La chiesa matrice di Santa Maria di Pompignano
un bene culturale medievale da salvare ad ogni costo
di Romualdo Rossetti e Oreste Caroppo
Chi si trova a percorrere la strada provinciale 363 che da Maglie conduce a Santa Cesarea Terme, all’altezza dello svincolo per Muro Leccese, posta su di una piccola altura in agro di Sanarica, compare sulla sinistra ciò che rimane della chiesa del villaggio medievale di Pompignano, uno dei tanti borghi satelliti (denominati in epoca bizantina choria) che insieme a quelli di Brongo, di Miggiano, di Miggianello e di Pulisano orbitavano intorno al nucleo urbano più importante denominato in epoca medievale Santa Maria de Muro, che a sua volta sorse sullo stessa area urbana in cui anticamente governò l’importante polis messapica di Mios.
Il luogo di culto mariano è ubicato lungo la vecchia strada comunale che conduceva a Palmariggi, a due chilometri dal centro abitato di Sanarica e ad appena un chilometro da quello di Muro Leccese. Ciò che lascia sgomenti è lo stato di abbandono in cui versa l’antico edificio di culto che, per ampiezza volumetrica e localizzazione fisica, testimonia un illustre passato.
La struttura della chiesa, risalente grosso modo al X secolo d.C., risulta di pianta rettangolare ad una sola navata che si apre con un grande arco ogivale di fattura quattrocentesca, che introduce in un primo spazio su cui compare una volta a crociera. Nel corpo dell’edificio retrostante si nota ancora la stessa foggia degli archi portanti da cui si diramavano le stesse tipologie di volte ormai irrimediabilmente perdute per l’opera degli agenti atmosferici ed il sovrapporsi, nel corso degli anni, di vegetazione spontanea (rovi ed arbusti di caprifico).
I continui crolli, soprattutto quello che ha interessato il lato settentrionale della struttura, ha evidenziato a destra della parete absidale la presenza di una stele di epoca presumibilmente romana o addirittura anteriore, presenza archeologica importantissima e forse unica nel territorio comunale di Sanarica dove ricade oggi il bene architettonico in questione.
Risultano caratteristiche anche due finestre di foggia ellittica, anch’esse quattrocentesche, poste sulla parte destra e sulla porticina rettangolare dell’ingresso laterale sinistro dell’edificio. Fino a poto tempo addietro si potevano osservare anche dei resti d’intonaco affrescato per terra.
La chiesa di Santa Maria di Pompignano (…ecclesia sub titolo Sancte Marie de Pulpignano”) ricadeva molto probabilmente nel novero delle chiese e dei luoghi di culto facenti riferimento al gran cenobio di San Nicola di Casole, come lo fu per molto tempo il monastero dei monaci basiliani di San Zaccaria (ora del Santo Spirito) e l’abbazia di S. Spiridione sita nel feudo di Sanarica.
Non è improbabile che il borgo medievale di Pompignano sia sorto sulla stessa area dove operava un piccolo fortilizio messapico, e successivamente tardo romano, posto a difesa dei traffici su via. Dell’antico villaggio medievale non esiste più traccia.
Insieme a tantissimi luoghi di culto di rito greco come S. Eutimio, S. Salvatore, S. Menna, S. Maria di Costantinopoli, S. Spiridione, S. Giorgio, S. Zaccaria, S. Barbara, S. Pantaleone, S. Andrea, S. Maria di Corignano, presenti a Muro, si ritrovano cenni sulla vitalità di questo luogo di culto nelle “sacre visite” pastorali del 1522 e del 10 gennaio del 1540. Quest’ultima fu effettuata per volere dell’arcivescovo di Otranto Pietro Antonio de Capua, che incaricò il domenicano Antonius de Becharis ed il reverendo Mariano Bonusio a recarsi nella “parochie terrum seu Casalis muri”. Dalla lettura del resoconto della visita pastorale emergeva lo spaccato della vita religiosa della parrocchia sotto esame. Il rito greco persisteva ancora, anche se irrimediabilmente volto al declino, e nel lungo elenco delle chiese presenti un buon numero di queste risultavano ancora consacrate a santi greci come S. Elia, S. Giorgio, S. Sofia e S. Pantaleone. Alla liturgia greca subentrò pian piano quella latina che si professò nelle chiese dedicate a San Sebastiano e a S. Maria dell’Assunzione. Per quel che concerneva il rendiconto dei due religiosi riguardo allo stato degli edifici di culto traspariva che la maggior parte di questi necessitasse già all’epoca di riparazioni strutturali.
Per ciò che concerne Santa Maria di Pompignano si può oggi ipotizzare che la chiesa versasse ancora in discrete condizioni, possedendo un patrimonio fondiario costituito da piccoli appezzamenti di terreno agricolo ed alcuni alberi di ulivo situati sia nelle immediate vicinanze del luogo di culto che in altre zone poco distanti. Si conosce altresì anche la presenza di un cappellano, di nome Palmerius Gramalatius, che doveva essere uno dei presbiteri della chiesa di Pompignano.
Ora dell’antica chiesa, di proprietà privata, resta solo un rudere prossimo a scomparire, violentato dai continui cumuli di materiali di risulta che gente a dir poco incivile continua ad accatastare ai suoi piedi e nelle vicinanze, proprio in quei luoghi in cui leggende contadine narravano di esemplari e fortuiti ritrovamenti ossei come femori ed ulne dalle dimensioni gigantesche ed archeologici come monili e oggetti di vestiario di epoca medievale e moderna.
Dinanzi a tanto oblio svetta alto un imperativo categorico: “Bisogna al più presto e ad ogni costo ricostruire Santa Maria di Pompignano dov’era e com’era”.
Restaurare è atto tanto nobile in sé perché non significa riedificare qualcosa che rischia di non essere più, restaurare è recuperare anche la storia ed il carico simbolico che un bene ha posseduto nel corso della sua esistenza. Oggi grazie alla scienza del restauro che si perfeziona sempre di più, e cum grano salis è possibile porre in essere interventi esteticamente parlando poco invasivi che non alterano la struttura originaria con un “nuovo” sovrapposto al “vetusto”. Basta dunque a quelle trovate stupide, come quelle di certa deviata scuola che non vuole ricostruire com’era, ma indicare con colori e materiali diversi il nuovo restaurato, dal vecchio. Oggi restaurare significa tenere conto della complessità dell’oggetto e del contesto in cui l’oggetto viene a trovarsi. Dunque si proceda non solo alla riedificazione ma anche a far ritornare il paesaggio circostante nelle condizioni originarie ( qualora ciò sia possibile s’intende! ndr). Il bene come parte della scenografia delle nostre esistenze che deve essere quanto più possibile gradevole. In questo caso il restauro della chiesa di Santa Maria di Pompignano deve essere integrale e non conservativo altrimenti si è compartecipi della condanna di quel bene alla sua perenne mutilazione estetica! Supponiamo di avere un affresco (ma vale per tutto), di cui si è consapevoli di com’era in origine perfettamente, in linee e colori. Se oggi nell’ intervento si cerca solo di conservare ciò che è rimasto, diciamo il 50 % senza integrare le parti mancanti, nel futuro restauro, ne sarà rimasto solo il 40%, poi il 30% e così via, finché nel 2300 il restauro vorrà dire presentare al pubblico una parete vuota o quasi, senza più percettibili linee e colori, seppur neo-restaurata con grande dispendio di risorse economiche! Il bene culturale è presenza e informazione insieme, informazione anche comprendente il materiale adoperato, e l’informazione si conserva ritrascrivendola in continuazione, come nei computer e nella replica del DNA negli esseri viventi, e così che si dovrebbe intendere il restauro, come è stato inteso nel passato, ermeneutica dell’arte che non solo ha conservato ma ci ha trasmesso buona parte delle opere che oggi ammiriamo. L’opera, in tal modo, con la sua immutata presenza vivrà nel tempo aionico e continuerà a trasmettere, a comunicare contro il tempo cronico che tutto degrada, persino la pietra. Ed è per questo che il restauro deve essere rispettosissimo del Genius loci dei luoghi e dello spirito delle opere, talvolta dotate di un’ anima stratificatasi nei secoli che giunge fino ai giorni nostri.