di Armando Polito
Negli autori latini si ripete tal quale la condanna dell’eccesso da parte della scienza e una certa indulgenza da parte della poesia. Plinio (I secolo d. C.) dedica all’ubriachezza l’intero capitolo 28 del libro XIV della Naturalis historia: “Ma a ben pensarci in nient’altro è più occupata la vita nostra, come se la natura non ci avesse dato l’acqua per bere, usata anche dagli altri animali. Addirittura noi costringiamo anche le bestie a bere vino e mettiamo tanto impegno, fatica e spesa in qualcosa che muta la mente dell’uomo e genera furore spingendo a mille scelleratezze con tanta dolcezza che gran parte degli uomini non concepisce altro premio della vita. Per berne di più ne indeboliamo la forza col colatoio e si escogitano nuovi stimoli. E per bere si preparano anche veleni e alcuni assumono prima la cicuta perché la morte li spinga a bere, altri polvere di pomice ed altro che mi vergogno di dire per non insegnarlo. Vediamo i più accorti di costoro smaltire la sbornia nei bagni ed essere portati via esanimi. Altri non possono aspettare il letto né la veste e dove si trovano ignudi e ansanti afferrano grandi vasi come per ostentare virilità e bevono a perdifiato per vomitare subito dopo e poi ribere; e questo per due o tre volte come se fossero nati per consumare vino e come se esso potesse essere versato solo nel corpo umano. Per questo ricorrono a pratiche straniere e si rivoltolano nella polvere e distendono il petto piegando il collo. Dicono che tutti questi esercizi provocano la sete. Così nei vasi sono nascosti gli adulteri come se l’ubriachezza stessa non spingesse alla lussuria. Così i vini si bevono per lussuria e l’ubriachezza viene premiata e, se agli dei piace, viene comprata. C’è chi per legge dell’ubriachezza viene pagato perché beva tanto quanto mangia e chi tanto beve quanto ha vinto ai dadi. Allora gli occhi avidi vagheggiano una matrona e suscitano nel marito pesanti sospetti. C’è chi fa testamento, chi dice parole mortifere e non riesce a trattenere la voce in gola come dovrebbe, ragion per cui parecchi trovarono la morte. E ormai comunemente la verità è attribuita al vino1. Frattanto perché per loro tutto vada per il meglio non vedono il sorgere del sole e bevono meno di giorno. Da qui il pallore, le guance pendule, gli occhi arrossati, le mani tremanti che rovesciano i vasi pieni, i sonni agitati (questa è una pena continua), l’inquietudine di notte; e il più grande premio dell’ubriachezza è una lussuria mostruosa e una piacevole scelleratezza. Il giorno successivo l’alito è puzzolente e c’è l’oblio di tutto e la morte della memoria. Dicono che in questo modo rapiscono la vita, mentre ogni giorno perdono quello precedente e pure il seguente”. Seguono alcuni esempi di ubriachezza in cui incorsero famosi personaggi romani.
Più indulgenti, dicevo, i poeti. Tibullo (I, 2, 1-4): “Aggiungi vino e col vino lenisci il recente dolore,/affinché il sonno invada gli occhi vinti dalla stanchezza;/e nessuno tenti di svegliare un ubriaco/mentre l’amore infelice riposa”. Ovidio in Remedia amoris, 805- 806: “Il vino prepara l’animo all’amore, a meno che non se ne beva una quantità eccessiva/e il cuore rimanga stordito come sepolto sotto il suo peso.”; il concetto è ribadito nell’Ars amandi, I, 589: “Da noi sarà data a te una misura certa del bere”, 598: “Come la vera ubriachezza nuoce, così quella finta gioverà”; in Amores il vino diventa un’arma, con la complicità della donna, per mettere al tappeto il rivale in amore: “Insisti perché lui beva continuamente, ma fallo senza che se ne accorga e mentre beve aggiungi, se puoi di nascosto, altro vino”. In Epistulae ex Ponto vi è solo la celebrazione nostalgica delle bevute fatte in patria con gli amici, ma non mi sentirei di escludere che lo scemato entusiasmo di una sana gioia di vivere fosse dovuta, più che all’amarezza dell’esilio, alla pessima qualità del vino del posto in cui era stato esiliato …
Orazio in Carmina, II, 11, 13-18: “Perché non beviamo distesi sotto un alto platano o questo pino, così, senza pensare e, finché è possibile, con i bianchi capelli profumati di rosa e di nardo? Bacco dissipa le preoccupazioni che divorano …”; I, 18, 3-4: “Un dio riservò a chi non beve ogni sofferenza e le preoccupazioni che mordono non vanno via in altro modo”; in Epistulae, I, 2-3: “Nessun canto può piacere né vivere a lungo/se composto da bevitori di acqua …”; I, 5, 16-20: “Che cosa non fa venir fuori l’ebrezza? Essa svela le cose nascoste, rende certezza la speranza, spinge all’azione un inerte, elimina l’affanno dall’animo in ansia, insegna le arti. Chi non fu reso facondo da un calice pieno, chi non libero anche se povero?”. In Ars poetica, 434-437: “Si dice che i re incalzano con grandi tazze e torturano col vino qualcuno quando hanno difficoltà a capire se sia degno di amicizia …”. Una connotazione eminentemente politica ha invece in Odi, I, 37, 1-2 il brindisi per la morte di Cleopatra: “Ora si deve bere, ora col piede sfrenato/ si deve battere la terra …” che ricalca il “Dobbiamo ubriacarci oltre ogni limite:/il tiranno Mirsilo è morto.” di Alceo citato nella prima parte. E, come nella prima parte avevo iniziato col proverbio dialettale della vignetta, così termino questa seconda ed ultima con altri due:
Bbuenu mièru sinu a ffezza, bbona fèmmina sinu a bbicchièzza. Alla lettera sarebbe: Buon vino sino alla feccia, buona donna fino alla vecchiaia; senonché tutti sanno di cosa sia sinonimo la locuzione “buona donna”; e allora: il proverbio vuol significare che, come il buon vino si mantiene tale nel tempo, lo stesso vale per la buona donna? oppure “bbona femmina deve intendersi come se fosse femmina bbona?; e “bbicchiezza”, almeno questa volta, impedirebbe di dare a “bbona” il significato connesso alla fisicità che tutti conoscono …
Ci li ggiùrni mia l’abbìa tutti, facìa cu qquàgghia lu mièru intr’alli utti (Se i giorni miei li avessi tutti, farei cagliare il vino dentro le botti). È febbraio che parla manifestando un’invidia tutta umana, non disgiunta da un pizzico di presunzione, nei confronti degli altri mesi che contano più giorni di lui. In senso ampiamente traslato è come se uno di noi dicesse: se avessi le stesse risorse degli altri, riuscirei a fare quasi l’impossibile.
La prima parte qui:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/16/lu-mieru-il-vino-12/
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1 Vulgoque veritas iam adtributa vino est. È in pratica il concetto latino del greco Ἐν οἴνῳ ἀλήθεια di cui si è detto nella prima parte, cui corrisponde in latino In vino veritas.