di Armando Polito
Non è il titolo di una favola antica e neppure di una di un autore moderno o contemporaneo o, Dio vi salvi!, mia. È solo un vigliacco espediente per suscitare un minimo di interesse per una materia, la filologia, che a prima vista può sembrare arida e, spesso, aleatoria. Ma quale nostro tentativo di conoscenza, in qualsiasi campo, non è soggetto alla spada di Damocle della provvisorietà del risultato che solo contingentemente appare in esse ma che in una prospettiva nemmeno tanto lontana palesa il suo eterno in fieri? Se pure la filologia è una scienza aleatoria (come tutte le scienze nei risultati, non nel metodo…) essa, tuttavia, si difende molto bene dal rischio di essere arida, perché si occupa della quintessenza della nostra umanità, cioé il linguaggio; e anche solo una parola (talora anche una sillaba o, voglio esagerare, un fonema) può rivelare la fatica del vivere e lo sforzo di tramandarne il ricordo nel tempo. È intuitivo che il dialetto in questa funzione parte, anzi, partiva favorito perché nasceva dall’intrinseca identità territoriale e culturale di una popolazione intesa come maggioranza (sia pure non acculturata e tanto meno letterata), senza il filtro un po’ spocchioso e omologante di una minoranza (acculturata e letterata) che ha guardato da sempre al dialetto con sufficienza, per non dire disprezzo. Mi rallegrerei se l’evoluzione culturale di questi ultimi cinquanta anni avesse portato veramente ad una diffusione della lingua nazionale e, quel che più conta, ad un suo uso corretto e rispettoso della funzione significante. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: da una parte un dialetto che celebra la sua agonia nel successo di poche voci per lo più di significato volgare o di origine gergale, dall’altra un uso arbitrario ed opzionale della lingua nazionale nella violazione inconsapevole, perché frutto di ignoranza, (quella consapevole è riservata, da sempre, solo ai poeti) di ogni norma espressiva. Deliranti, poi, sul piano politico, certe posizioni che vorrebbero addirittura imporre la conoscenza del dialetto locale come elemento pregiudiziale per poter lavorare in quel territorio.
E la scuola? Di questo sfacelo non sarà pure l’autrice ma, per la sua responsabilità indiretta (in quanto deve pur sempre obbedire a direttive calate dall’alto), quanto meno complice e connivente, immersa fino al collo in un piano diabolico sotteso dal principio del quanto più il popolo è ignorante tanto più è servo, spudoratamente seguito da tutti i governi alternatisi negli ultimi decenni.
Certo, mi pare di sentir dire, criticare è facile, teorizzare lo è ancora di più, difficile è proporre. Più che difficile, nella situazione che si è creata (emarginazione e scomparsa del dialetto/ignoranza nell’uso della lingua nazionale, a partire dall’esatto significato delle parole), direi che è quasi impossibile. Posso solo ricordare che finché ho insegnato mi è sembrato criminale, oltre che da stupidi, non approfittare del formidabile substrato culturale che il Salento, da sempre porta del Mediterraneo, ha potuto sedimentare nei millenni, tanto più che oggetto del mio insegnamento erano l’italiano, il greco ed il latino. A dire il vero, insegnavo (o avrei dovuto insegnare) pure storia e geografia, però capitava molto spesso (forse con grande piacere non propriamente culturale dei miei alunni…) che le relative ore andassero sacrificate non per parlare dell’economia della Spagna o dell’abilità strategica di Giulio Cesare ma per approfondire, spesso estemporaneamente ispirato dagli alunni più che guidato da una asettica preparazione pregressa della lezione, l’interpretazione di un passo in italiano, latino o greco, preventivamente smontato nelle sue componenti strutturali e analizzato in ogni singola parola.
In questa metodologia didattica era fatale che l’italiano, il latino o il greco evocassero più di una volta nella stessa giornata una voce dialettale e che il tempo trascorresse in un baleno e quasi senza fatica (almeno per me…).
Ecco perché qui posso solo far finta di rivivere una di quelle giornate e, aggirandomi tra i banchi (salivo in cattedra solo per riposarmi e per scrivere tutto quello che andava scritto sul registro di classe e su quello personale, comprese le osservazioni sul malfunzionamento dell’istituto nello spazio destinato alle note disciplinari, che per tutti i miei allievi, nessuno escluso, sono state, invece, un oggetto misterioso) di vedere Pinco Pallino, ragazzo un po’ troppo sviluppato per la sua età, costretto in un banco non adatto alla sua taglia in un disperato tentativo di coniugare una posizione non sbracata con una sufficientemente comoda. Gli avrei subito detto: “Figlio mio, stiracchiati pure un po’ e, se vuoi, fai pure due passi nell’aula, ma non mi chiedere di andare al bagno!”. E, non appena si fosse alzato, approfittando del fatto che in quell’ora (ma quando si dice la coincidenza…; sì, però, le coincidenze, se non vengono da sole, un insegnante se le deve inventare) si stava leggendo il primo capitolo de I promessi sposi, avrei aggiunto che stava mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate1. Così avrei preso due piccioni con una fava: l’eventuale risata del ragazzo o della classe sarebbe stata la prova che avevano studiato (per esserne totalmente certo, comunque, avrei fatto ulteriori controlli…) e subito mi sarei precipitato ad approfondire aggranchiate. Uno di loro avrebbe preso dall’apposito armadietto il vocabolario di italiano ed al lemma relativo (visto che la parola cominciava per a gli avrei concesso massimo cinque secondi per trovarla; oggi non basterebbero due minuti…) avrebbe letto pressappoco così: aggranchiàre: intirizzire, rattrappirsi per il freddo; da ad-+granchio+-are. Vedi aggranchire. E ad aggranchire: rendere intirizzito per il freddo; intirizzire, rattrappirsi per il freddo; da ad-+granchio+-ire. Dopo aver chiarito i rapporti tra il concetto espresso dal verbo e il granchio (non bisogna dare niente per scontato, oltre al fatto che ognuno di noi può incorrere in un momento di scarsa lucidità mentale e vergognarsi di chiedere spiegazioni) e l’assoluta innocenza del freddo nel caso di Don Abbondio, avrei chiesto come lo stesso concetto è espresso nel dialetto locale e probabilmente dieci anni fa (difficilmente oggi…) sarebbe venuta fuori (se non da parte dei ragazzi, da parte mia) la voce ‘rrunciddhàre. A quel punto sarei stato costretto ad invitare i ragazzi a fare una proposta etimologica motivata e se il tentativo fosse fallito, dopo aver chiarito perché le loro proposte non reggevano, avrei solennemente (ogni tanto bisogna pur fare scena!) detto che ‘rrunciddhàre mostrava anzitutto il raddoppiamento della consonante iniziale, il che in qualche caso è dovuto a motivi espressivi ma nella stragrande maggioranza dei casi ad un’originaria preposizione, nel nostro caso ad (perciò, a mio avviso, la voce va scritta, come ho fatto, con il segno di aferesi ‘). Dunque: ad+runciddhàre>arrunciddhàre(assimilazione –dr->-rr-)> ’rrunciddhàre (aferesi di a-). Runciddhàre, poi, è da runcèddha che in italiano sarebbe stato roncella, diminutivo di ronca (dal latino runcàre=sarchiare, ben diverso da rhuncàre=russare; dalla stessa radice di runcàre, sempre in latino, è rùncina=pialla) se non si fosse sviluppata la forma ròncola (tutta questione di suffissi) che è sempre dal latino, ma medioevale, rùncula.
Che attinenza abbia la roncola con il nostro verbo lo lascio dire alla relativa immagine di testa e recepire dall’immaginazione di ognuno.
A quel punto, sicuramente, non Pinco Pallino ma, (alla strafaccia della privacy!, principio sfruttato secondo me per proteggere più l’intimità dei disonesti che degli onesti i quali, nonostante il famiferato “registro delle opposizioni” al quale hanno provveduto ad iscriversi, continuano quotidianamente a sentirsi, sia pure telefonicamente, rompere le scatole con allettanti offerte) Pier Paolo Giuri (se sta leggendo, un caro saluto!), che si portava ogni giorno appresso il vocabolario del Rohlfs (in parte nella segreta, legittima, per me simpatica e preziosa speranza di cogliermi in fallo…), avrebbe effettuato il suo controllo e, nella fattispecie, la classe si sarebbe lasciata andare ad un applauso che io avrei bruscamente interrotto, colto dal sospetto che mi si stesse prendendo per il culo…
E subito, per vendicarmi (lo ammetto, sono un sano sadico…), avrei chiesto se ci fosse qualche altro termine dialettale che foneticamente in qualche modo ricordasse ‘rrunciddhàre. Probabilmente qualcuno avrebbe detto (in caso contrario l’avrei detto ancora io) ‘rrunchiàre=rannicchiare, il quale, per farla breve, deriva da ad-+*runculàre e *runculàre dal citato rùncula (adrunculàre>arrunculàre> ’rrunculàre> ’rrunclàre>’rrunchiàre).
Altro controllo di Pier Paolo e constatazione che al lemma il Rohlfs non reca etimologia, ma invita solo ad un confronto con il napoletano arronchiare=raggrinchiare. Che per il Rohlfs ci sia un rapporto tra arronchiàre e raggrinchiare, che è alterazione di raggricciare, da griccio=arricciolato, (forse da riccio) incrociato con granchio? Mi pare inverosimile soprattutto per motivi fonetici, dal momento che perfino a me è chiaro che ‘rrunchiàre ha l’etimologia che ho detto nel periodo precedente. Chiedo a Pier Paolo se ha completato la lettura del lemma (di solito un po’ tutti ci si ferma alla prima taverna…) e lui mi dice che alla fine il Rohlfs rimanda ad arrunchiàre. Ci andiamo e troviamo da un latino *adrunculàre=piegare come una roncola, cioè la conferma di quanto da me sostenuto. Questa volta aspetto un po’ per interrompere l’applauso, anche perché non so se è indirizzato a me o al Rohlfs…
Conclusione: per esprimere lo stesso concetto l’italiano ha messo in campo il granchio, dunque l’attività della pesca; il neretino la roncola, dunque l’agricoltura, attività principe della nostra cultura che, non a caso, è essenzialmente contadina.
Sentiamo che la campanella sta suonando e non c’è tempo per altre considerazioni di natura anche non filologica (che qui non riporto per non rubare altro tempo e non certo per paura di beccarmi qualche denuncia per calunnia, che, fra l’altro, mi sarebbe fin troppo facile rimandare al mittente) e noto con piacere che qualcuno stranamente indugia nel preparare l’occorrente per l’ora di educazione fisica che, ufficialmente, è già iniziata.
Forse, dieci anni fa, non era solo un sogno…e oggi ne rimane la nostalgia in tutta la pienezza poetica del suo significato etimologico: dolore del ritorno.
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1 Così il Manzoni dice del procedere di Don Abbondio dopo il suo primo infelice incontro con i bravi.
mi viene in mente una prima distinzione tra i due verbi. Se “rrunchiare” è un atteggiamento umano voluto, fisico o mentale che sia, il secondo è determinato da una patologia del rachide o di altri distretti del corpo.
Infatti uno “si rronchia” anche quando si irrigidisce in schemi mentali o quando inorridisce per proposte che cozzano con la sua formazione. Ma, come giustamente scrivi, anche per il freddo.
” ‘rrunciddhare ” si applica invece alle mani affette da artrite o artrosi deformante, quando le dita assumono l’atteggiamento a griffe, che tanto richiamano la lama della roncola. Così come si dice del corpo segnato dall’artrosi deformante, specie nel tratto cervicale o dorsale, il cui profilo risulta modificato. Ma se riguardasse solo questo distretto sarebbe uno “scubbatu”. Evidentemente il termine dialettale su cui oggi inviti a riflettere interessa più parti del corpo.
Grazie Armando per questa bella lezione… di filologia, e non solo!
L’indagine filologica per il verbo ‘rrunciddhàre proposta dal nostro Armando, mi ha fatto tornare alla mente un annoso dilemma (nel mio caso, se esistesse la parola, direi “trilemma”) riguardante la formazione di molti verbi salentini. Mi spiego!
L’etimologia di ‘rrunciddhàre, composto da ad+runciddhàre, ampliamento di runciddhàre che è da runcèddha, fa supporre che nello stesso dialetto esistano ‘rrunciddhàre e runciddhàre, probabilmente sinonimi; e fin qui condivido (opzione 1).
Altra deduzione filologica ammette che ‘rrunciddhàre sia diretto denominativo di runcèddha, con ad- allativo (opzione 2). Il “trilemma” si completa supponendo ‘rrunciddhare quale variante fonetica di runciddhàre, con rafforzamento (talvolta definito: ‘espressivo”) di r- come lecc. ruìna : rruìna ‘rovina’; quindi, più correttamente, rrunciddhàre senza l’apostrofo di aferesi vocalica (opzione 3).
Concludo dicendo che, se l’opzione 3 può riguardare solo alcuni verbi (del tipo lurdare : llurdare), non escluderei l’opzione 2, avvicinando così il nostro ‘rrunciddhàre al tipo di formazione verbale presente nell’ital. aggranchire, sicuro denominativo di granchio. L’opzione 1, con l’apostrofo di elisione, dovrebbe sostenere un non attestato (nelle fonti scritte salentine) *arrunciddhàre, tanto più un lat. *adruncellare, come allotropo di *adrunculare.
Gradirei che esprimeste un parere sul mio “trilemma”. Grazie.
Nel dialetto neretino non esiste runciddhàre e neppure rrunceddha ma runcèddha. Se, dunque, ‘rrunciddhàre è denominativo rr- non trova altra spiegazione se non in quella che ho fornito e esige la grafia ‘rrunciddhàre. Sta ‘rriu [sto arrivando (ma alla lettera: sta(e) (ca) rriu)] non mi sognerei mai di scriverlo senza il segno dell’avvenuta aferesi, perchè a Nardò, ma credo dappertutto, non esiste riàre.
Quindi, deduco, che ‘rrunciddhàre sia da ad+runcèddha e non da ad+runciddhàre. Il paragone con sta ‘rriu non regge, giacché ‘rriare trae origine dall’ital. arrivare, mentre qui stiamo parlando di verbi denominativi. Chiaramente l’opzione 3 non interessava il nostro ‘rrunciddhàre, ma coppie di verbi come p.es. manisciare:mmanisciare ‘sbrigarsi’, segnuttare:ssegnuttare ‘singhiozzare’, ecc.
Per quanto riguarda l’apostrofo di elisione, qui si entra in un campo minato! Se adottassimo il sistema di trascrizione di ” sta ‘rriu “, allora dovremmo riadattare l’ortografia del dialetto salentino: nessuno, in tutto il Salento, si sognerebbe di scrivere la ‘ricchia/ la ‘recchia per sottintendere l’aferesi vocalica in rapporto all’ital. orecchio, ital. popolare orecchia, ovvero quale continuazione del lat. volg. *ARICLA o lat. tardo ORICLA dal class. AURICULA.
Ma l’italiano arrivare non è un verbo denominativo? O ha etimologia diversa da *arripare, composto da ad+ripa? E se ‘rriare deriva da arrivare non è esso stesso verbo denominativo?
Per “verbo denominativo” nel dialetto salentino intendo un ‘verbo salentino’ che deriva da un ‘nome salentino’: è il caso di neret. ‘rrunciddhàre dal sal. runcèddha.
Per “prestito” intendo un ‘verbo salentino’ preso da un’altra lingua o dialetto: è il caso del sal. ‘rriare che trae origine dall’ital. arrivare (che è, sì, dal lat. *adripare). Se fosse direttamente dal latino, si avrebbe un sal. ‘rripare, che però ha altro significato (‘mettere da parte’), trattandosi di “verbo denominativo” del sal. ripa ‘lato’.
Non mi sento di dire che sal. ‘rriare è verbo denominativo di lat. ripa.
Arrivare è voce del latino medioevale attestata nel glossario del Du Cange (tomo I, pag. 406). Non credo che il salentino per esprimere un concetto così fondamentale avrebbe aspettato la formazione della voce italiana. Credo, invece, che il latino ripa (a Nardò ripa e mai rripa) abbia dato vita in composizione con ad ai due verbi denominativi: ‘rriàre (arrivare) e ‘rripàre (mettere da parte; a Nardò esiste anche il participio passato sostantivato ‘rripata=angolo più o meno riservato, ma forse qui c’è l’influsso dello spagnolo arribada=approdo). Solo in matematica due addendi uguali debbono per forza dare somme uguali, nella lingua può succedere che l’esito diverso sia dovuto proprio alla necessità di una, per quanto leggera, differenziazione semantica. Nel nostro caso, con fenomeni fonetici assolutamente normali che non mi soffermo a descrivere:
1)’rriàre<’rrivàre<arrivare<*arripàre
2) ‘rripàre<*arripàre
Dunque, una comune origine; quanto a ripa/riva entrambe sono attestate (naturalmente con lo stesso significato) nel latino medioevale (Du Cange, tomo VIII, pagg. 191 e 196) ma, siccome nel latino classico abbiamo ripa (e non riva) col significato di sponda e rivus (e non riva) con quello di fiume (quest’ultimo probabilmente collegato col greco reo=scorrere), c’è da pensare che una certa contiguità semantica e fonetica (p/b/v; vedi, fra l’altro, la voce spagnola precedente) abbia propiziato abbastanza precocemente (comunque, in epoca medioevale era, come attestato, già successo, e credo non da poco) la confusione tra ripa e riva, per cui è impossibile dire, questo sì, sempre secondo me, se è nato prima ‘rriare o ‘rripare.
Per citazione:
in “Vocabolario etimologico italiano” di Angelico Prati:
– «arrivare v. s. riva»
– « riva Da ripa (lat.). (…). La forma riva, molto usata, fu forse importata nella lingua comune dall’Alta Italia o dal francese (rive).».
In “Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti” – Fonetica – di Gerhard Rohlfs, al § 208. -p- intervocalica nell’Italia meridionale:
«Nei casi in cui si ha v, trattasi di prestiti della lingua letteraria: (…); e inoltre le forme diffuse in tutta l’Italia meridionale víscuvu, arrivare e póvero.».
Per quanto riguarda ripa/riva attestate nel latino medievale, non vorrei che la forma riva fosse una semplice attestazione (nel latino cancelleresco) di una forma romanza (antico francese rive) latinizzata, come accade per rivagium (Du Cange, opera citata da Armando) che a mio vedere è una latinizzazione dell’antico francese rivage (da lat. ripaticum).
E giusto per rimanere in ambito regionale, il “Codice diplomatico barese”, nel glossario delle voci latine, ci offre numerosi esempi di latinizzazione di voci romanze (pugliesi): ad es. iencus (anno 1219) per iuvencus, e da iencus il barese scènghe e il lecc. scèncu.
Caro Fabio, delle citazioni che tu hai proposto mi piace il “forse” contenuto in quella del Prati; per quanto riguarda il Rholfs, oltre a ribadire la facilità di alternanza p/b/v indotta da affinità articolatorie, mi piace riprendere proprio il suo “povero”. A Nardò la voce è poru (usato, però, solo in frasi esclamative: poru a me!), poi ci sono i due diminutivi puirièddhu (con riferimento economico) e purièddhu (con riferimento morale in contesti di tono commiserativo); tutte le forme, dal latino paupere(m), denotano rispetto alla voce d’origine lo stesso fenomeno, sia pure in dimensioni diverse: poru la sincope di -pe-; puirièddhu quella di -p- e purièddhu ancora di -pe-. Non credo che per le nostre voci dialettali, soprattutto quando, come queste, esprimono concetti semplici fondamentali, possa essere ipotizzata, soprattutto per la prima, un’origine nobile per sincope da povero.
Il nostro scambio di riflessioni e dati, però, ci ha allontanati dal problema da cui eravamo partiti, cioè dal raddoppiamento della consonante iniziale e dalla grafia da adottare. Non è da escludersi che in un prossimo post decida di affrontare organicamente l’argomento; potrebbe essere una buona occasione per riprendere il discorso, sempre che, nel frattempo, il tuo interesse non sia migrato verso altri lidi. Lo dico, ma ne dubito…A risentirci!