età precedente (dall’età del Ferro all’età classica ) offrono testimonianze che fanno pensare al vino come ad un prodotto di importazione dalla Grecia (Corinto o Corcyra ad esempio) o dalle fiorenti città della Magna Grecia (da cui provengono – probabilmente – le cosiddette anfore greco-italiche) . Fatta eccezione per la vicina Taranto, la Messapia non fu sede di colonizzazione greca. La discussione è sempre grande occasione per allargare gli orizzonti e sfatare qualche luogo comune, talora frutto di tradizioni che aspettano di essere confrontate con i dati che via via emergono e, per fortuna, la ricerca è sempre in fermento!
Gentile Cristina, intanto mi permetto di interloquire con la massima umiltà e la mia precisazione riguarda soprattutto l’affermazione su Negroamaro e Uva di Troia e anche i cosiddetti “esperti” che popolano il web con copia e incolla furiosi che applicano il principio di Goebbels ovvero il quale “una bugia ripetuta cento volte diventa verità”. Le fonti sono le fonti originali, il “de relato” non costituisce prova in nessun sistema giuridico che non sia quello delle dittature.
Sulla nota di Carmen vorrei aggiungere che mentre Sparta manda Falanto a fondare Taranto, dal punto di vista del resto dell’Ellade vi è un rapporto di “amicizia” con i Messapi i quali, sul modello delle dodecapoli etrusche, vengono attualmente identificati secondo la medesima regola. Non vi sono certamente testimonianze archeologiche che dimostrano tutto questo (per ora) ma di certo abbiamo la testimonianza di Strabonio che certifica l’ipotesi al V secolo a.c. e che individua le dodici città in
Alytia (Alezio),
Brention/Brentesion (Brindisi),
Cavallino,
Gnathia (Egnazia),
Hyretum/Veretum (Vereto),
Hodrum/Idruntum (Otranto),
Kailia (Ceglie Messapica),
Mandurion (Manduria),
Neriton (Nardò),
Orra (Oria),
Ozan/Uzenton (Ugento),
Thuria Sallentina (Roca Vecchia).
Abbiamo in casa Maurizio Nocera che è uno dei massimi testimoni e conoscitori di questa storia … nei testi che raccontano degli incontri tra Messapi e popolazioni di origine Greca di vino si faceva uso in abbondanza così come testimoniano i corredi funerari virili delle tombe messapiche nelle quali non mancano mai: le ciotole da vinodalcratere allo skyphos al kantaros.
Concludo con l’indicazione di alcuni probabili vitigni “autoctoni” della Messapia (probabilmete il Bianco d’Alessano, il Grillo, la moscatella o i primi ceppi di malvasia che per davvero vengono dalla Grecia e le popolazioni Messapiche, per ragioni linguistiche, vengono sempre più assimilate alle origini Illiriche.
Di certo Negroamaro e Uva di Troia non c’entrano nulla con i Messapi e “l’antica tradizione” anche in considerazione del fatto che di “piede franco” è rimasto poco o nulla in seguito alla fillossera che ha devastato nel XIX-esimo e XX-esimo secolo la viticoltura dell’intera Europa …
Per quanto riguarda i vitigni vi sono opere straordinarie come l’atlante ampelografico che affronta la vicenda dal punto di vista agronomico ma le opere del Columella e di Plinio il Vecchio ci aiutano senza dubbio. Anche se Burgundio da Pisa è senza dubbio un faro informativo straordinario …
Sono nomi che si possono trovare su Internet ma di rado ne troverete fonti perché sono storie complicate che interessano poche persone, la maggior parte di coloro che si occupano di vino ha bisogno di “effetti speciali” e aggettivi roboanti, di classificatori fantasiosi e di rado conoscono la differenza tra la Vernaccia e la Verdeca … o guai a chieder l’istoria di Martino IV e la differenza tra vinum e merum … mi scuso per la lunghezza e l’approssimazione ma a legger certe storie che vengon replicate a volte mi fa davvero male. Un caro saluto.
Condivido pienamente la sacrosanta affermazione del sig. De Luca sulla necessità, per fare sul serio, di tener conto solo delle fonti originali e di passare sempre al vaglio, se si è in grado di farlo, le interpretazioni che studiosi o sedicenti tali hanno sfornato, sfornano e sforneranno. Sono perfettamente d’accordo con lui quando stigmatizza il compulsivo copia-incolla che ha creato tanti sedicenti esperti e scrittori che freneticamente si esibiscono in rete e fuori.
Debbo, però, far notare, sorvolando su “Strabonio”, incidente, non errore di battitura, in cui chiunque può incorrere, che la datazione della dodecapoli al V secolo e l’elenco delle città, quest’ultimo tal quale, sono tratti da Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Dodecapoli_messapica), dove, però, correttamente sono usati i condizionali “potrebbero corrispondere” prima e “potrebbero essere state” dopo, mentre nel post quel “e che individua le dodici città …” fa credere che autore di questa identificazione sia stato Strabone.
In realtà, per tornare alle fonti, Strabone nel paragrafo 5 del capitolo 3 del libro V della sua Geografia ha scritto solo questo: Ὴ δ’ἑξῆς τῶν Ίαπύγων χώρα παραδόξος ἐστιν ἀστεία· ἐπιπολῆς γὰρ φαινομένη τραχεῖα εὑρίσκεται βατύγειος σχιζομένη, ἀνυδροτέρα δ’οὖσα εὔβοτος οὐδέν ἧττον καὶ εὔδενδρος ὁράται. Ἐυάνδρησε δέ ποτε καὶ τοῦτο σφόδρα τὸ χωρίον σύμπαν καὶ ἔσχε πόλεις τρισκαίδεκα, ἀλλὰ νῦν πλὴν Τάραντος καὶ Βρεντεσίου τἆλλα πολισμάτιά ἐστιν, οὕτως ἐκπεπόνηται.
(La terra degli Iapigi che viene dopo questa [aveva appena finito di dire di Taranto] è inaspettatamente ridente; infatti, pur apparendo pietrosa in superficie, si scopre che è arabile profondamente e, pur essendo povera di acqua, nondimeno appare ricca di pascoli e di alberi. Un tempo pure tutto questo territorio era intensamente popolato ed ebbe tredici città, ma ora, eccetto Taranto e Brindisi, le altre sono piccoli borghi, così si sono ridotte).
Che poi, per tornare alle interpretazioni e chiudere, “ebbe tredici città” abbia spinto ad ipotizzare l’esistenza di una confederazione, non c’è da meravigliarsi, perché c’è di peggio: chi, per esempio, ha affermato che Artas era amico di Pericle, fantasia alla quale ho dedicato qualche tempo fa su Spigolature salentine due post che ancora attendono risposta.
Carissimo Armando Polito, non sono in grado di tradurre il greco con la Sua perizia ma giammai di wikipedìa dpendenza mi permetto di abusare, Le note che ho riportato le ho prese da un altro valente autore: http://www.unigalatina.it/index.php?option=com_content&view=article&id=608 che si chiama Maurizio Nocera e sul commento non volevo certo dire che Strabone è del V sec a.c. bensì che il suo narrare da quel tempo può esser ricondotto all’incirca poiché nello scritto di Nocera si fa riferimento a frammenti di scrittura Mesapica risalenti al IV secolo a.c. e che sembra siano conservati al Sigismondo Castromediano di Lecce. Per il resto quando erro son felice che qualcuno mi segnali l’errore poiché mi aiuta a non ricommetterlo e a esser ancor più puntiglioso, magari in uno scritto che abbia più tempo a disposizione di quello che può essere un commento che, come questo, è scritto di getto e non é nemmeno riletto. Ad Majora
Carissimo Pino De Luca, non le ho certamente rimproverato di aver “antichizzato” di quasi quattro secoli Strabone, ho solo detto che, per come lei si è espresso e se l’italiano ha un senso, il lettore era obbligato a credere che fosse stato Strabone a ricordare l’esistenza della dodecapoli nel V secolo a. C.
Chiarito, spero definitivamente, questo punto, le chiedo: come fa a credere nella mia perizia nel tradurre il greco se non lo conosce? Se quel “perizia” non è sarcastico, forse si è fidato di un giudizio lusinghiero formulato non so da chi nei miei confronti, annoverandomi di colpo tra i suoi “valenti autori”?
Io, invece, abituato ad accettare tutto sempre con beneficio d’inventario, sono andato a vedere il link da lei segnalato, ma non potevo immaginare di imbattermi in una giungla di affermazioni imprecise, per non dire discutibili o, addirittura, fasulle.
Tanto per gradire l’assaggio, si incomincia con: “La Messapia, Metapia in greco, ma qui scritta con le corrispondenti lettere latine”; sembra un responso dell’oracolo di Delfi, ma mi impegnerò con tutte le mie forze per interpretarne il senso intenzionale: in greco non esiste Μεταπία (Metapìa) ma Μεσσαπία (Messapia) trascritta in latino, con regolare cambio di accento nella pronuncia, in Messàpia. Da dove esce fuori, allora, Metapìa? Da questo: Francesco Ribezzo in Questioni italiche di storia e preistoria, Estratto da Neapolis, anno I, fascicolo I, Perrella e C., Napoli, s. d., ipotizzò che Messapia fosse la deformazione di *Metapìa (da una base Mètapa), il nome più antico della regione e di origine tracio-illirica.
Si continua poi con la citazione de I leoni di Messapia, Il cerchio di fuoco e Artas, il re dei Messapi di Fernando Sammarco; alla lettura di questi titoli sono stato colto immediatamente da violenti dolori addominali e mi è apparso Artas (lo stesso che ho nominato alla fine del precedente commento, proprio lui …), il quale mi ha supplicato di fare qualcosa per porre fine alla sua saga che qui, addirittura!, si vorrebbe utilizzare come testo di riferimento. La storia si fa con le fonti, non con i romanzi storici, sulla cui validità come strumento divulgativo della storia le risparmio la mia opinione.
Quando poi mi sono imbattuto in un “Tucitide” invece di “Tucidide” (anche qui non le rubo tempo per spiegarle l’origine dell’inciampo, non dovuto certamente, nemmeno questo, ad errore di battitura ma, se lo desidera, sono disponibile a farlo in qualsiasi momento a beneficio suo e del signor Maurizio Nocera, basta che me lo chieda) ho dovuto interrompere la lettura per non correre il rischio, dopo essermi rotto le scatole, di fracassare il monitor …
E a proposito di rottura: il gioco dello scaricabarile, che ha un percorso diverso dalla iniziale paternità (De Luca>Nocera>?/?>Nocera>De Luca), finisce solo per rompere il barile, in qualsiasi mano esso si trovi…
Venendo da studi scientifici (posso esibire solo titoli in Informatica) tendo a fidarmi di chi espone titoli accademici inerenti discipline che non sono la mia. Rispetto alla Paternità io non conosco nemmeno Nocera se non per averne letto alcune opere on line e in stampa. Nessuna ironia rispetto al Greco ma se uno mi scrive la traduzione e mi riporta l’originale tendo a credere che non sia un burlone. Per quanto riguarda Strabone mi pregio di ComunicarLe che ho trovato il testo in originale Geografia di Strabone ed una traduzione in volgare del 1562 a cura di Alfonso Bonacciuoli. Giuro che lo leggerò tutto nelle sue oltre seicento pagine almeno per penitenza per aver avuto un incidente, son certo che troverò il riferimento che Lei mi ha suggerito, magari in una lingua più antica ma, qualora non ne dovessi comprendere il significato chiederò lumi …
Siccome nel testo da lei indicato manca la suddivisione in paragrafi dei capitoli, credo che le sarà d’aiuto sapere che il brano in questione si trova nelle ultime quattro righe di pag. 115 e nelle prime tre della pagina successiva. Resto sempre a disposizione per qualsiasi problema connesso con le lingue antiche, purché siano solo latino e greco: l’accadico, infatti, tanto per dirne solo una e per usare un’immagine matematica molto egocentrica, sta a me come l’informatica sta a me.
Eppure, verso la metà degli anni ‘80, con un Philips MSX NMS-8280 (che ancora conservo perfettamente funzionante) scrissi in BASIC MSX2 un programma per la scansione automatica del distico elegiaco latino . Il programma funzionava perfettamente ma poi mi arresi di fronte alle difficoltà emerse nel passo successivo: metterlo in grado di leggere (e quindi trarre alcuni dati) da un dbase contenente il vocabolario latino. Con appena 125 kb (!) di RAM, due drive (che lusso!) per floppy disk da 720 kb (!) ma senza ombra di hard disk, il programma funzionava solo se il file del dbase era inferiore, com’era logico, alla capacità del dischetto. Conservo ancora l’algoritmo e la scrittura del programma ma ho da tempo rinunziato a trasformare quel sogno in realtà, nonostante negli anni abbia più volte rinnovato l’hardware che oggi consentirebbe certamente di fare quello che un po’ umanamente (quante notti a provare e a riprovare!), un po’ meccanicamente era impossibile.
C’è chi ancora stupidamente crede alla contrapposizione delle due culture. Questo sito, con la varietà e, tutto sommato, rigorosità dei contributi, è la dimostrazione evidente che la guerra, anche in campo culturale, fa solo danni. Chissà che dal nostro apparente scontro non nasca, in tal senso, un proficuo incontro …
Carissimo Antonio Polito, certamente ho sbagliato nel datare al 5^ secolo la testimonianza relativa all’esistenza dei Messapi, Infatti al V^ secolo a.c. risale il tempo della guerra contro Taranto e della vittoria che i Messapi conseguno (non si riesce a datare bene se nel 473 o 461). In realtà secondo l’Enciclopedia Treccani “i M. erano forse (qualcuno sostiene il mito di Messapo che non era Illirico ma Beota) immigrati dall’Illiria agli inizi del 1° millennio a.C. La documentazione archeologica mostra l’esistenza, già alla fine del 9° sec. a.C., di rapporti con il mondo greco attestati dal rinvenimento di ceramiche mediogeometriche corinzie, cui si affiancano, nell’8° sec., importazioni attiche ed euboico-cicladiche; contemporaneamente si afferma la caratteristica ceramica locale, a decorazione geometrica dipinta. Rito funerario dominante è l’inumazione in posizione rannicchiata.” Ora magari la Treccani si sbaglia ma di qualcuno dovrò pure fidarmi … Ah dimenticavo il Mito di Messapo è presente nell’Eneide Virgiliana dalla quale si evince che i Messapi (in quanto seguaci di Messapo) erano ottimi cavalieri.
Sulla esistenza della vite in Grecia nel V sec. a.c. fra le altre c’è una testiomonianza indiretta: La commedia La Pace di Aristofane è datata 421 a.c. e narra le gesta di Trigeo un eroe … vignaiuolo. Il che ci fa capire che non solo esisteva il mestiere di vignaiuolo ma, considerato che il medesimo parla con Zeus in persona, coltivare la vigna era tenuto in grande considerazione. Come vedi i rapporti sono sempre proficui, e chi sottolinea le mancanze è sempre un gran benefattore: nonostante il poco tempo a disposizione ho potuto conoscere cose che non conoscevo, come posso ringraziarti? Per ora Ti auguro un felice Pasqua di resurrezione.
Mi chiamo Armando, ma questo conta poco. La consultazione della Treccani o di qualsiasi altro testo non specialistico non era necessaria; nel nostro caso, poi, solamente la lettura diretta della fonte poteva valere per non attribuire a Strabone ciò che non aveva detto. Che questa consultazione abbia incrementato la conoscenza di un certo argomento non può che essere un bene; dirò di più: mi è successo spesso di trovare casualmente, dove e quando mai me lo sarei aspettato, qualcosa che da tempo cercavo senza successo, nemmeno parziale. Ricambio gli auguri pasquali.
Dammi il tempo di arrivare al capitolo V, è lunga la Geografia di Strabone … che io ho il difetto di leggerlo tutto il libro non solo la citazione, e grazie a questo difetto si trovano le cose più simpatiche … ci arrivo, con il mio passo ma ci arrivo. La serendipità è gran cosa …
Scusami per aver sbagliato il nome Armando
“La serendipità è cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino.” (Julius H. Comroe)
“ … e scoprire pure che è buona ricamatrice, anzi, semplicemente, bona” (integrazione di Armando Polito)
“Quando si scrive una poesia è frequente la serendipità: miri a conquistare le Indie e raggiungi l’America” (Andrea Zanzotto)
“ … ma più spesso ti capita di non arrivare neppure alla più vicina masseria” (integrazione di Armando Polito)