Salento fine Ottocento
La Quaremma
(seconda parte)
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Al primo tocco della campana di mezzogiorno uomini, donne e bambini erano lesti a confluire al centro della strada, vicolo o corte dove abitavano, ordinatamente sistemandosi a largo cerchio, come a tracciare un perimetro sacrale. L’officiante della cerimonia, scelto nella persona del residente più anziano, era l’ultimo ad arrivare, scenograficamente sbucando dal punto più lontano e avanzando lentamente, quasi volesse, nel suo passo stanco, materializzare il senso della mortificazione. Al suo apparire le donne nascondevano le mani sotto il grembiule in segno di compunzione, mentre gli uomini, scopertosi il capo e deposte a terra le coppole, gli si facevano incontro per scortarlo onorevolmente fino al centro del cerchio, da dove, appena giunto, invitava i presenti a segnarsi di croce e ringraziare il Padreterno pi llu tiémpu utu a ssardàre li cunti e scansare lu fuécu (per il tempo avuto a saldare il debito facendo penitenza ed evitare così l’inferno). A un suo triplice schioccare di dita, poi, i ragazzi prescelti a fare la spinnàta (la spennata), e che fino a quel momento erano rimasti in attesa ognuno sulla soglia della propria casa, partivano a razzo, sveltamente arrampicandosi sobbra lli scale lliatìzze (su delle lunghe scale a pioli) precedentemente disposte in corrispondenza di ogni quarémma. Dopo aver raggiunto il culmine dei comignoli e aver sostato un attimo pi ddare tiémpu a llu celu cu lli éscia (per far sì che il cielo avesse il tempo di notarli), sfilavano una delle penne confitte nell’arancia, contemporaneamente staccandone il filo di lana che lasciavano penzoloni nel vuoto. Dal basso intanto li raggiungeva un coro di voci, capeggiate da quella tremula del vecchio:
Passàu nn’àura simàna e cchiù bbicina ddirlàmpa la croce: Cristu, pirdòna a lli piccati nuésci! Ti lu circàmu cu lla facce an terra: Cristu, pirdòna a lli piccati nuésci!
“E’ passata un’altra settimana e più vicina lampeggia la croce: Cristo, perdona i nostri peccati! Te lo chiediamo con la faccia a terra: Cristo, perdona i nostri peccati!”.
A guardarla dall’alto, quella manciata di penitenti che si battevano il petto con i pugni doveva essere più che pittoresca, ma i ragazzi non avevano tempo alla riflessione: dovevano affrontare la discesa, e madri e nonne erano state chiare nel metterli sull’avviso:
Pinsàti a lla penna… mi raccumànnu… cu nno bbi scappa ti manu… ricurdàtibbe ca sempre s’à ddittu: centu spintùre pi nna penna persa e mmuzzicàte ti la mala sorte pi nna ruculàta ti maràngia!
“Pensate alla penna… mi raccomando… che non vi sfugga di mano… ricordatevi che si è sempre detto: cento (molte) sventure a causa di una penna persa e morsicature della cattiva sorte per la rotolata di una maràngia!”.
Questo associare nei segni nefasti della discesa tanto la perdita della penna quanto la ruzzolata dell’arancia, autorizza a credere che, originariamente, alla mano della quarémma ne venivano appese sette di marànge , ognuna con la sua brava penna infilzata; uso probabilmente soppresso a causa della difficoltà incontrata nel far reggere i sette pesanti frutti, non dimenticando al proposito che i fantocci rimanevano per ben quaranta giorni esposti alle intemperie, per cui bastava un più gagliardo proporsi di vento a mutilarne le orpellature. A ulteriore avallo dell’ipotesi sta il fatto che i ragazzi, appena toccata terra, ricevevano, ognuno dalla propria madre, una maràngia da consegnare insieme alla penna al vecchio, ai cui piedi c’era un paniere nel quale depositare i frutti. Un’operazione alla quale non si dava importanza, concentrando l’attenzione unicamente sulle penne, rette con solennità quasi fossero trofei e che il vecchio, dopo averle accuratamente sistemate a ventaglio, deponeva sobbra’a nnu quatiéddhru o nna liccìsa (su una pietra – tufacea o leccese – squadrata) precedentemente sistemata al centro del cerchio dal più autorevole dei capifamiglia presenti, affinché servisse come improvvisato piano di ara.
Ormai si era nell’ultima fase del rito espiatorio, ma prima di procedere alla bruciatura delle penne, valevole appunto come simbolica cancellazione delle colpe, si chiedeva al cielo un segno di accettazione, implorando coralmente: “Nfàcciate Ddiu, e ll’uégghiu pi bbrusciàre mànnalu cu nna manu ca sta ffiùra” (“Testimonia la tua presenza, o Dio, facendo sì che a portarci l’olio per bruciare sia la mano di una creatura in fioritura”). Detto questo, i presenti rompevano il cerchio, disponendosi in due file compatte, e dal fondo, con l’aria liliale di una comunicanda, si faceva avanti una donna visibilmente gravida: “Simente minàu ratìci, e ssontu terra ca ngrossa la spica” (“Il seme ha messo radici, e sono terra che ingrossa la spiga”), attestava ponendosi alla sinistra dell’officiante, subito aggiungendo con maggiorata enfasi: “Ndegna jò, ma l’ànima nnucénte ca bbi nnucu pote tare uégghiu a lli piéti ti Ddiu” (“Io sono indegna, ma la creatura innocente che vi porto può permettersi di offrire l’olio da bruciare ai piedi di Dio”). Cavata dalla tasca del grembiule una bottiglietta di olio, la svuotava sulle penne, tracciando segni di croce e intonando un “Credo” al quale tutti facevano coro, pronti a ricomporre il cerchio non appena il vecchio, accostando un tizzone acceso,dava fuoco alle penne.
Non rimaneva che sbucciare le marànge: un compito svolto dalle donne, anche se era pur sempre l’officiante a distribuirne gli spicchi, a uno a uno, religiosamente come fossero ostie, e non senza aver prima raccomandato: “Ci bbi rrappa la lengua, pinsàti a llu fele ti Cristu!” (“Se vi si inasprisce la lingua, pensate al fiele che ha dovuto bere Cristo!”).
Allo sgradevole odore dell’olio bruciato, per un attimo si sovrapponeva quello amarognolo emanato dalle bucce delle arance, subito fatte oggetto di spartizione – qualche volta di contesa – da parte delle donne: se le dovevano portare a casa, e come teste dell’avvenuto rituale e come esca profumata da usare nel mezzogiorno del giovedì santo, quando, ormai finita la quarantena, le quarémme venivano rimosse dalle loro postazioni aeree e, in un crescendo di selvaggia euforia, buttare abbasso per essere bruciate in un unico falò, sul quale si lanciavano appunto le bucce di maràngia unitamente a manciate di sale.
Anche se c’era ancora da scontare il “pane e acqua” del venerdì santo e piangere il Cristo morto correndo di chiesa in chiesa dietro la statua dell’Addolorata al lugubre suono ti la fròttula (del crotalo), già si respirava aria pasquale: issati al posto delle quarémme folti rami d’ulivo benedetto tenuti appositamente in serbo fin dalla domenica delle Palme, e nell’euforica attesa di potere ammirare a sera li santi sipùrchi (i sacri sepolcri, cioè le reposizioni del Santissimo Sacramento), i cui caratteristici piatti di ranucìgghiu (germogli di grano) trasformavano gli altari in altrettanto campi primaverili, tutti rientravano nelle loro case, pronti a prendere d’assalto la mminisciàta ti pizzariéddhri ndurcinàti (scodellata di maccheroncini addolciti), tanto più calamitanti in quanto alla loro insolita proposizione infrasettimanale assommavano un’altrettanto insolita manipolazione gastronomica.
* La gallina nera, essendo usata dalle fattucchiere nell’orditura dei loro malefici, veniva guardata dal popolo con sospetto: sentirla cantare da gallo (verso emesso spontaneamente di tanto in tanto) era annuncio di morte. Anche le sue penne rientravano nell’alone della negatività: trovarsele sul proprio cammino o, peggio ancora, sulla soglia di casa, era simbolo dell’avventarsi di una disgrazia, per cui, a neutralizzazione, occorreva raccoglierle e bruciarle in un determinato modo.
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994 (pagg. 252-258)
La prima parte si trova qui: