La quaresima nelle tradizioni popolari del Salento. La cinnereddha

Salento fine Ottocento 

LA CINNIREDDHRA

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) A mattutino, circa due ore prima dell’alba, col suono a morto delle campane , il mercoledì delle Ceneri apriva i battenti della Quaresima, stabilendo così il passaggio dai peccati della carne alla purificazione dello spirito.

Le prime a raccogliere l’invito erano le donne, leste a balzare dai loro saccùni ti cacchiàme (materassi di paglia d’orzo) che da quel momento, sino al mezzogiorno del sabato santo, non avrebbero più spisulàtu cu lla furcéddhra (spiumacciato con la forcella) affinché un disagevole riposo notturno fosse di complemento alla penitenza diurna incentrata sul digiuno.

Fossero o non fossero di lutto s’ammantavano di nero, e per non turbare il clima di silenzio succeduto ai clamori del carnevale uscivano dalle case in punta di piedi, muovendosi circospette, quasi stessero a rubare: gli usci li chiudevano piano, con esagerata cautela, e nel riporre, come d’abitudine, la grossa chiave sotto la pietra che fungeva da gradino facevano attenzione a non urtare ai limmi (vaschette di coccio) colmi di panni sporchi, messi fuori fin dalla sera affinché la muttùra (rugiada) li rendesse più docili al lavaggio. Camminando lente per non  provocare echi nel vuoto delle strade ancora naufraganti nel buio, affluivano verso la chiesa, interessate a ricevere dal sacerdote il pizzico di cinniréddhra santa (cenere benedetta) che, nella loro religiosità, ritenevano indispensabile passaporto per la gloria dei cieli. Se lo ricordavano l’un l’altra incontrandosi sul sagrato, dove nel tenue alone dei due lampioni – a quell’ora ormai agonizzanti per mancanza di olio – sostavano un attimo poggiandosi reciprocamente le mani sugli omeri: “Cénnire ti Ddiu ti àscia a pizzùlu pi llu paraìsu” (“Cenere di Dio ti sia gradino per l’entrata in  paradiso”), salutavano con voce sommessa; e in quelle parole c’era la consapevolezza di stare ad augurare un bene che, non  soggetto a pertinenze umane, non poteva non avverarsi. Una fiducia senza limiti che trovava rimbalzo nella risposta: “Palòra tua jò la fazzu mia, e tti ògghia Ddiu, òccula e ppuricìni sobbra’a llu scalòne ti Santu Pietru” (“Le tue parole io le faccio mie, e ti voglia Dio, chioccia e pulcini [tu e i tuoi figli], sulla soglia custodita da S. Pietro”). Ne seguiva un incrocio di sguardi, un  filo teso fra anima e anima, attraverso il quale, come la rapida di un fiume, si scaricavano le pene di tutta una vita; un circuito di cose non dette ma avvertite, che un battito di ciglia, deciso come un assenso, interrompeva discreto.

Staccate le mani dagli omeri, si avviavano appaiate, come foglie d’autunno che insieme cresciute e insieme cadute abbiano scoperto d’improvviso, nel vento che le risucchia, un’uguale urgenza di consolazioni; quasi una misura di complicità che sembrava volessero suggellare quando, varcata la soglia della chiesa e raggiunta l’acquasantiera, vi intingevano le dita offrendosi scambievolmente l’acqua benedetta: “Pi ràzzia tua e ppi ràzzia mia, a ssanitàte ti li tua e ddi li mia, a suffràggiu  pi lli muérti tua e ppi lli muérti mia” (“Sia pegno di grazia per te e per me, procuri salute ai tuoi familiari e ai miei, e valga di suffragio ai defunti tuoi e miei”).

Questo reciproco riconoscersi – e quasi autocelebrarsi – nella fattispecie di spiriti tutelari della famiglia, se nel normale avvitarsi dei giorni era pungolo confitto  alla radice dell’istinto femminile, in occasione del mercoledì delle Ceneri sfociava in conclamata missione, ovverosia in vera e propria fase operativa. Chinare la testa davanti al sacerdote e raccogliere sullo scialle il cinereo segno di croce non era per loro individuale atto di adesione penitenziale, quale liturgicamente lo proponeva la Chiesa, bensì accaparramento di un bene a livello di interesse familiare: tant’è che, una volta ricevuto simile tesoro,  per lunga che fosse la messa, si impegnavano a mantenere immobile la testa, affinché la cenere, a causa di un qualche movimento brusco, non avesse a volare disperdendosi.

Partite nei panni dimessi delle postulanti, rientravano nelle case a capo eretto, portatrici di un benestare divino che le poneva appunto nel ruolo di intermediarie, rinfocolandole nel loro istinto di materna protezione: la casa attendeva da loro la trasmissione delle benedizioni, e sebbene non ci fosse assemblea ad assistere alla celebrazione, non per questo rinunciavano a quella gestualità solenne che – germe di atavismo ellenico – caratterizzava le loro manifestazioni: nel togliersi lo scialle agivano al rallentatore, sollevandone gradatamente i lembi e altrettanto lentamente raccogliendone le quattro cocche nei due pugni, che tendevano in alto, oltre il capo, intendendo appunto figurare nella verticalità il contatto stabilito in chiesa con il cielo e, di riflesso, l’ottenuto beneplacito. Avanzando a passi misurati, come volessero idealmente trasformare l’esiguo spazio delle loro case nel lungo percorso esistenziale, si portavano dall’uscio sino alle spalle della matthrabbànca (tavolo-madia), sul cui piano, a colpo secco, ribaltavano  lo scialle, per poi subito, con lo stesso movimento rotatorio che usavano nel setacciare la farina, scuoterlo a lungo affinché la cenere benedetta si propagasse a tutti i membri della famiglia, che proprio attorno a quel tavolo ritrovavano ogni sera la loro comunione fisica e spirituale.

L’ultima scrollata la eseguivano sulla pietra del camino, fin dalla sera prima spazzata accuratamente per liberarla dalla cenere impura del carnevale e prepararla a lla ròscia ti la mea curpa (alla brace del mea culpa), quella cioè che avrebbe cotto le magre pietanze  dei giorni di digiuno e la cui limitata funzione, forse per riferimento all’autocastigo, prefiguravano appendendo am piettu a llu camasciàle,  sotta’a lla ciminìa (all’interno del camino, sul muro di fondo, sotto la canna fumaria) due rami verdi di rovo intrecciati fra di loro. Ad aiutare l’immaginazione del lettore, va precisato che, non essendo ancora giorno, il tutto si svolgeva al fioco lume della lucerna rimasta accesa sobbra  llu minzanìle ti lu fucalìre (sull’architrave a mensola della cappa fumaria) e perciò in un gioco d’ombre già di per sé capace di sommuovere l’emotività dell’operatrice, calandola in quell’atmosfera di cui l’azione si avvaleva come di forza incentivante i reconditi intendimenti magico-religiosi.

Piegato lo scialle e adagiatolo intra’a llu cascione (nel cassone),  le donne, fino a quel momento ovattate nei movimenti e mentalmente risucchiate da incombenze misteriche, ritrovavano di colpo la loro abituale verve di vita,  non frapponendo indugi nel riaprire l’uscio e sciamare al centro della strada, vicolo o corte, dandosi l’un l’altra voce in tono di scambievole premura. La stessa premura che usavano nel segnalarsi il transito di un funerale (Sta ppassa lu muértu! Sta ppassa lu muértu!) o, più euforicamente, l’avvistamento di un corteo nuziale (Sta rria la zzita! Sta  rria la zzita!):  rimbalzi di avvisi che le spingevano a far capannello agli angoli  delle strade in una soddisfazione equivalente a quella odierna di un posto in platea.

Da  ”TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994. (pagg. 249-252).

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2 Commenti a La quaresima nelle tradizioni popolari del Salento. La cinnereddha

  1. Un grazie a chi ci rinfresca la mente con questi preziosi ricordi, di tradizioni da mantenere e di cultura salentina da salvere, esposti con la grazia affascinante di Giulietta!

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