di Rocco Boccadamo
19 marzo, antivigilia della primavera e, soprattutto, giorno in cui, per i cattolici, si celebra la festa di S. Giuseppe, sposo della Vergine Maria e padre putativo di Gesù.
Il culto e la venerazione verso il Santo Patriarca per eccellenza, capo terreno della Famiglia di Nazareth, sono diffusi in tutto il mondo e numerosi e capillari si contano gli edifici religiosi a lui espressamente dedicati.
A prescindere dalle anzidette notazioni sul piano della fede e di un credo specifico, vale la pena di ricordare che il 19 marzo, in Italia, è stato a lungo considerato “giorno festivo” anche agli effetti civili, una regola abolita con legge del 1977.
Nel Salento, la ricorrenza in discorso contiene e abbraccia pure peculiari usi, costumi e consuetudini d’altro genere, datati e rigorosamente tramandati fra generazioni. In concreto, siffatto capitolo verte sulla preparazione e l’allestimento, in omaggio al Santo, di un pasto, meglio dire un pranzo, conforme e fedele a un menù tanto ricco, quanto indicativo.
L’articolata gamma di piatti e pietanze, ivi compresi dessert e dolci, svaria non a caso, ponendosi anzi agli antipodi rispetto ai frugali e semplici pasti d’ogni giorno nella realtà e nella storia delle famiglie contadine, ma recando insieme, in pari tempo, un connotato morale, intriso e insaporito di generosità, considerazione, altruismo e rispetto nei confronti del prossimo, inteso specialmente nel senso dei più poveri. Presupposto basilare e di principio, è l’invito ad Ospiti, sempre in numero dispari, da un minimo di tre sino a tredici, insieme ai quali condividere il piacere e la gioia della mensa imbandita.
Il tavolo intorno a cui sedere ha la denominazione specifica, giustappunto, di Tavola di S. Giuseppe.
Al centro della “Tavola”, ornata con fiori e ricoperta da tovaglie finissime, campeggia un quadro del Santo e, intorno, sono allineate grosse pagnotte ad anello, impreziosite, al centro, da un’arancia.
Ritornando al tema degli Ospiti o Santi, i primi tre, secondo credenza, s’identificano con la Sacra Famiglia (Gesù, Giuseppe e Maria, quest’ultima deve essere una ragazza nubile).
Quanto al menù e ai piatti, le voci principali sono:
– la “massa” (tagliolini di farina di grano fatti in casa), cotta con ceci e teneri broccoletti di cavolo, servita dopo avervi sparso sopra i “frizzuli” (filamenti della stessa “massa”, fritti, quasi abbrustoliti, croccanti;
– cavoli lessi;
– cavolfiori fritti;
– pesce fritto (ope o pupilli) e/o, eccezionalmente, stoccafisso;
– lampasciuni;
– contorni a base di “chiapparate” e olive in salamoia;
– dolci (zeppole o altre specialità).
E’ bello, sinonimo di genuina espressività, soffermarsi sul significato di alcune vivande;
– la pasta con ceci, rappresenta, per i colori, il narciso, fiore primaverile;
– i lampasciuni, sono segno del passaggio dall’inverno alla primavera;
– il cavolfiore, ricalca, espressamente, il fiore posto alla sommità del bastone di S. Giuseppe;
– lo stoccafisso, s’identifica come cibo delle grandi occasioni.
Sono diversi i paesi del Salento dove s’imbandiscono le “Tavole”, un bel numero di località è raccolto nell’area intorno a Otranto, da citare, ad esempio, Uggiano La Chiesa e Giurdignano. Nel sito web ufficiale del primo degli anzidetti Comuni, si legge che, compresa la frazione di Casamassella, sono ben trentasei le famiglie devote che preparano la “Tavola”.
Riti analoghi, si svolgono anche in altre regioni d’Italia, particolarmente in Sicilia, nell’entroterra intorno a Enna (Aidone, Valguarnera Caropepe, eccetera). Da quelle parti, gli allestimenti portano il nome di “Tauli ‘ri San Giuseppi” ed espongono una fantasia coloratissima di portate, fra cui dolci tipici.
Nella memoria di chi scrive, è vivo e nitidamente stagliato il tavolo (o mattra) di S. Giuseppe che, sino a qualche decina d’anni fa, era preparato, più spartanamente in confronto alle descrizioni fatte prima, al paesello natio di Marittima.
Il piccolo centro, allora, comprendeva una cappella intitolata al Santo, in corrispondenza dello spazio dove, adesso, trovansi allestiti i giardinetti pubblici, dentro la quale si custodiva una bella statua in cartapesta della Sacra Famiglia. Che emozione, presenziare, il 28 aprile, festa del locale Santo Patrono, al “prelevamento” di tale simulacro, unitamente alle statue delle due Madonne (Immacolata e di Costantinopoli o Maria Odegitria) conservate nel Santuario, e ammirarle sfilare in processione, dietro al Protettore, lungo tutte le vie dell’abitato!
La “Tavola” maggiormente conosciuta era quella messa su, per devozione, dalla famiglia di Trifone Mariano, un fratello del quale, don Vitale, aveva scelto di farsi prete, operando soprattutto nel Seminario arcivescovile di Otranto, ed era arrivato al grado di Arcidiacono e al titolo di Monsignore, quale Prelato Domestico di Sua Santità.
Già dalla fine di febbraio, i ragazzi si arrampicavano sulla piccola collina appellata “Acquareddre” verso l’insenatura Acquaviva, incolta, dopo di che, fra piccole rocce e fazzoletti di terra rossa, vi scavavano mediante uno “zappune” per cercare e raccogliere i lampasciuni.
L’abitudine, si fa per dire campestre, alligna anche oggi, con la rimarchevole differenza, però, che, chi la segue, si muove attrezzato di gravina, arnese lungo e sottile, girando per i terreni (di proprietà di altri) e scavando buche cospicue, che, al termine dell’ispezione, si guarda bene dal ricoprire, con pericolo, per quanti si trovano a transitare in zona, di qualche storta o tombolone.
Si vorrebbe finire le presenti note rievocative, con alcuni richiami speciali, sul versante religioso e di pura devozione intorno al Santo che ci occupa.
S. Giuseppe è definito “patrono degli agonizzanti e della buona morte”. Ciò, verosimilmente, alla luce di come, in qualche testo, è stata descritta la personale morte del Patriarca: felicissimo transito, con l’assistenza di Gesù, di Maria e degli Angeli.
Si sottolinea che, prima del passaggio, S. Giuseppe ebbe una “sublimissima estasi, in cui rimase per più ore” e, infine, che, come gesto di grande amore verso la sua Sposa, la “lasciò raccomandata in modo speciale al suo Divin Figliolo”.
Rivolgendosi all’ambiente terreno, la Chiesa, fra i diversi significati, conferisce al concetto di “buona morte” l’immagine di un sonno pacifico, alla stregua di quello di un fanciullo che s’addormenta sul seno di sua madre.
Bello ricordare queste tradizioni nostrane che nascono,in un passato lontano, sempre con profonde motivazioni religiose e di umana “pietas”.
E’ utile nel contempo sottolineare il significato simbolico anche dei colori legati alla primavera e al risveglio della natura che ogni anno rinnova il suo miracolo. Occorre sensibilizzare i bambini e i giovani a quanto costituisce il nostro patrimonio culturale e insegnare loro a custodirlo gelosamente.