Le fascine di San Marzano di San Giuseppe: il fascino di una festa antica, ma sempre viva nel suggestivo mondo di una comunità albanofona
di Giuseppe Massari
A San Marzano di San Giuseppe, piccolo centro cittadino della provincia di Taranto, la festa patronale, in onore del santo falegname di Nazareth, è vissuta ancora oggi come un appuntamento corale importantissimo che si esprime essenzialmente con i riti devozionali della processione delle legna, dell’esposizione delle tavolate e delle “ mattre” e della benedizione del pane, chiamato di S. Giuseppe.
Questi antichi riti risalgono, almeno nelle forme vigenti, da una data importante e storica che è entrata nella vita di questa comunità. Era il 7 settembre del 1866 quando il sindaco di San Marzano, Francesco Cavallo, deliberò che al nome del paese fosse aggiunto il suffisso “San Giuseppe “ esprimendo con questo atto la volontà unanime dei concittadini che tributavano al Santo solenni festeggiamenti con una devozione antichissima.
Infatti il culto a San Giuseppe risale, nella comunità albanofona di San Marzano, già al XVII secolo, portato dalla madrepatria dai profughi albanesi, di rito greco-ortodosso, che qui si stabilirono nella prima metà del 1500. Ed è appunto da quella data che S. Giuseppe, già protettore della famiglia, dei poveri, degli orfani e dei falegnami, divenne patrono di San Marzano: fino al 1866 Patrona del paese era invece la Madonnadelle Grazie.
In tutto il corso e il coro dei festeggiamenti, l’avvenimento più suggestivo è quello della processione della legna, che si ripete puntualmente il giorno della vigilia, il 18 marzo. Raccontarlo sembrerebbe rispolverare qualcosa di magico, fantasioso e superstizioso. In esso, invece, vi è un concentrato di fede senza precedenti. Non solo perché è unico come spettacolo, ma perché così concepito, sprigiona sentimenti di autentica e genuina religiosità popolare.
Lo spirito penitenziale dei festeggiamenti si esprime ancor oggi con una coralità popolare intensa soprattutto il pomeriggio della vigilia attraverso la processione della legna che si conclude con un grande falò ( “zjarri e mate”) dalle proporzioni straordinarie.
L’ origine di questo rito è da rintracciare in un evento accaduto agli inizi dell’ 800 che è rimasto nella memoria collettiva sanmarzanese. A causa delle temperature molto rigide e dell’ eccessiva miseria, quell’ anno gli abitanti del paese decisero di rinunciare ai piccoli falò che abitualmente venivano offerti a S. Giuseppe nei vicoli. Ma durante la notte della vigilia si scatenò sul paese un violento nubifragio che divelse molti alberi nella campagne e che venne interpretato come un atto punitivo del Santo. I saggi del paese decisero allora di offrire a S. Giuseppe un unico grande falò da accendere sul largo Monte ( “laerte Mali” ), così grande che fu visibile dai paesi limitrofi. E, da allora, per quasi due secoli, la processione dei carri e delle fascine rimane il momento più attraente e più emozionante dell’ anima popolare e religiosa dei sanmarzanesi, se è vero che addirittura i cavalli si inginocchiano dinanzi alla statua del santo protettore.
È una processione interminabile che si snoda per le vie del paese e vede la partecipazione di uomini, donne , anziani ognuno con il proprio carico ( un enorme tronco sulla testa o sulle spalle o le fascine di “stroma” o di “ saramienti”) ed i bambini con le carrozzelle ( costruite insieme agli amici) rumorose e cariche anch’esse di legna. E, infine, i carrettieri ( “li travinieri”) con i grandi protagonisti della processione: i cavalli addobbati per l’ occasione con eleganti finimenti e con il loro traino carico di fascine e sormontato da un’ effige del Patrono. Al termine della Messa serale il parroco, dopo la benedizione della legna (fatta ai quattro lati della catasta, secondo i punti cardinali), accende il fuoco che per tutta la notte illuminerà il paese invocando la protezione del Santo Protettore, anzi, si fa in modo che il fuoco duri fino alle ore 12 del giorno dei festeggiamenti.
Questa è festa di fede, si diceva, ma è anche festa della convivenza civile e serena fra popolazioni di etnie diverse, bene integrate nel tessuto sociale di una città che non vuole dimenticare le sue origini e le sue tradizioni, anzi, rilanciandole.
Infatti, c’è chi non dispera di poter fare inserire questa colorita e folkloristica manifestazione nel novero di quelle da essere tutelate dall’UNESCO, creando un’apposita Fondazione del falò di San Giuseppe. È un progetto ambizioso ma legittimo, se è vero, come è vero, che in questa parte di Puglia accorrono molti visitatori da diverse parti d’Italia per confondersi con quella storia che coinvolge, affascina, seduce e rende tutti protagonisti.
Gli abitanti di San Marzano, con quel pizzico di orgoglio, tanto quanto basta per non aprire fessure di attrito campanilistico con la vicina Novoli, sostengono, che la fòcara, in programma nel paese salentino, nello stesso giorno, se non nelle stesse ore, è di gran lunga inferiore. Non solo perché è nata come tradizione solo a partire dai primi decenni del secolo scorso, ma poi perché i saramenti usati per quel falò provengono da fascine di vigneto, quelle di San Marzano da quelle di ulivo, quindi più resistenti e più forti nella bruciatura, cioè destinate a durare più a lungo, anche a contatto con il fuoco. Ma le une e le altre assolvono alla stessa funzione: fanno salire verso il cielo un fumo di sacralità e benedizione. Ed è quello che San Giuseppe gradisce.
Mi piace leggere delle tradizioni sacre di popoli semplici, nel caso di San Marzano di San Giuseppe, perfino misti. Ogni popolo porta in sè credenze e modi di vivere pronti ad amalgamarsi, il più delle volte, con quelli dei posti in cui si insedia. In questo paese del tarantino sembra sia stato un esperimento ben riuscito. Non credo che la Madonna delle Grazie, prima patrona di S. Marzano, se la sia presa per aver dovuto lasciare poi il posto a S. Giuseppe. Tutto, in fondo, è rimasto in famiglia.
Anche chi scrive e descrive i colori e i sentimenti di questa bellissima festa si chiama Giuseppe e forse non è un caso.
Giuseppe Massari, dunque, ci racconta con accuratezza e partecipazione i preparativi e lo svolgimento della Processione della legna e lo fa come se fosse l’esito di una speciale fioritura del rude bastone del Santo, la talèa che ha messo radici nella tradizione religiosa del paese, amorevolmente impiantata da superstizione e devozione.
La suggestione nell’immaginare questo enorme falò in onore del santo emoziona, tanto più che ogni fascina e ramo di ulivo portato per alimentare il fuoco è la penitenza che si consuma, la speranza che arde e il nostro desiderio di cristiani e lettori che mai i riti che nascono dal cuore si spengano per mancanza di fede. Credere, qualunque ne sia l’oggetto, è il lasciapassare di un uomo per continuare a vivere.
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