di Alessio Palumbo
Sostiene Erberto Petoia: “il fenomeno della fascinazione, del malocchio, prima di essere trattato come fenomeno psicologico, e in alcuni casi psicopatologico, va analizzato dal punto di vista antropologico, come una delle numerose credenze e superstizioni cui è involontariamente sottomesso il genere umano”[1].
Al di là delle priorità nella trattazione, quanto sostenuto da Petoia testimonia, implicitamente, la poliedricità e complessità dell’argomento. Proprio per questo la relativa letteratura è vasta e composita e, sempre per la suddetta complessità, è particolarmente difficile operare qualsiasi tentativo di sintesi esaustiva in poche righe. Ci limiteremo pertanto, nel corso di questo articolo, a esporre un caso reale, cui abbiamo assistito personalmente, più e più volte, nel corso degli anni ‘90, raffrontandolo con le teorizzazioni e le osservazioni di altri autori.
Il tema della fascinazione, della malia praticata per il tramite degli occhi, è estremamente diffuso nelle culture tradizionali e ha avuto, nei popoli e nei secoli, interpretazioni, pratiche e cure estremamente diverse. Allo stesso Petoia dobbiamo il tentativo di una carrellata, nel tempo e tra le culture, sul tema. Volendo tuttavia “trovare nella storia dell’umanità, come sostiene il De Martino, una prima presa di coscienza culturale del fatto che la fascinazione non ha nulla a che fare con forze magiche in senso stretto, ma con fatti che appartengono alla sfera naturale profana, bisogna risalire al pensiero greco”[2]. Precisamente al pensiero sensista ed al materialismo democriteo. Il riferimento a De Martino può essere un ottimo stimolo per raffrontare il nostro caso reale, osservato in un comune del Salento e precisamente ad Aradeo, con quanto studiato e teorizzato dal noto autore de La terra del rimorso.
Fino a non molti anni fa, ad Aradeo era possibile curarsi dalla fascinazione o meglio dallo spascianu[3]. Tale guarigione era operata da donne del posto, che non avevano nulla di magico, ma erano semplicemente le depositarie di un sapere tramandato, fatto di pratiche mediche, paramediche e fitoterapiche che potremmo generalmente ascrivere alla cosiddetta “medicina popolare”[4]. Queste stesse donne erano quindi deputate alla cura di varie disfunzioni e patologie, come ad esempio quelle articolari, per le quali praticavano stuppate e cuppini. Il sapere delle guaritrici aradeine era (ed è) un sapere antico, ampio, sfaccettato, che non di rado superava il confine della medicina per sfociare nella superstizione. Un sapere che tuttavia, è bene ribadirlo, non richiedeva alcuna particolare dote o predisposizione magica.
Nel caso aradeino, dunque, siamo di fronte ad una concezione “greca” della fascinazione. Essa è intesa come una sorta di fenomeno naturale, una malattia come le altre che è possibile curare con una terapia ad hoc. Ma cos’è quindi lu spascianu? Quali sono i suoi sintomi? Quali le cure? La trattazione fatta della fascinazione da De Martino in Sud e Magia ci aiuterà a definirlo, anche se spesso in contrapposizione.
Sosteneva l’antropologo napoletano, “il tema fondamentale della bassa magia cerimoniale lucana è la fascinazione (in dialetto: fascenatura o affascino). Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento, di inibizione, e al tempo stesso un senso di deviazione, un esser agito da una forza altrettanto potente quanto occulta”[5]
Nulla di tutto ciò nel caso aradeino. Sebbene il fattore scatenante dello spascianu sia quello classico della fascinazione, ossia gli sguardi invidiosi, gli eccessivi complimenti e piaggerie, non si parla di alcuna forza occulta, né si riscontrano fenomeni di deviazione ed inibizione. Le cause e le conseguenze dello spascianu sono esclusivamente fisiche. Mal di testa, spossatezza e nausea ne sono i sintomi[6] tipici.
Riscontrati questi ultimi, lo spascianatu, o il sospetto tale, si presentava da una delle donne del paese in grado di curarlo. Nel caso da noi osservato la donna metteva a sedere lo spascianatu e, dopo avergli imposto la mano sulla testa e aver fatto il segno della croce con il pollice, iniziava a recitare mentalmente le formule di rito[7]. L’espressione usata per indicare la terapia era passare lu spascianu o passare lu principiu. Ecco la formula recitata dalla guaritrice aradeina e a lei insegnata da una vicina di casa da giovane:
Sant’Antoniu tenìa nu gigliu
Vene la mamma e vene lu fiju
De do occhi spascianatu
De quattru angeli ‘ccumpagnatu
Su nu monticellu hia tre pignatelle
Una rutta, una sana e una scasciata
Ne pòzzane ssire l’occhi a ci l’ha spascianata.
Santu Cosimu e Damianu
‘Cchiara Cristu pe la via
De ddhru sta vieni Cosimu mia?
Sta vegnu de nu malatu
Ci gghe forte spascianatu
Ne passu lu principiu alla capu
Lu malatu ne llenta la capu[8]
Sant’Antonio aveva un giglio
Viene la mamma e viene il figlio
Da due occhi spascianatu
Da quattro angeli accompagnato
Sopra ad un monticello c’erano tre piccole pignatte
Una rotta, una sana e una scassata
Possano venir fuori gli occhi a chi l’ha spascianata.
San Cosimo e Damiano
Incontrarono Cristo per la via
Da dove vieni Cosimo mio?
Sto venendo da un malato
Che è molto spascianatu
Gli passo il principiu in testa
Al malato non fa male più la testa
Come sostenuto da Petoia è palese la commistione di sacro e profano in queste credenze. “Gli aspetti religiosi che compaiono nei rituali e negli scongiuri contro il malocchio non sono quelli appartenenti alla religione tradizionale cattolica, a quella dottrinaria, ma a quella parte dei pluralismi cattolici”[9]. La formula recitata dalla donna, con i richiami a Cristo ed ai santi guaritori Cosimo e Damiano, lo dimostra chiaramente.
Già durante la pratica il diretto interessato e gli astanti potevano capire, dagli atteggiamenti della guaritrice, se si trattasse o meno di fascinazione. Ciascuna donna aveva infatti un proprio modo di “somatizzare” il malessere della persona curata con sbadigli, conati, lacrime o eruttazioni[10].
Non sempre l’intervento della donna si rivelava sufficiente ed era essa stessa ad ammetterlo, indirizzando lo spascianatu verso altre donne capaci di curarlo, quantificando il numero di mani di spascianu necessarie per la guarigione definitiva. Il tutto prima del sabato, in quanto, se lo spascianu fosse sabbaticiatu, avrebbe potuto causare anche febbre alta.
Nel congedare lo spascianatu la guaritrice raccomandava tutti i rimedi esperibili per difendersi da future fascinazioni, come ad esempio indossare un ciondolo di “fede, speranza e carità” (croce, ancora e cuore) o mettendo la “mano a fica” (pollice tra indice e medio) nel caso di eccessivi complimenti o sospette invidie.
[1] E.Petoia, Il malocchio: note storico-antropologiche, in A. De Spirito e I. Bellotta (a cura di) Antropologia e storia delle religioni: saggi in onore di Alfonso M. di Nola, Roma, Newton Compton, 2000, p.260
[2] Ivi, p.261
[3] Nel termine, pressoché unico nel Salento, è chiaro il riferimento al fascino.
[4] Siamo dunque estremamente lontani dalle fattucchiere galatinesi descritte da Alessandro Tommaso Arcudi alla fine del ‘600 e capaci di guarire persino col proprio sputo (A.T.Arcudi, Anatomia degl’ipocriti, Venezia, G.Alberizzi, 1699)
[5] E. De Martino, Sud e Magia, Milano, Feltrinelli, 2004, p.15
[6] Per altro lo stesso De Martino riporta sintomi simili parlando di “cefalgia, sonnolenza, spossatezza, rilassamento” (Ibidem)
[7]“ La rimediante comincia col tracciare col pollice un piccolo segno di croce sulla fronte del paziente” (Ivi, p.16)
[8] Le due strofe devono essere ripetute in coppia per tre volte, ogni volta cominciando con un segno della croce
[9] E.Petoia, cit., p.271
[10] De Martino parla di un’immedesimazione della fattucchiera nello stato di fascinazione che comporta il prodursi dello stato oniroide che porta a sbadigliare, o la condivisione del patire, che spinge a lacrimare
Chi di noi non ha sentito qualcuno lamentarsi di un malocchio lanciato dagli invidiosi? Il termine fascinazione ha in sè del misterioso che attrae, il termine fragilità umana, invece, distoglie la nostra attenzione in quanto facenti parte del mucchio. Alessio Palumbo, che mai smentisce la sua capacità di trattazione intelligente, fa un’interessante carrellata su origini, evoluzioni e commistioni di un fenomeno, quello della malevolenza dell’invidia trasformata in una sorta di religione, per l’appunto ‘l’affascino’, che ha radici antichissime e frutti sempre maturi.
Si sa che dove c’è il male, in questo caso più che altro psicosomatico, si trova la cura e quale creatura più sensibile di una donna come officiante dei rituali di guarigione? Ecco quindi la nascita di una nuova categoria sociale, le guaritrici, capostipiti della medicina alternativa, della veggenza e, spesso, degne rappresentanti della truffa. Comunque stessero le cose nel passato più recente, queste donne che Alessio nel Salento colloca in massima fama nel paesino di Aradeo, erano una categoria piuttosto solidale con i propri membri, avevano loro regole, forse un’etica comune, di certo una discreta conoscenza delle proprietà curative delle erbe. Ed ecco approntata l’illusoria soluzione di ogni guaio, atavico bisogno umano di dare la colpa ad altri della propria inettitudine o dei colpi bassi della sorte, concentrando ogni bisogno di esaudimento su un gruppo di eletti improvvisati. Siamo uomini, in fondo, e cerchiamo in ogni istante di capire verità che non ci sono concesse.
Ed è proprio in questa continua tensione verso la conoscenza che nascono le scienze, le arti e le credenze popolari, quelle che ci fanno incuriosire e interrogare. Meno male che ci sono persone come Alessio che ci risollevano con qualche illuminante risposta!