di Giorgio Cretì
Ippaziantonio, o Patintoni, in quel periodo aveva la zita, la fidanzata, a Spongano e da lì andava e tornava in bicicletta. Ma andare e venire così, semplicemente, non poteva durare a lungo e ora, dopo quasi un mese, sia la Nina, la zita, che i suoi parenti gli imponevano di presentarsi con i suoi.
Con quasi tutte le fidanzate che aveva avuto era sempre andato in casa e questo comportava una certa tranquillità rispetto al fidanzamento scusi, di nascosto, che richiedeva continui stratagemmi per potersi incontrare con la ragazza, ma comportava anche la difficoltà, di notevole peso, che prima o poi i genitori del fidanzato dovevano recarsi in casa della fidanzata e sugellare così un patto prematrimoniale che diventava impegnativo anche agli occhi della comunità.
Ippaziantonio continuava a tergiversare, ma quelli insistevano. “Sì, sì egli diceva, li porterò”. Ma sapeva molto bene che non avrebbe potuto: sua madre non gli avrebbe nemmeno lasciato fare la richiesta e suo padre, come minimo, gli avrebbe assestato un paio di calci nel culo, anche se solo a parole. Gli rimaneva, perciò, solo una possibilità: cercarsi un’altra fidanzata. Ma siccome non poteva abbandonare il terreno così presto, ne inventò una delle sue.
C’era allora in paese una donna povera che si chiamava Concetta, tanto povera che a malapena riusciva a mangiare tutti i giorni. Ippaziantonio si recò da lei.
“Concetta”, disse subito dopo averla salutata, “vogliamo fare un negozio?”.
“Che cosa devo fare, Ippaziantonio?”, disse la donna incuriosita.
“Devo portarti in un posto, a casa di una mia fidanzata, e tu devi venire con me, come se fossi mia madre. Se vieni è sicuro che ci scappa una buona mangiata”.
Concetta, che per una buona mangiata avrebbe fatto chissà che cosa, perché in casa sua la fame aveva dimora stabile, fu subito interessata alla proposta, ma gli fece capire che c’era qualche difficoltà da superare. Esistevano limiti materiali che lei non poteva superare.
“Ma io, figlio mio”, disse, “non tengo ‘robbe(1). Con le scarpe la possiamo arrangiare ma non ho stiànu(2), non ho sciuppareddhu(3) e nemmeno mantèra(4). Non ho nulla. Vedi come sono vestita adesso? Così la festa e così tutti i giorni”.
Ippaziantonio si rese conto che così vestita non poteva essere presentata come sua madre e rimase un attimo pensieroso.
“Sai cosa facciamo?”, disse d’improvviso, “sai che cosa facciamo, Concetta? Domenica, quando mia madre torna dalla messa, prendo le sue ‘robbe e le nascondo. Poi tu esci dal paese a piedi ed io ti raggiungo in bicicletta. Ti cambi, ti metti le vesti di mia madre, ti carico e andiamo”.
“Beh”, disse Concetta convinta, “così si può fare. Diversamente, io non posso venire”.
“Rimaniamo così”, Ippaziantonio concluse, “poi verrò io ad avvertirti quando sono pronto”.
La domenica, appena sua madre tornò dalla messa e si cambiò d’abito, Ippaziantonio prese la gonna, la giacchetta ed il grembiule, ne fece un fagotto e lo nascose in cantina. E siccome la cantina era scavata nel tufo sotto la casa, com’era la tradizione delle case salentine, egli non correva il rischio di essere visto uscire con un involto sospetto.
Inforcò la bicicletta e andò ad avvertire Concetta che aveva i vestiti. Prese intanto accordi precisi sul luogo dell’appuntamento e sull’ora. Da lì andò direttamente a Spongano, per avvertire che nel pomeriggio avrebbe portato sua madre; cosicché quelli si misero in subbuglio e si diedero da fare, come succede sempre in tutte le famiglie quando si attende una visita importante.
Quando giunse il momento e quando ritenne che Concetta si era avviata, Ippaziantonio prese il suo fagotto, cavalcò la bicicletta e si avviò anche lui per la strada di Spongano. All’uscita del paese, vicino ad un campo di Emilio Suonacampane, dove cresceva un cipresso solitario, verde in mezzo alla campagna arsa dal sole, trovò Concetta che lo aspettava. Le diede il fagotto e la povera donna si nascose dietro un muretto di pietre e si cambiò. Si tolse i suoi poveri stracci e indossò l’ampia gonna pieghettata lunga fino ai piedi, la giacchetta con il collo a pistagna e tanti orli increspati ed il grembiule, di modo che, uscendo, apparve non più Concetta, ma Addolorata, la madre di Ippaziantonio.
E Ippaziantonio se la caricò sulla canna della bicicletta e si avviò per la strada polverosa, badando di mantenersi sulla carreggiata dove la ghiaia era battuta dalle pesanti ruote dei carri ed il pericolo di forare era ridotto. Alla discesa di Funnu Cistizzu prese pure a fischettare una canzone allegra e in poco tempo giunse a destinazione.
È da figurarsi la scena a casa della Nina! Trovarono tutti con il vestito della festa e si sentiva odore di cose buone. L’accoglienza fu festosa e, dopo i convenevoli di rito – “Cosa fate?”, “Siamo qui!” -, Ippaziantonio presentò quella che doveva essere sua madre. La quale, non essendo povera di parole come lo era di condizione, fece la sua bella figura.
“Ecco”, disse Ippaziantonio, “mamma questa è la mia fidanzata”.
“Oh la carusa(5)mia”, disse Concetta conmmuovendosi, “questo è il mio unico figlio e Dio sa quanto gli voglio bene. Che il Signore vi dia salute e faccia che vi prendiate e vi godiate”.
Mentre diceva queste parole si stringeva e baciavala Ninala quale, anche, commossa, abbracciava la futura suocera chiamandola mamma.
Così, sedettero tutti intorno alla tavola, per l’occasione apprestata sopra una bianchissima tovaglia di lino, tessuta probabilmente dalla Nina stessa, e piano piano inziarono quella conversazione formale che serviva alla presentazione delle due parti contraenti nonché alla esplorazione delle reciproche intenzioni, mentre i due fidanzati erano seduti uno vicino all’altra, nella stessa stanza e in silenzio. Poi la conversazione si affrancò da questi vincoli e allora la madre della Nina propose di fare uno spuntino. Che poi uno spuntino fu per modo di dire, perché fu portato in tavola un enorme piatto di sagne(6)di sfoglia fresca fatta in casa, e pesce fritto. Concetta, pur avendo tanta fame, non esagerò, ma lo stomaco se lo mise a posto e durante il pranzo mantenne sempre un contegno decoroso e un po’ altero come si conveniva alla madre del fidanzato.
Ippaziantonio era soddisfatto del successo che stava ottenendo, perché ciò voleva dire che non ci sarebbero più stati sospetti nei suoi confronti, ma stava sulle spine se pensava che sua madre avrebbe potuto avere bisogno dei vestiti per qualche impegno improvviso e cercava di figurarsi che cosa sarebbe successo.
Non era stagione di frutta fresca e furono servite carote per subbrataula, per dessert. Concetta si trovò un po’ in difficoltà per via dei denti che non erano più molto sani, ma se la cavò senza sfigurare, tagliando le carote a fettine sottilissime con il suo coltellino da tasca.
Venne poi il momento, anche a causa della digestione, in cui le risorse per tenere viva la conversazione iniziarono ad esaurirsi. Allora Ippaziantonio, approfittando di un attimo di sonnolenza generale, molto educatamente si rivolse a Concetta.
“Mamma”, disse, “che dici signoria, ce ne andiamo? Se no si fa notte”.
“Eh si, figlio mio”, rispose Concetta riprendendosi di colpo, “è bene che andiamo”. E mentre si alzava concluse, a beneficio dei presenti: “Sono contenta di essere venuta, così questa gente sa che siamo tutti contenti”.
Salutarono, montarono in bicicletta e si avviarono per tornare a casa. Per ultima si sentì la voce della Nina che raccomandava ad Ippaziantonio di stare attento alla strada e di andare piano, mentre la scena veniva seguita da occhi indiscreti che spiavano da dietro gli scuri delle case vicine.
Quando giunsero al cipresso, Ippaziantonio si fermò. Concetta scese dalla bicicletta, andò dietro il muretto di pietre e, dopo qualche minuto, tornò vestita dei suoi panni e con avvoltolati in braccio quelli di Addolorata. Era di nuovo Concetta, quella di sempre, però questa volta aveva lo stomaco soddisfatto. Ringraziò Ippaziantonio e a passettini leggeri si avviò tranquilla verso casa sua.
Ippaziantonio tornò pure a casa mentre cominciava ad annottare e, siccome sua madre e suo padre erano seduti a prendere il fresco chiaccherando con i vicini, ebbe il modo di rimettere a posto i vestiti senza essere notato.
Era fatta! Era tutto sistemato.
Ormai tutte le volte, quando arrivava, lo attendevano a braccia aperte e non sapevano che festa fargli. Le cose andarono avanti così per parecchio tempo, godendo, anche,la Ninae Ippaziantonio, di sorveglianza ridotta.
Ma non poteva durare, perché il diavolo fa le pentole e non fa i coperchi, e una sera, entrando, Ippaziantonio non vide gli stessi sorrisi e le stesse accoglienze cui era abituato e non vide nemmeno la porta per entrare in casa, perché siala Nina, inferocita, sia sua madre, che avevano assunto un aspetto feroce, stavano per saltargli addosso e, se non fosse stato svelto a scappare, l’avrebbero squartato vivo.
(1) ‘Robbe, indumenti.
(2) Stianu, gonna molto ampia e pieghettata, lunga fino alle caviglie.
(3) Sciupparedhu, corpetto tessuto al telaio con filo di lana o di cotone, con ampie maniche che si restringevano ai polsi; si chiudeva posteriormente con una serie di bottoni; era indipenndente ma veniva coperto dalla gonna.
(4) Mantèra, grembiule.
(5) Carusa, giovane ragazza.
(6) Sagne, tipo di pasta casalinga.
(“il Rosone” – Anno VI n. 5, 1983)