di Paolo Rausa
Vulcano-Efesto, il dio sciancato dei metalli, non ha pensato di meglio che aprire una nuova fucina nei sobborghi sud-orientali a Giurdignano, nei pressi di Otranto, terra di uno dei più impressionanti allineamenti di menhir in Europa, in direzione est-ovest, che segnano lo spartiacque fra l’inizio e la fine dell’esistenza. Forse per colonizzare questo lembo d’Italia abitato dai Messapi, in cui si è insinuato il ri/morso d’amore delle tarantate, e luogo terminale della Via Appia, che da Roma giunge a Brundisium e si collega via mare a Dirrachium (Durazzo) e da lì lungo la via Egnatia porta a Salonicco e poi in Asia Minore.
Vulcano-Efesto ha assunto l’aspetto di Alberto Leo, che del dio ha conservato tutti i connotati non solo nella manualità artigianale e inventiva, ma persino nell’aspetto con la capigliatura arruffata e una folta barba nera che copre il viso. Il dio artista Efesto-Vulcano/Alberto Leo, sposo di Afrodite – l’arte informe che è alla perenne ricerca della bellezza per diventare eterna – parla attraverso la confusione apparente della fucina di fabbro, ereditata dal padre Antonio, e del laboratorio di falegnameria, ereditato dal nonno Salvatore. In questo modo Alberto, che disdegna l’arte salvo poi darne ampia e approfondita dimostrazione nel suo antro-abitazione, ha fuso la tradizione degli avi, sublimandola con inventiva artistica e aggiungendo il restauro dei mobili d’epoca.
Quello che più colpisce nel luogo riservato alla sua persona sono le opere d’arte realizzate unendo la materia prima della sua terra, la pietra, utilizzata nelle forme di un cranio percorso da bisce in ferro battuto, chiaro riferimento alla limitatezza del tempo terreno e alla circolarità del serpente, oppure nella forma di un megalite sormontato da una figura di “cozza municeddhra” (lumaca con il velo) – esposta qualche anno fa nel corso della manifestazione “Salento Silente” nel Palazzo del Principe a Muro Leccese -, che sta per perdere l’involucro bianco dietro cui si affaccia il viso paterno coperto maldestramente da una maschera che ha inciso una croce, segno dell’ipocrisia della società che è costretta a nascondere le nefandezze della propria esistenza. Al centro del suo antro-alloggio un albero di ulivo stilizzato e ricco di rami in ferro battuto proietta le sue ramificazioni avvolgenti a spirali in tutto il locale traendo linfa da una lampada seminascosta fra le radici, dove su una pietra estratta dalle campagne della zona si evidenzia una lotta fra due esseri attaccati alla terra: un topolino e un serpente. Tanti altri oggetti definiscono l’arte eclettica di questo novello compositore che utilizza il materiale ferroso piegandolo a monili tratti da cucchiai, forchette e cucchiaini, a pendagli di lampade, anelli, bracciali e orecchini. La sua parentesi nel nord Italia è durata otto anni, ma era già chiaro dagli auspici che un artista che affonda le sue creazioni nella materia che la terra gli fornisce non poteva che tornare nella sua zona d’origine per sottoporre i materiali naturali alla sua arte, forgiandoli e piegandoli in oggetti di trascendenza spirituale assoluta.