di Boghos Levon Zekiyan
Università di Venezia «Ca Foscari»
Le prime vestigia sicure di un’attendibile presenza di armeni nell’Italia medievale si riscontrano nell’Esarcato bizantino di Ravenna. Alcuni degli esarchi erano di origine armena, come il famoso patrizio Narsete (Nerses) l’Eunuco (541-568) e Isaccio (Sahak) (625-644). Di quest’ultimo si trova nella chiesa di San Vitale a Ravenna uno splendido monumento con sculture ed epigrafi che lo proclamano «gloria dell’Armenia». In un mosaico della stessa chiesa è forse lo stesso Narsete che si vede al fianco dell’imperatore Giustiniano. Inoltre si trovava a Ravenna, per la difesa della città, una milizia composta per la maggior parte di armeni, detta perciò «armena» o numerus Armeniorum. Per la stessa ragione anche il quartiere dove dimoravano i militari, la Classis, nella zona litorale della città, fu pure chiamato “Armenia”.
Questo nucleo di Ravenna può essere considerato giustamente come la prima colonia armena dell’Italia medievale. È da rilevare però che quegli armeni erano nel medesimo tempo cittadini bizantini, erano cioè bizantinoarmeni. Nello stesso periodo, oltre a quelli summenzionati, vengono ricordati pure altri nomi di capi armeni in Italia, sotto il comando dei quali combatterono anche numerose soldatesche armene.
Contemporaneamente a questi nuclei di militari e funzionari, non mancarono anche gli uomini di commercio che si sparsero lungo le coste settentrionali dell’Africa, per la Sicilia, fino in fondo all’Adriatico e a Ravenna.
Secondo una tradizione, due reliquie di San Gregorio l’Illuminatore sono custodite in Italia: a Nardò le ossa di un braccio e a Napoli il cranio, trasferito qui da Nardò ai tempi di Ferdinando II d’Aragona, nel XV secolo. La tradizione locale, riportata anche da Baronio, afferma che le reliquie del Santo furono trasferite in Italia da monache e fedeli armeni, fuggiti dall’Oriente. Secondo Baronio, ciò dovrebbe essere accaduto ai tempi di Costantino Copronimo (741-775), imperatore iconoclasta. Quale che sia l’autenticità di questa tradizione, è sommamente probabile l’esistenza a Napoli di una non trascurabile colonia armena, poiché in un calendario lapidare di quella città risalente alla prima metà del IX secolo, trovato nel 1742 durante i lavori di restauro della chiesa di San Giovanni Maggiore, sono indicate le feste di San Gregorio l’Illuminatore e di due vergini martiri armene, Hrip’sime e Gayiane. Inoltre, quando l’imperatore Costanzo II venne ucciso a Siracusa, nel 668, il reparto militare che vi si trovava proclamò un antiimperatore nella persona di Misisio (Mjej), di origine armena; anche questo fatto suggerisce che tra i militari doveva avere un peso determinante l’elemento armeno. Difatti fin dal VI secolo i militari armeni reclutati nell’esercito bizantino arrivavano numerosi, non solo nell’Italia settentrionale, ma anche nel Sud. Fu celebre tra i governatori di Sicilia Alessio Mussele (Mushegh), della casata Mamikonian, venuto in Italia nell’832.
In Sicilia viene ricordato anche un castello degli armeni, Qal’at’ al ’Armanîn (la rocca degli armeni), che venne espugnato nell’861.
Verso la fine del IX secolo e nel X, con il riaffermarsi della potenza bizantina in Italia, vediamo di nuovo con frequenza, sulla scena della vita politica della Penisola, battaglioni e capi armeni. Già nei primi decenni del IX secolo, si trova in Italia Arsace (Arshak), ambasciatore di Niceforo I alla corte di Carlo Magno, il quale arrivò a Venezia per giudicare il doge Obelerio.
Gli armeni combattevano in Italia, ai tempi di Basilio I, sotto il comando di Niceforo Foca il Vecchio, nonno dell’imperatore dallo stesso nome. Anzi, Niceforo il Vecchio impiantò una moltitudine di armeni in Calabria, forse pauliciani, come suggerisce H. Grégoire. Numerosi erano gli armeni in Italia anche sotto il comando del patrizio Cosma, nel 934.
Fu un capo armeno, Symbathicius (Smbatik), protospatario di Leone VI il Saggio, che nell’891 riguadagnò a Bisanzio, anche se per breve tempo, il Ducato di Benevento.
I suoi successori, i patrizi Giorgio e Barsaces o Varsak, sono forse anch’essi di origine armena, come sembra indicare il nome Varsak. In un documento dell’892, rilasciato a Benevento, in cui s’intitola «imperialis protospatharius et stratjgo Macedoniae, Tracie, Cephalonie atque Longibardie», Symbathicius conferma i possedimenti del monastero di Montecassino e li garantisce contro le intrusioni dei rappresentanti armeni, greci e lombardi dell’amministrazione.
Non lontano da Benevento, a Gaeta, troviamo menzionata, nel 906, la casata di un certo Artavazd. In pieno X secolo, il protospatario e stratega del tema di Lombardia è pure un armeno, Paschalios, della famiglia dei Krenites, il quale, nel 943, per ordine di Romano Lecapeno, chiese la mano della figlia di Hugues de Provence per il figlio di Costantino Porfirogenito. Nel 982 un certo Sympathikios firmò un documento, in Calabria, come «Stratega di Macedonia, Tracia e Lombardia». La molteplicità dei titoli indica ancora una personalità di primo piano, come nel caso del conquistatore di Benevento.
All’inizio dell’XI secolo (1008-1010), è un armeno, Giovanni, della famosa casata dei Curcuas (Gurgen), il catepano di Bari. Fu un altro armeno, lo stratega Leone Tornikos (T’ornik, T’ornikian), soprannominato Kontoleon per la sua alta statura, che nel 1011 riconquistò Bari a Bisanzio, insieme al catepano Vasil Argyros, detto il Mesardonites. Verso il 1041, Messina è l’unica, tra le numerose città siciliane riprese nel 1040 dal comandante Giorgio Maniakes, che sfugge alla riconquista araba, difesa dal protospatario Katakalon, capo dei reparti armeni.
Il fatto che nel surriferito documento del protospatario di Benevento, Synibathicius, gli armeni sono menzionati espressamente e per primi, anche se dovuto forse in parte ai sentimenti nazionali del firmatario, sembra essere un indizio di una non trascurabile presenza di armeni nell’amministrazione beneventana. Vi sono inoltre notizie di numerose famiglie armene e di matrimoni misti a Bari e nei dintorni, particolarmente a Ceglie, sulla via Traiana, già nel X secolo.
A Bari essi avevano pure una chiesa, che ancora nel XIII secolo veniva ricordata come Sanctus Georgius de Armenis; un’altra chiesa, Sanctus Andrea de Harmenis, era ricordata a Taranto.
Gli armeni si erano installati anche nelle parti interne della provincia, come a Matera, dove una chiesa rupestre, forse un centro monastico, portava già nell’XI secolo il titolo di Sancta Maria de Armeniis. Secondo il Guillou, queste notizie tenderebbero «a dimostrare anzitutto che gli armeni potevano essere abbastanza numerosi nell’Italia del Sud, e poi che essi non erano immigrati di recente in questo paese per le necessità del loro commercio».
A questi vari indizi dal nord e dal sud attestanti comunità piú o meno consistenti di armeni, si aggiunge un altro dato molto significativo di un’epoca anteriore. Infatti, negli atti del Concilio lateranense, del 646, viene menzionato a Roma un monastero armeno detto «Renati» e intitolato alla Vergine e a Sant’Andrea. L’abate di questo monastero, Talassio, partecipò al Concilio insieme ad altri abati orientali dell’Urbe, quali rappresentanti della Chiesa orientale. Il monastero era chiamato anche Sanctorum Andreae et Luciae.
Non siamo in possesso di notizie chiare sul sito, pare però che sorgesse sull’Esquilino, non lontano dai famosi trofei di Mario. È questa la prima testimonianza di una tradizione ricca di monachesimo armeno in Italia, la quale continuerà anche nei secoli successivi, arrivando fino ai giorni nostri con l’ordine dei monaci mechitaristi di Venezia e la congregazione delle suore armene dell’Immacolata Concezione con sede a Roma.
Negli anni anteriori al Mille, un’altra presenza di religiosi armeni è attestata a Firenze. Il Richa, parlando di monaci basiliani che da tempi remoti vi si erano stabiliti, dice: «E premettere ancora si dee, che nelle vetuste carte troviamo questi monaci appellati generalmente i Frati Greci, e con frequenza i Frati Ermini, comecché venuti dall’Armenia».
Difatti con l’appellativo greco si era soliti indicare nel Medioevo gli orientali in genere. Il Richa prosegue cosí: «Or facendomi dai Conventi loro, che parecchi ne accenna la suddetta Cronica [di Fra’ Giuliano della Cavallina], tra’ quali indubitatamente si debbono annoverare i tre seguenti, la Badia di S. Miniato al Monte, il Bosco a’ Frati [S. Michele in Mugello] e S. Basilio in Firenze, e che prima del mille fossero i Basiliani a S. Miniato, oltre l’autorità del Vasari e del Sig. Manni, chiaramente lo scrisse il Brocchi nella sopraccennata sua opera [Vita de’ Beati e Santi Fiorentini], dicendo a pag. 17 come appresso, supponendosi dai piú savi inventata una tale istoria [cioè che S. Miniato fosse re d’Armenia] da quegli Monaci Brasiliani che abitavano nel monastero».
Un fatto storico che crediamo debba mettersi in rapporto con questo ampio quadro della presenza armena in Italia è la devozione a certi santi armeni. Difatti, anche quando essa è basata su dati leggendari, trova una spiegazione piú connaturale in tale contesto, mentre a sua volta l’esistenza di queste devozioni sembra essere un indizio di una certa presenza armena.
Tra questi santi, una delle figure che sembra godere di maggior autenticità storica è San Davino armeno, venerato a Lucca, dove morí di malattia il 3 giugno 1050; venne sepolto nel cimitero di San Michele in Fora, del quale, in seguito ai miracoli, venne trasferito nella chiesa omonima, in un’urna presso l’altare di San Luca.
Un altro santo, di cui la tradizione fece un armeno, è Simeone, eremita del monastero di Polirone, intitolato a San Benedetto, nel territorio di Mantova, dove dimorò dopo aver visitato Roma, l’Italia, la Britannia (?), Compostela, Tours e altri santuari del Medioevo, e morí il 26 luglio 1016. Nella sua Vita, scritta da un monaco di Polirone di età posteriore, viene menzionato a Roma un vescovo armeno il quale serve da interprete nel processo aperto contro il Santo, che veniva accusato di eresia, ai tempi di Benedetto VII (975-983).
Tralasciando le figure piú o meno leggendarie dei Santi Emiliano di Trevi, Liberio (Liverio, Oliviero) di Ancona, Miniato di Firenze e Arsacio di Milano, ricordiamo ancora alcuni santi dell’Armenia Minore, per la loro relazione con l’Italia, benché non esista alcuna prova che vi siano venuti.
Cosí i Santi martiri Eustrazio e compagni, ai tempi di Diocleziano, le cui reliquie sarebbero state trasferite a Roma sotto il pontificato di Adriano I (772-795). Qui sono stati venerati nella chiesa di Sant’Apollinare in Archipresbyteratu. La loro festa figura nel calendario marmoreo napoletano del IX secolo, già menzionato.
Ricordiamo infine San Biagio, vescovo di Sebaste. Il suo culto era diffusissimo, non solo in Italia, ma in tutto il mondo cristiano, tanto in Oriente quanto in Occidente.
Vicino a questo contesto storico di santi e pellegrini che battono le vie dell’Occidente si colloca la leggenda del trasferimento in Armenia di una reliquia del dito di San Pietro. La narrazione, che si trova in un colophon del 965, si dice tradotta dal greco. Il trasferimento avvenne per mezzo di un principe armeno il quale, venuto a Roma, chiese la reliquia al papa. Essa sarebbe stata deposta nel villaggio di Bzrayri Gom, nella provincia dl Kogovit, a sud del monte Ararat.
Con il XII secolo si aprí un nuovo periodo nelle relazioni armeno-italiane. I fattori decisivi che concorsero a creare la nuova situazione sono il Regno armeno di Cilicia e le Crociate. Grazie a questi nuovi fattori si creò tra gli armeni e l’Occidente in genere un contatto immediato, che non passava piú attraverso il canale dell’Impero e della cultura bizantina. Questa nuova situazione storica contribuí affinché gli armeni, già familiari all’Italia, si spargessero maggiormente e si stabilissero in modo piú radicale in quasi tutti gli importanti centri civici della Penisola costituendo colonie fiorenti.
I contatti di cui si ha menzione nel XII secolo si svolgevano principalmente sul piano ecclesiastico. Difatti in questo periodo venne a trovarsi in una nuova situazione anche la Chiesa armena: essa, per la prima volta nella sua storia, se si eccettua l’antica, benché controversa tradizione del viaggio di San Gregorio Illuminatore a Roma, cominciò a entrare in contatto diretto e immediato con la Chiesa romana.
Mentre si sviluppavano in Cilicia rapporti immediati e frequenti con la cristianità occidentale, era intanto proseguita la tradizione dei pellegrinaggi a Roma e ai diversi santuari occidentali, preludendo agli sviluppi dei secoli successivi.
Inoltre, nel corso del XII secolo, in Italia assistiamo all’affermazione di un fenomeno molto significativo: il moltiplicarsi in modo rapido di chiese appartenenti agli armeni, che spesso sono da essi costruite o ricostruite. Nella seconda metà del secolo, il padre Alishan, dei mechitaristi di Venezia, può contare, in nove città italiane, dieci chiese armene. Ciò significa che la prima metà del secolo è il periodo decisivo in cui si configurarono in Italia le colonie armene dell’epoca posteriore.
Nel giro di due secoli gli insediamenti armeni nella Penisola, storicamente accertati, raddoppiarono. Le notizie in merito mettono in evidenza che l’emigrazione armena in Italia nel XIII e nei XIV secolo era concentrata nelle seguenti regioni: a) nella pianura del Po su entrambe le rive del fiume, a Padova, Parma, Ferrara e Bologna; b) sulle coste dell’Adriatico, a Venezia, Rimini, Ancona, Manfredonia; c) nelle principali città dell’Italia centrale come Firenze, Siena, Perugia, Lucca, Orvieto, Viterbo; d) sulle coste del Tirreno o nelle città vicine come Genova, Pisa, Roma, Napoli. Questi nuclei comunitari dimostrano che la dispersione degli immigranti armeni in Italia ha seguito tre direzioni principali: le coste del Tirreno, dell’Adriatico e il bacino del Po. A queste tre direzioni principali ne va aggiunta una quarta, secondaria, quella dell’Italia centrale che ha interessato in special modo le città della Toscana.
Secondo i dati forniti da padre Alishan, fra il 1240 e il 1350 le città italiane che avevano una chiesa armena erano 22, e in alcune, come Roma, Bologna e Venezia, viene confermato il funzionamento di piú di una chiesa. Molte di esse avevano, accanto al tempio, speciali locande, chiamate anche «ospizi», dove sostavano gli armeni di passaggio nella città. Vi sono altri borghi per i quali, sebbene si sappia dell’esistenza di chiese armene, non si hanno notizie della data della loro fondazione, né del loro numero. È il caso, ad esempio, di Civitavecchia, Forlí, Imola e Pesaro.
Dall’esame di tutta questa documentazione si arriva a concludere che nel XIII e nel XIV secolo le colonie armene in Italia erano floride e prospere. Ritenendo fondamentali certi lasciti e lapidi funerarie, padre Alishan prende in considerazione la possibilità che gli armeni abbiano avuto un proprio vescovo. Questa congettura si basa sul fatto che si parla di un vescovo armeno, chiamato T’omas, a cui si diede il titolo di vescovo d’Italia. Si capisce che tale dignità ecclesiastica poteva ben spettare al primate dei fedeli armeni d’Italia. Il vescovo T’omas morí a Perugia nel 1380. Alle comunità citate si aggiunge nel XVI secolo quella di Livorno.
Il Settecento segna l’epoca del declino di queste colonie armene, a eccezione di quelle di Roma, Venezia, Trieste e Livorno. La comunità di Livorno sopravvisse fino alla Seconda Guerra Mondiale; aveva anche un proprio sacerdote.
A Roma, dal 1883, funziona il Pontificio Collegio armeno, che prosegue una tradizione risalente al XVII secolo.
Dal 1922 vi è pure la casa generalizia delle suore armene dell’Immacolata Concezione.
Gli armeni sfuggiti al genocidio del 1915 che arrivarono in Italia si stabilirono in prevalenza intorno a Milano e Bari.
La comunità di quest’ultima città si è quasi completamente dispersa; a Milano vi è attualmente un nucleo armeno di circa settecento persone. È d’obbligo far notare a questo punto che il numero degli armeni in Italia in assoluto non è mai stato considerevole. All’inizio del XVIII secolo, nel periodo piú florido per la colonia di Livorno, vivevano nella città appena centotrenta armeni. Non ci si deve sorprendere in quanto, nella poco numerosa popolazione urbana di quelle epoche e in seno a una società piuttosto chiusa, la presenza di una componente straniera, per esigua che fosse, era un fenomeno che richiamava l’attenzione. D’altra parte, rispetto al numero di coloro che si erano domiciliati stabilmente, era molto maggiore quello dei viaggiatori che, in molte occasioni, sostavano per soggiorni piú o meno prolungati in dette città. Erano inoltre frequenti i matrimoni misti italo-armeni. Nel XVI e nel XVIII secolo Alishan ne ha scoperti piú di duecento negli archivi delle chiese di Venezia.
Il quadro ora delineato delle comunità armene rispecchia nelle sue linee generali il periodo della massima espansione armena in Italia durante il secondo millennio, che raggiunse il suo punto di culmine verso la metà del Trecento. Periodo che fu anche l’epoca della piú grande fioritura nel campo comunitario-etnico-religioso. I numerosissimi ospizi, che sono i segni di un animato traffico di pellegrini e mercanti, gli altrettanti conventi, con la loro notevole attività culturale e letteraria, attestano un’organizzazione comunitaria evoluta e consapevole.
Dal Duecento fino al Settecento tre periodi possono essere distinti approssimativamente nelle relazioni commerciali italo-armene. Questa distinzione viene fatta soprattutto in considerazione dei vari centri di gravità del commercio italo-armeno in Oriente. Il primo periodo è quello del Regno di Cilicia, poiché era la Cilicia a tenere le redini di questo commercio.
Nel secondo periodo i piú attivi rappresentanti del commercio armeno con l’Italia erano gli armeni della comunità di Caffa in Crimea. Essi entrarono in scena già nel XIV secolo e predominarono nei due secoli successivi. Il loro commercio è centrato piuttosto verso Genova. Essi ebbero anche la loro parte nella partecipazione degli armeni al Concilio di Firenze, che coincide con i tempi della massima fioritura del loro commercio.
Nel terzo periodo, cioè nel XVII e nel XVIII secolo e in seguito, si distinguono soprattutto gli armeni della giovane comunità di Nuova Giulfa, fondata dallo Shah Abbas.
Accanto a essi appaiono, nel Settecento, gli armeni dell’India e delle principali città marittime dell’Impero ottomano, quali Costantinopoli e Smirne.
Come avviene spesso nel commercio, gli interessi erano reciproci anche nel caso degli armeni in Italia. Questi affluirono in una terra remota in cerca di fortuna; però anche il Paese che li ospitò si avvantaggiò della loro presenza. Anzi, in questo reciproco rapporto entrarono in gioco anche fattori che superano i termini degli interessi puramente economici: i sentimenti di mutua stima, riconoscenza, come pure interessi di ordine culturale e spirituale. Un esempio significativo di quanto stiamo dicendo lo troviamo nella storia della comunità armena di Venezia.
(Dal volume di Boghos Levon Zekiyan, L’Armenia e gli armeni. Polis lacerata e patria spirituale: la sfida di una sopravvivenza, “Istituto Italiano per gli Studi Filosofici”, Guerini e Associati, Milano, 2000).