Pensieri in libertà, fra scenari e angoli magici della Puglia salentina

Ostuni

di Rocco Boccadamo

 

Da parte dei più – ma, forse, sarebbe giusto dire da parte dei più superficiali – si sostiene che l’attuale vivere sia oramai costellato, intessuto fittamente di ragnatele di problemi, di difficoltà grandi e piccole a ogni piè sospinto, di incertezze, dubbi, interrogativi, aspettative disattese, speranze e illusioni alquanto fatue, maree di invidia e di disprezzo che montano a dismisura dagli uni verso gli altri. E, di questo passo e su siffatto genere, chi più ne ha, più ne metta. Non è che, in mezzo a noi, allignino formule di beatitudine a buon mercato o che si respiri un clima da Paradiso terrestre, ad ogni modo una visione del tutto catastrofica e disarmante sembra, sinceramente, esagerata. Verosimilmente, in seno alla presente società, specie nell’ambito dei paesi cosiddetti sviluppati, durante gli ultimi decenni, si è finito con l’abbandonare, non solo globalmente, ma anche e maggiormente a livello individuale, due importanti percorsi, all’apparenza ideali, in realtà molto concreti. Cioè a dire, il dialogo e il confronto con la propria coscienza, il dialogo e il confronto con la natura, le sue meraviglie e i suoi insegnamenti, il rapporto e la consuetudine con le cose belle, o meglio con gli angoli belli, che, per fortuna, ancora oggi ci circondano e ci troviamo accanto.

Passiamo dalle parole, ai fatti, con spazio a un filare di piccoli pensieri.

Lungo il corso principale, proprio nel cuore del centro storico di una nota cittadina collinare del nord Salento, si stende un bel tratto di muro, avente funzione di vero e proprio parapetto nel lato dell’arteria che guarda la sottostante, ampia vallata, degradante, a guisa di fantastico tappeto, verso la maestosa distesa dell’Adriatico. Orbene, chi scrive, sostando un attimo con le braccia protese e le mani appoggiate su questo muretto, ha avuto la sensazione di vivere un autentico privilegio, avvertendo tanto intenso e nuovo l’incanto della visione che, in un brevissimo lasso di tempo, si è aperta ai suoi occhi, inebriandoli d’un godimento senza eguali e, insieme, ispirando fantasie, immagini, figure risultanti desuete nel panorama della presente quotidianità, e però, sotto sotto, affatto originali (si tratta, semplicemente, di rispolverarle dalle «scanzie» dei ricordi lontani, là dove sono state un giorno imprudentemente e colpevolmente riposte, dietro l’effetto del nuovo e del moderno, via via dilaganti). Gli è bastato cogliere e mettere a fuoco il verde incerto delle chiome rigogliose di secolari e giovani ulivi imperanti nell’anzidetta vallata, un colore dai riflessi cangianti secondo il fruscio dei venti o la luce del sole.

Distinguere, qua e là, il rosso brillio di piccole radure di papaveri.Discernere i fumi discreti e bianchi, ascendenti da comignoli, antichi e nuovi, che resistono ai tempi e alle mode e continuano ad accompagnare i ritmi e le scansioni naturali di lavoratori e di intere famiglie, la cui vita è incentrata nelle campagne.Distinguere, ammirato, orti fiorenti e rigogliosi, con la prospettiva di ricchi frutti e raccolti maturi.

Scorgere qualche vecchia masseria abbandonata, eppure tuttora contenente tracce di generazioni e di vicende passate, snodatesi all’interno delle mura e nei grandi cortili assolati.Ammirare qualche altra masseria resa nuova e lustra d’eleganza, cioè assurta a magione super confortevole, per distensione o vacanza o riposo, di gente del Nord: si consideri, persone di lassù venute a stare, per semplice precisa scelta, nel nostro profondo Sud, quando è ancora viva la memoria delle grandi correnti di emigrazione da qui verso le ricche terre settentrionali. Una sorta di rivincita tardiva? E’, infine, giunto ad arricchirsi, nell’assimilare, con un respiro grande e un abbraccio a tutto orizzonte, lo sfondo accattivante e ispiratore del mare, da quel punto d’osservazione, invero, così relativamente lontano, come intensamente prossimo, quasi per un contatto fisico, un’immersione tonificante e rigenerante. La fuga del muretto indicato all’inizio s’interrompe con un magnifico edificio abitativo – mi piace definirlo in tal modo, piuttosto che palazzo signorile – di consistente mole e nello stesso tempo snello, elegante e composto, sobrio e solido nell’impianto e nel disegno, chiaramente dei tempi di ieri.

Discreta e calda la tinteggiatura del fronte e delle facciate laterali e, poi, l’intera parte posteriore a modo di grande palcoscenico proteso sull’estensione pianeggiante prima descritta, come trampolino verso la malia delle onde in lontananza. Il davanti della casa inanella una serie d’ampi e slanciati balconi al piano nobile, incorniciati, nei tre quarti del loro perimetro interno, da solidi infissi di buon legno, alle spalle dei quali fanno capolino grandi tendaggi di stoffe consistenti e bianchissime, di sicuro non usciti da catene di montaggio, bensì opera di mani pazienti ed esperte. Un esempio delle case padronali di una volta, quelle che mai racchiudevano inutili ostentazioni, recando, invece, soltanto segni di sobrio benessere, frutto di lavoro e d’impegno profusi magari nell’arco di generazioni, quelle (ovviamente senza voler fare alcun accostamento o confusione con le famiglie a cui è dato di abitarle attualmente) dove le spose, al pari di tutte le spose, con amore e generosità ammantati da intramontabile pudicizia, erano solite dischiudere i loro grembi, per dare alla luce nuove creature, semplicemente e direttamente nel «letto grande».In proposito, si riaffaccia calzante la saggia osservazione di un apprezzato giornalista/scrittore nativo d’Amalfi: «Com’era bello quando si nasceva nel letto grande!».

Non c’è che dire, il modesto osservatore di strada che scrive, emergendo dalla breve parentesi passata a ridosso del muretto in collina, si è sentito pervaso da una ventata di naturale gioia, più sereno.

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