Rivisitando Vittorio Bodini
METAMOR
Ultima raccolta di poesie del grande poeta salentino
di Antonio Mangione
Metamor è l’ultimo libro poetico edito, vivente l’autore, da Vanni Scheiwiller, Milano 1967, pp. 45. E’ un titolo sintesi e simbolo di più significati. Si veda la presentazione ch’egli ne faceva alla stampa letterariamente specializzata: “Poesie surrealiste di V. B. – Vittorio Bodini ha consegnato a Vanni Scheiwiller, per uno dei suoi quadratini [della serie il quadrato], un libretto di poesie che vede accentuarsi anche in senso automatico il surrealismo riconoscibile nella sua poesia. E’ un’inchiesta sulla materia e sull’essere, maturata nella Roma dei Monti Parioli dei nights frequentati dalla Cafè-society di Piazza del Popolo e avrà il misterioso titolo di Metamor, a cui l’autore affida ben tre significati: metamorfosi, meta-amore e metà-morto”.
Si tratta di significati coincidenti in un altrove deumanizzato della condizione umana: corpo e mente in disfacimento, linguaggio prosaicamente abbassato, surrealistico a forte presa naturalistica (il surreale parte sempre dalle cose e dalle realtà negate). E con nuovo approfondimento, in una lettera a Oreste Macrì del 10 febbraio 1969: “Io […] considero Metamor e gli inediti un libro traumatico, sostanzialmente e disperatamente teso a denunziare il totale smarrimento del reale o la sua ricerca senza fede. In esso l’elemento ludico non è che un mezzo per tentare di stabilire l’equilibrio sconvolto. O per confortare mestamente il prelinguistico”. L’«elemento ludico» è una forma retorica del paradossale, del «discorsivo» libero e anomalo (cfr. la poesia Innestiamo il discorsivo), evidente dissimulazione di negatività profonda e irrisolvibile.
Metamor contiene 17 poesie con metro libero, tra versi brevi e più frequenti versi lunghi, a volte oltre il rigo della pagina, secondo prassi eversiva della Neoavanguardia. Furono scritte nel quinquennio 1962-1966, ultima epoca particolarmente innovativa della poesia italiana del Novecento. Sparito definitivamente il tema del Sud, primigenio, oltre che culturalmente attraversato, nei precedenti libri poetici (La luna dei Borboni, 1952; Dopo la luna, 1956; La luna dei Borboni e altre poesie, 1962), il poeta è alla ricerca, in Metamor, del proprio essere, dalla sterile e vana evocazione del passato al mortale stillicidio del presente, nel contesto di una estraniante società tecnologica e industrializzata.
Nella prima di esse, che s’intitola Conosco appena le mani, è ripreso il tradizionale tema dell’Ubi sunt? (villoniano soprattutto, della famosa Balade des dames du temps jadis), con un moderno parlarsi da sé a sé, in solitudine ultima e come già senza vita. Oltre se stessi residua un’estrema inconsistenza nominalistica, cui si riducono i “volti amati” (non più persone, ma puri nomi); conclusivamente, il compianto di passioni vissute e fatte vivere, di cui più non si scorge il “senso”.
Nelle spire del boom è una poesia ancorata allo storico boom economico-industriale e urbanistico-sociale del secondo dopoguerra, seguìto da sconvolgimento paesaggistico sostitutivo di una realtà smarrita. Superstiti, “una luce lontana e senza voce” di fronte “a un mare in tempesta, con la quale si misurano i “velieri” solitari e irosi dell’esistenza del poeta, e “una sera ignara”, o dell’inconoscibilità di quella esistenza, come accade di una lettera imbucata.
Innestiamo il discorsivo richiama il discorso corrente, della conversazione allusiva, analogica, anche automatica. Esemplare del caos di una società industrializzata, separata e a se stessa estranea. È descritta “la gazzarra” di giovani scorrazzanti in FIAT-500 ai romani monti Parioli, che irrompono nell’appartamentino del poeta, distruggendo l’armadietto dei medicinali, per sparire poi nella boscaglia di quei monti, di sera, quando si ha paura di sentirsi soli e di morire soli.
Il titolo di Testo a fronte è già l’emblema di una vita cercata e ripensata tal quale fu vissuta, come da originale a traduzione. Donne e animali, alberi, oggetti e cose, momenti felici e occasioni perdute, manie e dissipazioni… entrano nel gioco della ricerca in quanto quotidiane realtà vissute dal poeta nel tempo senza tempo della giovinezza. Ne deriva un testo metamorfico, illudente rifacimento di contenuti primari mai più ripetibili.
Lillemor continua l’assurdo dell’abolizione del tempo (vivere “vent’anni fa”) della poesia precedente, con episodi e figure come se esistessero per la prima volta, e non più si trattasse che di un illusorio escamotage della memoria. Di fulgida bellezza, Lillemor, “disoccupata d’amore”, insultata dalle laide e maldicenti “ciane”.
Nei viali ovali è poesia composta di due strofe antitetiche: una prima, sugli emigranti dal Sud al Nord d’Italia, tra nostalgia dei lontani luoghi nativi e futuro senza speranze; una seconda esprime un bellissimo volto femminile, dai “capelli spavaldi” che intagliano una “lagrima” stellare.
Il miele del dopoguerra declina un puro immaginario surreale. La neve che scende dal cielo come dai piani alti gli ascensori, “candida regina” discesa in tutta la sua bianca purezza (“senz’anello”, al dito), la sera tra i carri degli zingari, sovrastante le chiacchiere delle matercule che lavorano agli arcolai; infine le api che confrontano il loro miele, silenziose come i morti, che s’illudono di usare il telefono, dalle linee sempre occupate, innumerevoli essendo gli utenti morti.
Daccapo? pare un classico epigramma erotico in moderna chiave analogica. Ammirazione e passione del poeta per la nuda bellezza della sua donna, al mare; inondato di sole il suo corpo, dal “pube a filo d’acqua” ai “seni di mercurio”, in una sensuale epifania.
Perdendo quota ripropone, precariamente superstite, il topos dell’«Ubi sunt?» della prima poesia di Metamor; questa volta è il primordiale autobiografismo dell’«insonne adolescente / assetato di sogno e di brutalità».
Nella Canzone semplice dell’esser se stessi figurano esempi della “perdita del reale”, fisico e metafisico. Riguardano l’ontologica dissociazione di nomi e cose, di realtà e conoscenza. Uno scetticismo radicale sta dentro la prosa poetica di questa poesia.
Seguono tre poesie con uno stesso titolo in successione: Night, Night II, Night III; divagatorie invenzioni surreali in un locale notturno romano, dalla bella creola, rinviante a momenti e immagini di vita sudamericana, alla disperata associazione whisky-morte, al maledettismo esasperato, anche macabro, in tema di decadenza fisica e di totale dissoluzione.
Innesto 13 è un desolante quadro della realtà contemporanea italiana degli anni Sessanta: edonismo di massa, scandali, crisi politiche, emigrazioni… I sogni dei cavalli, ricorrenti, come surreale possibilità dell’assurdo. Necessità della conservazione del pianeta Terra e della sua naturale evoluzione.
La tempesta aveva 9 voci è poesia della ricerca del montaliano male di vivere già nelle viziate seduzioni patite dal poeta sin dall’adolescenza. Alle quali è riconducibile la stessa adulta deriva fisica e psicologica, tra alcool e caffè. Anche la bellezza femminile è vista in trasparenza maudite1. Più nessuna bellezza di lei, anzi un corpo scheletrico.
Pseudosonetto s’intitola la penultima poesia, perché a metro libero, senza i tradizionali metri fissi (generalmente endecasillabi). Corrispettivamente, il trend delle invenzioni poetiche è del più raro surrealismo. Si veda l’incredibile fuga del poeta, da un Messico remoto ed esotico ad un altrove dove finire in solitudine, impiccati e accecati.
A chiusura del libro, Tramonto a San Valentino è poesia sintesi intensa di simbolismo nichilistico, divenuto essenza e nitore di canto leopardiano, mai prima raggiunti. Se ne dà una versione totalitaria, assoluta, per via di correlazioni unitarie tra il “proprio deserto” e il morire dell’ingannevole rosso vivo, di fuoco, del tramonto. Poiché non c’è dualismo tra destino umano e destino della natura, entrambi realtà del “nulla”.