di Paolo Vincenti
Da Casarano a Palmariggi, da Minervino a Diso, da Sanarica a Poggiardo, da Nardò a Giuggianello, dal leccese al brindisino, in tutto il Salento si festeggia San Giuseppe.
San Giuseppe è uno dei santi più amati dalla comunità cristiana. E non potrebbe essere diversamente. L’umile falegname è il padre terreno di Gesù e riassume in sé tantissimi valori cristiani: la fede, la castità, la mitezza e la bontà d’animo, la povertà, l’amore paterno. Marzo è il mese in cui la natura si risveglia dopo il lungo torpore invernale e quindi, fin dalla notte dei tempi, un periodo di transizione, un passaggio fondamentale nel ciclo della natura tra il freddo della stagione che si avvia a conclusione e la dolce brezza portata dalla nuova stagione primaverile. Marzo è il mese di San Giuseppe. Nel Salento, questa festa è molto sentita ed accompagnata da una serie di antiche e coloratissime, oltre che gustosissime, tradizioni culinarie.
La Taulata de San Giuseppe è uno dei riti più diffusi di tutto il Salento. Sono tredici le pietanze che compaiono sulla tavolata e ognuna di queste ha una spiegazione: pittule, pampasciuni, alici marinate, legumi, pesce ( pesce frittu o a sarsa), arance, la cuddhura, l’insalata di San Giuseppe, e ovviamente lu mieru, il vino rosso; ma su tutte, spicca la massa di San Giuseppe. E ancora, peperoni, pezzetti di carne al sugo, le pucce, farcite in diverso modo, i lupini, olive nere, ronghetto o stoccapesce, finocchi, maccarruni cu lu zuccaru, ecc.
Il numero delle portate può variare da tredici, come i discepoli di Cristo, compreso Giuda il traditore, a nove, sette, cinque, a secondo dei paesi; ciò che conta è che sia sempre un numero dispari. Intorno alla tavola, si siedono tredici santi che sono impersonati dagli abitanti del luogo o anche, in alcuni paesi, da altrettanti bambini che devono fare la prima Comunione.
I tredici santi sono: San Giuseppe, la Madonna, Gesù Bambino, San Giovanni Battista, Sant’Anna, San Gioacchino, Santa Elisabetta, San Zaccaria, Santa Maria Maddalena, San Filippo, Santa Agnese, San Giuseppe d’Arimatea, Sant’Antonio, che sono fissi, ai quali poi ogni paese aggiunge i propri santi protettori e altri santi a piacimento, fino ad arrivare al numero di tredici.
San Giuseppe è sempre il primo a sedersi a tavola e, battendo le posate sul piatto, dà inizio al pranzo, anzi alla grande abbuffata. La massa, conosciuta anche come tria, è una pasta ricavata dalla sfoglia di farina impastata con acqua, tagliata a striscioline e mescolata con ceci o cavoli e condita con olio d’oliva e cannella. Che sia con i ceci oppure con i cavoli, non devono mancare sulla massa, come la ciliegina sulla torta, i frizzuli, delle piccole strisce di massa fritta. Il termine dialettale tria è antichissimo e deriva dall’arabo itrya, che significa “pasta secca”.
La cuddhura, dal greco kollura, ha forma circolare, come la sfera dell’ostensorio, e simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova; ma il pane è anche un elemento fondamentale della Comunione cristiana e rappresenta, come sappiamo, il corpo di Cristo che si è immolato sulla Croce, come il vino ne rappresenta il sangue. Su questa specie di ciambella di pane, sono rappresentate la verga fiorita di San Giuseppe, cioè il bastone, un Rosario, e al centro viene messa una arancia oppure un finocchio; queste forme di pane vengono posizionate ai piedi della statua di San Giuseppe o vicino ad un quadro del Santo.
La leggenda della verga fiorita dice che, quando il Buon Dio cercava un padre putativo per Gesù Bambino, che doveva venire al mondo, inviò un angelo sulla terra; l’angelo convocò tutti gli anziani del paese, i quali si accompagnavano con il bastone, ma solo sul bastone di San Giuseppe fiorirono dei fiori di iris e delle piante di ceci e così Giuseppe fu scelto da Dio come padre del Bambin Gesù. Giuseppe era un umile falegname e, da qui, il suo protettorato sui falegnami e, in genere, su tutti i lavoratori.
Il Santo è, inoltre, protettore dei poveri e delle persone umili ed essendo egli stato sempre casto e morigerato, è anche tutore delle ragazze da marito, che a lui si rivolgono per trovare l’anima gemella . Quando Giuseppe e Maria con Gesù nel grembo ( “Maria lavava, Giuseppe stendeva, suo Figlio piangeva, dal freddo che aveva”, recitava una deliziosa canzoncina che ci facevano imparare a scuola da piccoli), sfuggendo alle persecuzioni di Erode, erano alla ricerca di un posto dove stare, tutti chiusero loro la porta e non riuscirono a trovare una dimora che li accogliesse, se non una fredda ed inospitale grotta di Betlemme. In ricordo di quell’atto di egoismo ed ingenerosità, quasi a consolazione, si allestiscono oggi le tavolate di San Giuseppe, cosicché il Santo possa idealmente trovare accoglienza ed ospitalità.
Le verdure sono un cibo povero, che rimanda alla primitiva economia di raccolta, basata sui vegetali. I legumi, soprattutto ceci e fave, oltre a richiamare la verga fiorita di San Giuseppe, rimandano alla religione pagana quando venivano offerte ai defunti le primizie della terra. Il pesce è un rimando a Cristo che, durante le persecuzioni dei cristiani, veniva disegnato, sulle pareti delle catacombe, proprio con la forma di pesce.
Gli altri simboli legati a questa festa sono: la palma, che si associa alla Madonna, ed è anche un simbolo di pace (nella Domenica delle Palme si ricorda il trionfale ingresso a Gerusalemme di Gesù, accolto da tantissime palme festosamente sventolanti); la mano, il bastone e la barba di San Giuseppe; il serpente, che rimanda al peccato, di cui si macchiò Giuda il traditore; e poi il martello e la scala, che alludono alla Crocifissione. Sulle tavolate, sono offerte anche noci, mandorle, noccioline.
Dovrebbero mancare la carne, i formaggi e le uova, cibi vietati in periodo di Quaresima, caratterizzato dalla penitenza e dalle rinunce, ma non tutti i Comuni riescono a farne a meno sulle loro tavolate.
Immancabili, inoltre, le zeppole. Queste gustose frittelle si associano alla festa di San Giuseppe e sono di origine napoletana.
Inventate dai maestri pasticceri partenopei nel Cinquecento, come dolce del Carnevale, in seguito, nel Settecento, esse si legarono anche ad altre ricorrenze, come soprattutto quella di San Giuseppe, e si diffusero in tutta Italia, quindi anche in Salento.
I fiori che ingentiliscono le tavolate devono essere bianchi e gialli, perché così vuole la tradizione. In molti Comuni, le tavolate, anche dette mattre, sono allestite all’interno delle abitazioni private. Coloro che ospitano le mattre sono fedeli, particolarmente devoti al Santo, magari per avere ricevuto una grazia o perché San Giuseppe è apparso loro in sogno, ed allora enormi tavolate vengono allestite nel locale più ampio della casa e vengono spalancate le porte per permettere a tutti di entrare.
Nel pomeriggio della vigilia, le tavole vengono benedette dal parroco del paese e il giorno dopo, esse possono fare bella mostra di se ai visitatoti che accorrono da tutto il Salento.
In alcuni Comuni, alla festa si associa anche la tradizionale “Cuccagna”, un antico gioco di piazza che consiste nell’arrampicarsi su di un palo, reso scivoloso dall’aggiunta di grasso, in cima al quale si trova un ricco premio.
La sera di San Giuseppe si tiene poi la tradizionale focara. Anche queste focare o focareddhe rimandano a riti pagani antichissimi, cioè ai riti stagionali del fuoco, riti di purificazione agraria. Nella società contadina del passato, si usava bruciare enormi cataste di ramaglie nei campi alla fine della stagione invernale; i contadini accatastavano tutti i residui inutilizzati del raccolto dei campi e appiccavano il fuoco, volendo in questo modo, anche simbolicamente, chiudere una stagione, facendo pulizia, e aprirne un’altra. La festa di San Giuseppe diventava perciò l’occasione più propizia . Recitava un detto del passato: La Madonna ‘mpastava lu pane, l’Angelu li purgia la pasta, a San Giuseppe li vinia la fame; “Maria, se su pronte le cuddhure, sciamu ‘ntaula cu manciamu, ieu, tie e lu Signore; chiama puru Gioacchinu e Anna, cusì se consuma tutta sta manna!”.
Nel mio paese natìo, a Spongano, riguardo a San Giuseppe si pronuncia un detto: “SAN CISEPPE PE MIE VINNE E PASSAU… NA TRISTA PASCA A TIE TE LUCISCIU!” ovvero: la festa di San Giuseppe giunse e trascorse senza che tu ti ricordassi di me; perciò non ti lamentare se passerà Pasqua e io non mi ricorderò di te!
Al proposito mia nonna Addolorata Polimeno mi raccontava che a pronunciare quelle frasi piene di risentimento fu una gfiovane ragazza promessa sposa al suo fidanzato. Siccome era tradizione che il giorno di San Giuseppe il fidanzato donasse alla sua amata un cartoccio di NUCEDDHRE, portandogliele personalmente a casa, avvenne invece che questi se ne dimenticò. Allora, il giorno dopo la fidanzata risentita e amareggiata per questa trascuratezza, gli fece intendere che Pasqua sarebbe per lui passata senza assaggiare la tanto sospirata CUDDHRURA CU L’OVE! E così avvenne.
Veramente un bell’esempio di saggezza popolare Salentina, che ben si confà al comando evangelico: non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te!
Paolo Vincenti è amorevolmente enciclopedico. Servirebbero i canali televisivi di SKY, le risorse di Facebook o di Google se ognuno di noi avesse Vincenti da ascoltare, leggere e interrogare? Una scrittura fluida, accattivante, ricca di spunti e informazioni. In questo bell’articolo sui festeggiamenti per San Giuseppe è ancora più chiaro il valore del nostro regista di sensazioni: possiamo collocare geograficamente i paesi dei culti descritti, assaporare le ricette proposte per tradizione, rallegrare gli occhi dinanzi alla disposizione delle tavole, rimanere soddisfatti di un particolare tirato in ballo o di una curiosità a sfondo umano sul Santo e sulle virtù che gli portarono devozione. Ora sì che possiamo sentire più corposa la gioia per una simile festa! Se infatti un Santo è stato prima di tutto un uomo, allora ognuno di noi può rispolverare i valori di vita da lui trasmessi, quelli che, pur non portandogli santità, possono regalargli comunque qualche attimo di felice beatitudine.