Salento fine Ottocento
TTACCAMU LI CUCUME
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
(…) Per non tradire la regola di astinenza che per tutto il periodo penitenziale bandiva dalla mensa, oltre alla carne, ogni varietà di formaggio, nelle domeniche quaresimali li pizzariéddhri (pietanza festiva del mondo contadino) non venivano insaporiti con la tradizionale ricotta ‘scante (ricotta piccante), ma approntati col magro condimento di mollica fritta e carrube grattugiate, lomenti che, per essere abitualmente dati in pasto ai cavalli, esprimevano in pieno lo spessore dell’umiltà penitenziale.
Il giovedì santo però, forse perché anticamente dedicato al reinserimento nella Chiesa dei pubblici penitenti, o per essere commemorativo della cena di Cristo e quindi in tal senso esprimente la gioia del convivio, veniva a porsi come giorno di tregua nell’angoscia espiatoria e perciò, in sede culinaria, vissuto alla festiva.
Valendo da una parte la sospensione dello spirito penitenziale e permanendo dall’altra l’ostracismo ai formaggi fino al mezzogiorno del sabato santo, li pizzariéddhri venivano conditi supplendo alla grattugiata di carrube con un’irrorata di miele fuso con l’aggiunta di semi di finocchio finemente tritati. Un amalgama che conferiva alla rustica pasta – fatta in casa, spesso con farina scura – delicato sapore di marca orientaleggiante, ma il cui uso a livello contadino più che a ragioni di gusto si doveva a dettatura di influenze simbolico-religiose.
Non si può infatti sorvolare su quanto di appalesato contrasto c’era nel passaggio dalle carrube, mangiare ti éstie (cibo da bestie), al miele fuso, sursàta ti Ddiu (bevanda di Dio); un repentino salto di qualità che spinge a pensare come, almeno in fase di partenza, l’uso fosse nato quale adombratura di un principio di riscatto – da esseri peccaminosi ad anime redente – e forse anche, se si vuole essere sottili, da un inconscio desiderio di immedesimazione nel Corpo di Cristo, proprio in quel giorno offerto in cibo sublimante agli uomini.
Sul piano pratico, li pizzariéddhri cu llu mele nella loro dolciastra languidezza non erano certo adatti a soddisfare lo stomaco dei contadini – abituato a una robustezza di sapori pari all’irruenza della campagna – ma, inseriti nel quadro dei vigenti rigorismi, rappresentavano pur sempre un alleviamento dalle lunghe privazioni quaresimali. “Nnusàta la cinniréddhra, lu nasu no ccanòsce cchiùi li case!…” (“Fiutata la sacra cenere, il naso non riconosce più le case!…”), si usava dire, metaforicamente alludendo al fatto che, a partire dal mercoledì delle Ceneri, il paese veniva a spogliarsi di quelli che erano i caratteristici effluvi culinari, avvertibili soprattutto nell’ora che precedeva l’alba, quando dagli usci appena appena socchiusi dilagava per le strade la ndore ti lu scarfàtu, cioè l’odore dell’usuale colazione contadina, consistente in un soffritto di aglio e tocchetti di pane, al quale venivano aggiunti e miscelati a caldo i legumi e le verdure avanzate dal desinare del giorno prima.
Colazione sostanziosa la cui mancanza si avvertiva pesantemente allorché, scattato il periodo quaresimale, si usciva da casa a stomaco vuoto, portandosi dietro solo un tozzo di pane e una cipolla da consumare fra i campi intorno al mezzogiorno; magro spuntino peraltro non consolato dalla prospettiva di una cena compensatrice, essendo quest’ultima basata per tutti i quaranta giorni su pane d’orzo e olive nere. A far rispettare una così dura regola ci pensavano le donne, tanto più inflessibili in quanto sicure che anche il più ribelle dei mariti non poteva giocare d’astuzia rimpinzandosi fuori casa, giacché le bettole rimanevano chiuse per tutto il periodo penitenziale pi nno nfilazzàre piccati facènnu tintazziòne (per non provocare un’infilzata di peccati agendo da forza tentatrice). Scrupolo che coinvolgeva anche il droghiere, il cui esercizio, fungendo da bar – allora inesistente nel paese -, era frequentato da una mattutina clientela ti civìli e quarche artiere (di benestanti e qualche artigiano), usi a farsi servire un caffè d’orzo o di mandorle tostate corretto con un bicchierino d’anice o acquavite. Genere voluttuario che l’esercente si rifiutava di approntare durante la quaresima, dando avviso alla clientela dell’avvenuta sospensione del servizio in modo curioso, cioè appendendo all’architrave d’ingresso del locale le due grosse caffettiere fittamente legate fra di loro.
Un uso che pur se in pratica venuto a morire poco dopo la prima guerra mondiale, non aveva subìto vera e propria cancellatura, tramandato – insieme al nome di quella che forse era stata la più nota droghiera – in metafora di diniego. Quando infatti si voleva respingere una richiesta o significare uno stato di carestia, si usava dire: “Nienti sursu, la Peppaìta à ttaccàtu li cùcume” (“Niente sorso, la Giuseppa Vita ha legato le caffettiere”).
A parte l’estrosa applicazione che se ne faceva in drogheria, l’annodamento, come misura di interdizione, faceva grumo nelle più remote delle figurazioni e, sorvolando sulla sua compromissione con il magico, trovava, in sede di esplicazione devozionale, conclamabile riporto nell’ecclesiastica legatura delle campane che, pur se limitata agli ultimi due giorni di passione, veniva recepita dal popolo come nota espressiva di quello che si voleva fosse lo spirito di mortificazione dell’intero periodo penitenziale.
Di qui la propensione delle donne a dare forma nodale ai pani impastati durante la Quaresima e l’adozione del simbolo da parte dei carrettieri, lesti nel mercoledì delle Ceneri non solo a privare le loro vetture di ogni orpello festoso – quali campanelle, pennacchi e finimenti colorati -, ma anche ad annodare ai cavalli la coda, rigirandola su sé stessa come fosse malloppo di cordicelle. Misura di effettiva costrizione, quasi menomazione, che i signori non permettevano fosse inflitta ai destrieri delle loro carrozze, acconsentendo solo a che i cocchieri eseguissero sette nodi lungo lo scudiscio delle bacchette, nodi che – così come si faceva con le penne della quarémma – venivano gradualmente disfatti a ogni scadere di settimana.
D’altronde, in un contesto sociale così profondamente segnato da discriminazioni classiste, non c’era da meravigliarsi se anche l’assolvimento alle regole espiatorie lo si intendeva in rapporto alla propria condizione, quasi fosse uno svegliarino regolato a scatti. Se li furìsi non frequentavano le bettole e civìli e artiéri rinunciavano al caffè d’orzo servito in drogheria, i signori soprassedevano alle riunioni serali al circolo cittadino e le signore chiudevano i loro salotti, sospendendo l’abituale scambio di visite vespertine, classico incentivo a pettegolezzi e peccatucci di gola e perciò in contrasto con la compunzione del momento; se la cena dei poveri in periodo quaresimale veniva limitata a un pezzetto di pane con poche olive, nel rapporto di graduatoria era pur cena penitenziale quella dei ricchi, basata sulle aringhe salate e il baccalà stufato con l’uva passa; e se le contadine fino al sabato santo si astenevano dall’indossare lo scialle o il grembiule del giorno di festa, di riscontro le nobili, oltre a rifiutare ogni carezza d’alcova, eliminavano dalle loro mense le tovaglie di fiandra, adattandosi a tovagliati tessuti a scacchi sul telaio di casa e adoperando modeste posate di alpacca al posto delle abituali posate d’argento.
Fiandre, argenti e cristalli si mettevano a riposo, ben sistemati su una cassapanca della sala da pranzo, dove rimanevano per tutti i quaranta giorni interamente coperti da un lino bianco sul quale, la domenica delle Palme si appuntava l’ulivo benedetto. Ritornavano alla luce solo il sabato santo, quando, al festoso sciogliersi delle campane, le serve correvano a togliere il lino e a soffiare a lungo su posate e bicchieri, ordinando a gran voce: “Abbànne tiàulu ca Cristu è risortu!”. Un comando che gradatamente echeggiava per tutta la casa, giacché le poverette, private dal piacere di vivere in pieno gli usi pasquali delle loro case popolari, trovavano sfogo solo correndo di camera in camera, spalancando finestre, scrollando tende e battendo sui letti, a ogni gesto sempre più esaltandosi nel poter ripetere a voce alta quella formula che durante la benedizione delle case, al cospetto del sacerdote, erano costrette a ripetere solo mentalmente.
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994 (pagg. 258-261)