di Marcello Gaballo
Ancora un santo armeno nella città di Nardò. Dopo il culto e il protettorato di san Gregorio l’Illuminatore, che si festeggerà il 20 febbraio, i neritini festeggiano oggi il santo medico e vescovo vissuto tra il III e il IV secolo a Sebaste in Armenia (Asia Minore), con la tradizionale benedizione della gola nella chiesa di Santa Teresa da pochi giorni rimessa a nuovo. I sacerdoti infatti per tutta la giornata di oggi benedicono le gole dei fedeli, e dei bambini in particolare, accostando ad esse due candele, recitando: “Per intercessione di San Biagio, Vescovo e Martire, Dio ti liberi dal mal di gola e da ogni altro male. Nel nome del Padre e del Figlio + e dello Spirito Santo. Amen”.
Tra i quattordici santi ausiliatori, patrono degli otorinolaringoiatri, i fedeli si rivolgono al santo, che in vita fu medico, per la cura dei mali fisici e particolarmente per la guarigione dalle malattie della gola[1].
Il martirio di san Biagio, avvenuto intorno al 316, è da ricollegare al rifiuto di abiurare la fede cristiana. La leggenda riporta che fu decapitato, dopo essere stato a lungo torturato con pettini di ferro che gli straziarono le carni. Lo strumento del martirio fu preso a simbolo del santo e poiché simile a quelli utilizzati dai cardatori di lana e dai tessitori, ecco che queste categorie lo vollero designare quale loro protettore.
Tra i diversi miracoli attribuiti il salvataggio di un bambino che stava soffocando dopo aver ingerito una lisca di pesce.
Il corpo del santo fu sepolto nella cattedrale di Sebaste. Nel 732 una parte dei suoi resti mortali furono imbarcati, per essere portati a Roma. Una tempesta bloccò il viaggio a Maratea (Potenza), dove i fedeli accolsero le reliquie, eleggendolo a protettore e conservandone i resti nella basilica sul monte San Biagio. Qui si conserva parte del torace, mentre a Carosino (Taranto), è custodito un pezzo della lingua, conservato in un’ampolla incastonata in una croce d’oro. A Ostuni si conserva un osso, venerato e posto sulla gola di ogni fedele che oggi si reca in pellegrinaggio al santuario dedicato al santo. Nella cattedrale di Ruvo di Puglia si venera una reliquia del braccio del Santo, esposta entro un reliquiario a forma di braccio benedicente, portato in processione dal Vescovo e esposto alla venerazione dopo la messa di oggi in cattedrale.
In provincia di Lecce, oltre al culto riservato a Nardò, è nota la devozione degli abitanti di Salve, nel cui territorio ricade la masseria e la cappella di Santu Lasi, termine dialettale con cui si designa il nostro santo. E’ del 1716 la chiesetta, riedificata sui resti di una costruzione altomedievale che ospita una coeva statua del santo. Nella masseria poco distante lo scorso anno si tenne una interessante mostra dal titolo “Santu Lasi / San Biagio: un santo, una cappella, una masseria” e si tenne la benedizione e la distribuzione dei pani di S. Biagio (provenienti da Ruvo e da Sant’Agata di Puglia, centri nei quali il san Biagio è patrono)[2].
Il motivo dell’antico patrocinio a Nardò non è da ricollegare, a mio parere, alla protezione per banali raffreddori o comuni tonsilliti, quanto per la grave malattia infettiva della difterite[3], di cui sono accertate epidemie nel XVII secolo in città, che procurarono non pochi lutti, specie tra i più piccoli, che morivano per l’asfissia determinata dalle “scrascie a ncanna” (rovi in gola)[4].
Ma ancora un motivo giustifica la particolare devozione dei neritini al santo, ricollegabile alla antichissima e nobile famiglia dei Sambiasi, il cui nome, fino al XVII secolo, era Sancto Blasio, per l’appunto San Biagio. Credo sia stata questa famiglia ad introdurne il culto, anche perché un ramo viveva accanto alla chiesa in cui tuttora si festeggia il santo armeno.
Altri motivi mi portano a considerare veritiera l’ipotesi, dato che la stessa famiglia edificò ben due chiese in città dedicate al santo. La prima fu fatta costruire nel 1623 dal barone Giuseppe Sambiasi, nelle vicinanze dell’antica chiesa di S. Nicola del Canneto, poi di S. Lorenzo, tra l’abitazione di Cesare Sambiasi da tre lati e la pubblica via dall’altro.
Figlio di Alessio Sambiasi, Cesare la istituì con atto notarile del 10 aprile, ad laudem et gloria di S. Biagio, sulla via pubblica in qua habet exitus ecclesia predicta, dotandola di 48 ducati di annuo censo. Nella visita pastorale del vicario Granafei (1637) il patronato era del sacerdote Bernardino Sambiasi, figlio del fondatore. Nella visita del Sanfelice (1723) risultava cappellano Giuseppe Sambiasi ed il sacellum era posto iuxta domos M(agnifi)ci D(omi)ni Fabritio Sambiasi; in quella del Petruccelli (1764) il cappellano era Alessio di Guglielmo Sambiasi.
Il 9 novembre 1756 il barone Nicola Sambiasi vi fondò un beneficio omonimo di jus patronatus laicorum, col peso di sette Messe l’anno in perpetuo a beneficio della sua anima, per 160 ducati. Primo rettore e cappellano fu Vincenzo d’Elia, poi suo fratello Emanuele, apparentati entrambi col fondatore. Nel 1761 la chiesa era del barone di Melignano Giuseppe di Guglielmo Sambiasi, alle cui case era attaccata. Giuseppe nel suo testamento dispose che in essa in ogni domenica, quanto in ogn’altro giorno festivo dell’ anno, dovessero celebrare e far celebrare una Messa colla solita elemosina di un carlino, e ciò voglio che si osservi durante mundo ed in perpetuum e dette Messe le dovessero dire delle Messe del legato del barone Ruggiero Sambiasi
Della chiesa, aperta al culto fino alla metà del secolo XIX, ubicata sull’attuale via De Pandi, oggi non restano che i muri laterali e parte assai ridotta della volta. I fregi e i decori in pietra leccese sopravvissuti documentano quanto fosse graziosa e artisticamente valida.
L’altra chiesetta, comunemente detta di S. Biagio in Via Lata per distinguerla dalla precedente, fu edificata dalla medesima famiglia verso il 1700, nel vicolo omonimo di via Lata, dove risiedeva un altro ramo dei Sambiasi. Di media grandezza, con un solo altare, aveva un grazioso prospetto, reso tale da interessanti fregi e decori sulla porta, che fanno supporre una preesistente dimora cinquecentesca riadattata a sacro luogo. Non era dotata di beneficio ed il cappellano fu sempre della famiglia Sambiasi, cui spettava il diritto di patronato. Anche questa fu aperta al culto fino alla metà del XIX secolo, per essere poi adibita ad usi profani, quindi a civica abitazione.
Due preziose testimonianze iconografiche su San Biagio a Nardò
La più celebre raffigurazione del nostro santo è certamente quella di Michelangelo nel Giudizio Universale della Cappella Sistina, con le famose “braghe” di Daniele da Volterra e gli strumenti del martirio; molto bello anche il noto ritratto del Tiepolo, in cui appare come santo vescovo.
Pur se non frequentissima, l’iconografia a volte lo ritrae come santo guaritore e intercessore, altre ancora nel momento del martirio, più spesso come vescovo, con mitra, pastorale e libro, a mezzo busto o a figura intera.
Ecco che allora gli attributi variano, associandogli ora il pettine di ferro con cui fu torturato, talvolta con la palma del martirio, più spesso con uno o due ceri incrociati, in ricordo del miracolo della guarigione del bambino.
A Nardò ho trovato due belle raffigurazioni del santo armeno, entrambe in cartapesta policroma. Una certamente proviene da abitazione privata, anche se attualmente custodita nella chiesa di S. Giuseppe, forse donata dal proprietario; l’altra è oggetto di venerazione da parte dei fedeli nella chiesa di S. Teresa ed è stata portata in processione il 2 febbraio.
Il gruppo scultoreo, sotto campana di vetro, secondo la tradizione popolare salentina di fine Ottocento, poggia su una base ottagonale di legno dorato, con il margine modanato, poggiante su otto piedini “a cipollina”. Del tutto originale, forse unica, è la campana ellittica in vetro soffiato, terminante a cupola che protegge il manufatto.
Del piccolo capolavoro ne scrissi già nel 1998, in occasione della mostra “Famulos tuos… Immagini della pietas popolare: Madonne e Santi sotto campana”, organizzata dalla parrocchia del Sacro Cuore in Nardò, in occasione della quale fu stampato un succinto catalogo delle opere esposte, introdotto da Mons. Vittorio Fusco[5].
La composizione raffigura il santo in piedi, leggermente proteso verso la donna che, inginocchiata, offre al suo cospetto il figlioletto moribondo. Con la mano destra sollevata impartisce la benedizione, mentre la sinistra, a ricordo del celebre miracolo, è posta vicino alla bocca dell’infante, evidentemente bloccando il tragico percorso della lisca di pesce conficcata in gola.
Il santo è raffigurato in età avanzata, calvo sulla sommità del capo, con barba grigia fluente che ricade in morbidi riccioli, aureolato. Veste un’ampia tunica azzurra, fermata in vita da un cingolo, con risvolti dorati e bordature rosse, come i numerosi bottoncini. Ai suoi piedi, sul terreno, è posta la mitra dalle fini decorazioni arabescate.
Molto accurato anche il panneggio delle vesti della donna, che indossa una tunica marrone ed un corto mantello azzurro.
La fine esecuzione dei lineamenti e le intense espressioni dei volti, oltre l’estrema accuratezza nell’esecuzione del restante, ne fanno un pezzo di gran pregio, opera di uno dei più validi cartapestai leccesi. La mancanza di firma e data rendono impossibile l’attribuzione.
Di grandezza naturale è invece l’altra eccellente cartapesta policroma conservata nella settecentesca chiesa di S. Teresa, sempre a Nardò, un tempo annessa al monastero delle carmelitane, in una nicchia addossata a lato del presbiterio. Un’iscrizione sul basamento documenta che fu realizzata a spese dei fedeli neritini (Neritonensium pietas) nell’anno 1888.
Il santo, a figura intera, caratterizzato dalla folta barba grigia, indossa i paramenti vescovili orientali, con la caratteristica mitra sormontata dalla croce, il pastorale dalle estremità ricurve verso l’alto, il classico omoforion o lunga sciarpa ornata di croci.
La mano destra rivolta in alto e l’espressione estasiata del bambino indicano che il miracolo è già avvenuto e il santo, pur continuando a fissare il piccolo, sembra congedarsi, dopo aver ringraziato il Padre per l’evento miracoloso appena compiuto.
L’ampia casula rossa non camuffa le giuste proporzioni corporee e, nonostante il rigido drappeggio, si contrappone molto bene con l’appiombo del camice, per i cui bordi sono state riutilizzate parti di indumento indossato da qualche prelato di alto rango, vista la ricchezza del decoro a motivi eucaristici e la finezza dell’intaglio.
La resa plastica, i particolari assai curati e i tratti somatici delle due figure, ma anche l’equilibrio fra le parti e la posa ieratica del santo, portano a considerare anche quest’opera tra le migliori dei più bravi cartapestai leccesi.
La data sul basamento potrebbe rimandare ai validissimi Antonio Maccagnani (1807-1892) o al più giovane Achille De Lucrezi (1827-1913), ma lasciamo agli esperti un’auspicabile attribuzione, trovandoci di fronte ad una delle più raffinate opere in cartapesta presenti in città, ancora a torto considerate “arte minore”.
[1] dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – I. Avvento – Natale – Quaresima – Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 784-785.
[2] http://www.salentoproloco.com/forum/viewtopic.php?f=26&t=71.
[3] La difterite è una causata dall’azione di una tossina (tossina difterica) prodotta da batteri che si trasmettono per via aerea. Solitamente la difterite inizia con mal di gola, febbre moderata, tumefazione del collo.
Molto spesso i batteri della difterite si moltiplicano nella gola (faringe) dove si viene a formare una membrana di colore grigiastro che può soffocare la persona colpita dalla malattia. A volte queste membrane si possono formare anche nel naso, sulla pelle o in altre parti del corpo.
La tossina difterica, diffondendosi tramite la circolazione sanguigna, può causare paralisi muscolari, lesioni a carico del muscolo cardiaco con insufficienza cardiaca, lesioni renali, fino a provocare la morte della persona colpita.
[4] In Italia, prima dell’avvento della vaccinazione di massa (al termine della seconda guerra mondiale) si registravano annualmente alcune decine di migliaia di casi di difterite con più di mille morti ogni anno.
I casi di malattia si sono ridotti, fino a scomparire quasi del tutto alla fine degli anni ’70, dopo che la vaccinazione antidifterica è stata praticata in forma estensiva in associazione con quella antitetanica (http://www.levaccinazioni.it/informagente/Vaccinazioni/difterite.htm.).
[5] Famulos tuos… Immagini della pietas popolare: Madonne e Santi sotto campana, a cura di M. Gaballo, Tipografia Bonuso – Nardò, pp.90, fuori commercio.
Un exscursus storico, religioso, iconografico, agiografico straordinario. Grazie Marcello!
San Biagio è un Santo caro ai salentini ed ai leccesi, dalla genesi cristiana.
E’ un santo caro a tutto il mondo, San Biagio, ed ha fatto bene Marcello a dare questa testimonianza di culto religioso e di amore artistico. Al di là dell’agiografia, infatti, resa completa, è da ammirare, come ribadisce Daniela, il servizio iconografico.
Ne sono lieto.
Mi unisco a Nino Pensabene e a Daniela Bacca nell’esprimere approvazione e meraviglia per questo articolo così curato e ricco.
La sensazione è la stessa del chiedere l’ora a una persona di per sè puntuale e sentirsi rispondere non solo con la precisione di un orologio svizzero, ma anche con ghiotte informazioni sui fusi orari più significativi e sulle tradizioni annesse a date e orari specifici di quelle parti del mondo.
E’ fantastico e inaspettato.
Marcello è un acuto osservatore e lo dimostra nella dovizia di particolari che fa fiorire in storie e personaggi: li presenta e li vive fino a farli conoscere a fondo, se non addirittura amare. Di San Biagio sapevo solo della porta a lui dedicata a Lecce, descritta egregiamente da Giovanna, e della sua rappresentazione nelle vesti di vescovo. I miei rapporti col santo non andavano oltre alla raccomandazione un tempo ripetuta all’indirizzo di mio padre: “Vienimi a prendere a Porta San Biagio!”
Oggi, invece, scopro, grazie ai pertinenti articoli di Spigolature, che quella Porta ha un’anima: è posta prima di tutto a Oriente perchè il Santo era armeno, di Sebaste(chi poteva immaginarlo!); è dedicata a un uomo che già per il fatto di essere medico, a quel tempo, dimostra una forte inclinazione verso il prossimo; è l’espressione architettonica visibile che rimanda a rappresentazioni iconografiche sparse sul territorio del Salento, oltre che su quello nazionale. Marcello Gaballo descrive il motivo della santità di quest’uomo con analiticità storico-scientifica e allo stesso tempo con sentimento. San Biagio, è vero, salvò tanta gente dalla difterite, ma Marcello viene incontro ai suoi lettori spiegando cosa sia questa malattia; il Santo armeno venne rappresentato in statue e dipinti, ma ancora una volta scende in campo l’autore descrivendoli con l’entusiasmo e la precisione di uno storico dell’arte. Abile estimatore delle mille facce di una stessa medaglia. E io, salentina e cattolica un po’ ignorante, vorrei d’un tratto essere stata a Salve per le belle celebrazioni paesane del Santo o a Nardò, ieri, a seguire la sua processione. Di certo andrò a vedere la splendida statua dedicatagli a Nardò, ora che so che esiste, e di certo perdonerò mio padre se verrà all’appuntamento davanti a Porta San Biagio con qualche minuto di ritardo!
Pochi sanno che una statua di san Biagio si trova anche all’interno della basilica Sancta Maria ad Nives di Copertino. E’ posta in una nicchia in alto su uno degli altari della navata sinistra, subito dopo, mi pare, l’altare con la “Deposizione” dello Strafella.
Data l’altezza non ho mai approfondito se si tratta di cartapesta, perché dal basso così sembra.
Pur non facendo triduo o novena e quindi non scendendo la statua, finché la basilica è stata retta dall’arciprete, mons. Marulli, ogni anno, il 3 febbraio, si ritualizzava la benedizione della gola ai fedeli attraverso due ceri incrociati e, ovviamente, la specifica formula.
In circa mezzo secolo di vita sociale, almeno a Nardò, ho sentito bestemmiare San Biagio, una sola volta ed è stata anche l’unica volta che ho visto rimproverare pesantemente, un bestemmiatore. La cosa che più mi colpì, fu il fatto che il rimprovero venne fatto da persone che usavano intercalare più o meno regolarmente i loro discorsi con colorite, pesanti bestemmie, ma non esitarono ad inveire sdegnati sull’incauto giovane bestemmiatore, proferendo queste parole: “San Biagiu no! San Biagiu, ete ti la cola!”. Ho voluto ricordare il fatto per testimoniare, se ce ne fosse bisogno, il massimo rispetto di cui gode il Santo a Nardò, un rispetto assoluto che non trova eguali e che non saprei distinguere se si tratta devozione verso colui che potrebbe scansare da una morte artroce, quale quella per soffocamento, o di un pagano timore.
Anche a Cannole, ex feudo dei nobili Sambiasi nel XVI-XVII secolo, si venerava San Biagio, ne è testimone il menhir Santu Lasi e i resti dell’omonima chiesetta. Quindi condivido il fatto che furono proprio i Sambiasi a introdurlo.
Sono nato in Via De Pandi ma non conosco dove si trovano i resti della antica Chiesa di S. Biagio. Come posso riconoscerli?
la chiesetta non esiste più, inglobata nelle abitazioni ottocentesche della via
San Biagio patrono anche di Corsano per il quale si tengono due feste l’anno,il 3 febbraio con grande fiera e a luglio per consentire ai numerosi emigranti di venerare il proprio Santo. Venerato anche dai paesi vicini che ogni anno si recano per la benedizione della gola.