di Antonio Mele ‘Melanton’
Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.
Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.
A casa mia, come in molte altre case del Salento,in un tempo non poi così lontano, e tuttavia remotissimo da quello di oggi, era abbastanza ricorrente un gesto, anzi un autentico ‘atto d’amore’, che mi torna spesso alla mente (e al cuore) quando si ripresenta una similare situazione.
Succedeva quando avanzava del cibo, e specialmente un po’ di pane. Magari un piccolo tozzo ammuffito, rinsecchito, raffermo, che doveva essere necessariamente buttato via, e quando si era proprio costretti a farlo, lo si faceva con una certa contrizione, quasi fosse peccato. E in segno di rispetto, chiedendo tacitamente perdono alla sempre sacra ‘provvidenza’, lo si baciava con devozione sincera. Una specie di liturgia, un rito spontaneo, insomma, che nell’epoca attuale, così esasperatamente consumistica, può perfino far ridere o sorridere, ma che la dice lunga sui valori fondanti di civiltà, che abbiamo ereditato insieme alle solide ‘radici’ contadine.
Non aveva molto pane, racconta la leggenda, una donna nelle campagne dell’Alto Salento. E neppure, come si dice, gli occhi per piangere, tant’era povera e sola. Rimasta prematuramente vedova, viveva in una piccola grotta a ridosso di un bosco, e per tirare su la sua bambina andava ogni giorno a far legna, con grande fatica e miseri ricavi.
Siamo agli albori della civilizzazione salentina. In quella zona, sulle coste vicine, a causa di una furiosa tempesta, riparò un folto gruppo di navigatori Cretesi. Il loro valoroso comandante – che alcuni vogliono discendente dal dio Oronte – stabilì di fermarsi definitivamente in quei luoghi, sopra una collina in evidente posizione strategica, a cavallo fra il mare Adriatico e lo Jonio.
Iniziò così la fondazione di una nuova città, che i Cretesi chiameranno Hyria (oggi Oria).
Durante i lavori di costruzione, però, le poderose mura, erette per più di cento piedi, non erano ancora del tutto ultimate, che improvvisamente, e inspiegabilmente, crollarono e rovinarono al suolo. E poiché tale infortunio si ripeté per ben tre volte, si decise di interrogare l’Oracolo, il quale rese infine questo drammatico vaticinio: «La nascita della nuova città impone di onorare gli Dei con il sacrificio di una vergine!».
L’impresa si rivelò tutt’altro che facile. Informati tempestivamente del responso, i contadini dei dintorni nascosero infatti in siti inaccessibili tutte le loro bambine e le giovani fanciulle. Tranne una, però: la piccola figlia della vedova, anche quel giorno rimasta sola in casa, mentre l’ignara madre continuava a tagliare legna nel bosco.
Così, presa la piccola, il terribile sacrificio ebbe il suo crudele compimento, e le mura non caddero più.
Al suo ritorno, la povera donna fu subito informata della tragedia, e per quanto confortata da alcune pietose vicine, distrutta dal dolore si gettò in un precipizio, non senza aver prima maledetto la nuova città: «Possa tu, Oria, fumare nei secoli come arde e brucia oggi il mio cuore!».
Da qui nasce il famoso detto: Oria fuma e Francavilla guarda.
Infatti, dal vicino paese di Francavilla Fontana, che fronteggia per l’appunto Oria, si può ancora oggi notare, sulla collina dov’ebbe origine, come una nebbiolina fitta di lacrime che avvolge le mura della città.
È successo qualche tempo fa, a Sternatia, in una sera di primavera.
Nessuna leggenda, in questo caso. Ma un omaggio dovuto alla bellezza delle immortali tradizioni della nostra terra, e della Grecìa salentina in particolare.
Con mia moglie Teresa tornavamo da Cavallino, dov’eravamo stati per salutare alcuni suoi parenti, e avevamo preso la superstrada Lecce-Maglie, tagliando per l’appunto da lì, con destinazione Galatina. Era una di quelle sere di fine aprile, che vorresti non finissero mai: calda eppure ventilata, con profumi d’erbe e di terra sparsi nell’aria, il cielo nero e stellato, luci di campagne e paesi palpitanti sugli orizzonti lontani, voglia di volare e di sognare…
Senza quasi sapere come, a Sternatia ci siamo trovati intorno ad una piazzetta, mescolati con un folto gruppo di paesani che l’assiepavano, del tutto affatturati dai canti e dalle musiche che alcuni giovani avevano improvvisato, ballando a piedi nudi al frenetico ritmo della ‘pizzica’. Un’anziana signora, di tanto in tanto, gridava strane parole e sorrideva. Parlava evidentemente in griko, ed era felice come una bambina.
Quando i ragazzi hanno sospeso di ballare, l’ho avvicinata e le ho chiesto se mi recitava qualcosa – qualsiasi cosa: una preghiera, una poesia, un proverbio… –, purché me la raccontasse in quella sua arcaica e affascinantissima lingua, della quale (lo confesso senza pudore) ho sempre compreso solo pochissime parole, ma starei per ore ad ascoltarla, perdendomi.
Allo stesso modo di quando, mille secoli fa, mi capitava di andare in Corso Re d’Italia a trovare zio Nino nella sua rinomata “Casa del Cacciatore”, specialmente di giovedì, giorno di mercato, e vedevo tornare verso la stazione ferroviaria donne e uomini quasi di un altro mondo, che parlavano quella lingua incomprensibile ma di scintillante armonia.
Così, la vecchietta (mi sembra di ricordare che si chiamasse Maria Donata) è stata al gioco, ci ha fatto cenno di accompagnarla in una corte vicina, e dopo aver chiamato a gran voce due sue “cummari”, ci ha invitato a sedere, sistemandoci in circolo. Tra un bicchiere di krasì (vino) e friselline con pomodoro, capperi e rughetta, mentre la pizzica sulla piazzetta riprendeva e ci rapiva con toni ovattati, siamo rimasti per un tempo infinito ad ascoltare leggende e ‘cunti’ in lingua grika, per nostra fortuna (e maggiore delizia) tradotti in simultanea da una delle tre divertite signore.
Tenera e dolce mi sembra questa filastrocca (che trascrivo in dialetto ‘volgare’), riguardante la Quaremma o Curemma: «Cara Curemma, Curemma cara,/ cu la veste nivvra e mara,/ sempre all’erta, nfacciata a ddha susu,/ pe ci vai girandu lu fusu?». «Spettu Pasca, a tutte l’ore/ cu resuscita nostru Signore». «Curemma ci fili la lana bianca/ cce nci porti de Pasca santa?». «Vu portu pane, vu portu fatìa,/ cu stati a mpace, e cusì sia».
Delle tante leggende di quella magica sera, la più romantica e avvincente – presa peraltro in prestito da un celebre mito della Grecia classica – è sicuramente quella che ha come protagonista Proserpina, la figlia di Cerere, dea dell’abbondanza.
Le nostre “cummari” di Sternatia, nella loro suggestiva versione popolaresca, raccontavano dunque che il Diavolo in persona (nel mito originale è il dio Plutone), costretto a vivere in eterno nel mondo profondo delle tenebre, riuscì un giorno a risalire e a sporgersi fin sulla terra degli uomini. Fece molta fatica a vincere la luce del sole che gli feriva gli occhi,e infine, girando intorno lo sguardo con eccitata curiosità, scoprì le verdi distese dei campi, rigogliose d’erba e di nascente frumento, con gli alberi colorati a festa, e voli gioiosi di rondini che traversavano il cielo. Ma più di ogni altra meraviglia vide una bellissima fanciulla che raccoglieva fiori, e cantava con voce soave, tanto che egli, il più terribile di tutti i dèmoni, diventava docile come un agnellino. Di quella giovane donna anche il nome era bello e gentile: Mirodìa, che in griko – mi dicono – significa Fragranza.
Inutile aggiungere che il Diavolo se ne innamorò istantaneamente, e prima che il sole gli bruciasse del tutto la vista, la rapì e la condusse con sé negli inferi.
La madre della fanciulla, che era la Fata Agapòs, custode e protettrice di tutte le terre e dei loro prodotti, non vedendo la figlia tornare a casa, cominciò a disperarsi, e dopo tre giorni e tre notti di vane ricerche impazzì per il dolore, senza più curarsi dei fiori, dei frutti e della fecondità dei campi, e provocando così un drammatico periodo di siccità e carestia.
Commosso dalla disperazione di Agapòse dalle suppliche della popolazione (che per la totale mancanza di cibo si ammalava e rischiava di morire in breve tempo) il potente Mago Kalò che regnava in quelle contrade, riuscì, con il consenso della stessa generosa Mirodìa, a fare un patto col Diavolo: per i primi tre mesi dell’anno, la fanciulla sarebbe rimasta con lui, mentre per gli altri nove mesi, da aprile in poi, sarebbe tornata da sua madre, e questa, dopo il temporaneo e sofferto periodo di gelo e aridità, avrebbe rigenerato la Primavera e le altre belle stagioni, facendo rifiorire tutti i campi, e ordinando alle piante e agli alberi di dare i frutti più belli e saporosi.
Buona Primavera, dunque! E alla prossima.
Pubblicato su Il Filo di Aracne