Per un profilo di Antonio Duma. Scultore galatinese (1916-1986)

 

di Lorenzo Madaro

Recenti pubblicazioni e mostre di ricerca hanno ribadito l’importanza della scultura all’interno delle vicende artistiche pugliesi a cavallo tra il XIX e il XX secolo, facendo emergere figure note e meno note da un vasto panorama non sufficientemente approfondito, almeno rispetto alla coeva pittura. La mostra Gaetano Stella e la scultura da camera in Puglia, ordinata nel 2007 da Clara Gelao nelle sale della Pinacoteca Provinciale “C. Giaquinto” di Bari, è tra gli eventi espositivi che negli ultimi anni hanno avuto il grande merito di far conoscere al pubblico personalità di ampio rilievo ma al contempo – tranne celebri nomi come Filippo Cifariello, Antonio Bortone, Gaetano Martinez – quasi misconosciute, se non per il ristretto mondo degli studi specialistici. Si pensi al tranese Antonio Bassi o, per fare due nomi legati alla Terra d’Otranto, al galatinese Vittorio Vogna e al neretino Michele Gaballo. Non è un caso che alcune tra le opere esposte a Bari tra 2007 e 2008 provenivano dalla prestigiosa collezione di scultura del Museo Civico “Pietro Cavoti” – come nel caso del già citato Vogna o di Nikkio Nicolini, a cui sono state dedicate due schede a firma di Michele Afferri – che vanta difatti opere di significativi autori del panorama territoriale e di respiro, in alcuni casi, nazionale; si pensi, in tal senso, alle opere di Raffaele Giurgola, Eugenio Maccagnani e Pietro Baffa.

Tra le altre opere conservate in questa sezione del museo galatinese – che meriterebbe apparati didattici adeguati, finalizzati a una maggiore comprensione delle opere ivi esposte e a delucidazioni sulle biografie dei loro autori – figura una maternità di Antonio Duma.

Duma nasce nel 1916 a Galatina e, così come avevano già fatto i suoi concittadini Toma, Baffa e Martinez, e come farà il coetaneo Vogna, decide di lasciare il Salento per trasferirsi altrove alla ricerca di stimoli culturali nuovi. Intorno alla metà degli anni Trenta si sposta così a Napoli per frequentare i corsi del Regio Istituto d’Arte, dove nel maggio 1941 riceve il “diploma di abilitazione all’insegnamento nelle scuole ed istituti d’arte del Regno per la Scultura Decorativa”.

Agli anni di studio risalgono alcune opere note solo tramite riproduzioni fotografiche d’epoca, conservate in un archivio privato, che testimoniano prove e indagini intorno alla scultura cinquecentesca, come si ravvisa in una riproduzione dello Schiavo di Michelangelo, datata 1936, e in una testa virile eseguita presumibilmente intorno al 1939-1940, poiché oltre alla firma il giovane ha inciso anche l’anno del corso: il quinto.

Nello stesso torno di anni Duma esegue tre formelle in terracotta con altrettante scene tratte dalla Via Crucis – mediante cui avvia la sua riflessione sull’iconografia cristiana, che poi tratterà ampiamente nella produzione degli anni sessanta e settanta – e una Madre Romana, che è il titolo originale dell’opera conservata nel civico museo galatinese. Cosa emerge da quest’opera? Anzitutto un’attenzione nei confronti della monumentalità, oltre che della semplificazione delle anatomie e delle forme spaziali. Sono i ‘canoni’ propugnati dal regime fascista nel campo delle arti visive, un gusto ampiamente perseguito dagli artisti dell’epoca con maggiore o minore convinzione ideologica. Duma in questi anni si è adeguato a questo flusso, per lo meno dal punto di vista stilistico e iconografico, e la Madre Romana rappresenta l’emblema di questa fase della sua ricerca; la grande figura femminile, che con il braccio sinistro regge con fierezza un bambino e con quello destro alcune spighe di grano, altro non simboleggia che due essenziali valori della cultura italica tanto propugnati dal regime: la famiglia e il lavoro, quello agricolo naturalmente. E quest’ultimo tema ritorna poi senza mezzi termini in un trofeo eseguito in questi stessi anni di formazione – sul retro della fotografia di quest’opera, così come per le altre citate, compare il timbro della presidenza del Regio Istituto d’Arte di Napoli – in cui oltre a due grandi spighe si riscontra un grappolo d’uva e una foglia di vite su cui troneggia un’aquila, esplicito rimando all’iconografia fascista, utilizzato dal regime per sottolineare retoricamente la propria magniloquenza. I temi del lavoro ritornano nell’altorilievo raffigurante due donne e un uomo con il cestino in mano, in cui l’attenzione dell’artista si è soffermata soprattutto sulla resa plastica delle anatomie stilizzate, mentre i volti rimangono poco caratterizzati dal punto di vista fisionomico, tra le finalità di molti artisti del tempo vi è, d’altronde, la rappresentazione di valori collettivi e universali. L’autore si sofferma poi a descrivere i piedi scalzi delle due figure femminili e i grossi scarponi indossati dall’uomo, il quale non rinuncia ad accarezzare il capo di un bambino che tenta energicamente di abbracciarlo. Le due grandi ceste rammentano il lavoro nei campi, ma in un altro rilievo Duma si sofferma sul lavoro nei cantieri edili. La scena, che a differenza delle precedenti è piuttosto movimentata, è dominata da sei uomini impegnati nell’esecuzione di una facciata di un edificio, di cui s’intravede un grande arco e altri particolari evocanti un’architettura razionalista, anch’essa ispirata allo stile dominante. Tra gli altri lavori dell’epoca vi è poi una coppia ritratta in piedi: l’uomo abbraccia la donna, sulla cui spalla poggia il viso dallo sguardo malinconico, la quale in un atteggiamento di rigida fierezza, sottolineata dal lungo abito che rileva le composte anatomie, regge in mano un pezzo di pane. Lo sguardo di Duma si è soffermato sulla condizione umana a lui contemporanea; i temi dell’umanità sofferente ma al contempo della speranza verso il futuro – espressa dallo sguardo fiducioso della donna – ritorneranno anche nelle esperienze plastiche dei decenni successivi, ma il vigore plastico di queste prime realizzazioni lo rendono pienamente al passo con i tempi, inserito, almeno sotto il profilo iconografico, in un dibattito vivace e complesso, quello della scultura degli anni trenta e quaranta, che in Italia ha registrato numerosi e prestigiosi interpreti. Ma d’altronde queste rimangono esperienze legate agli anni di studio a Napoli che presupponevano l’approvazione della direzione del Regio Istituto Artistico, pertanto non potevano affatto distaccarsi dalla cultura figurativa dominante, perseguita per forza di cose anche nelle scuole d’arte.

La stessa compostezza formale, il medesimo rigore plastico – sono d’altronde i valori formali tanto perseguiti e propugnati anche dal punto di vista teorico dallo scultore Arturo Martini o dal pittore Mario Sironi, solo per fare due dei nomi più celebri del panorama artistico italiano di questo periodo storico – sono presenti in un’opera che raffigura un giovane uomo seduto con le gambe accavallate e intento probabilmente a suonare uno strumento musicale, come sembrerebbe suggerire la posizione delle mani. Un profilo essenziale, una sintesi tra plasticismo e arcaismo, ritorna ancora in una statua offerta dagli internati militari italiani al Comune di Därstetten eseguita dal Duma tra il 1944 e il 1945, come conferma la didascalia bilingue di una cartolina edita per l’occasione. Il gruppo scultoreo – probabilmente andato disperso dopo la caduta del Fascismo – è forse il lavoro più retorico della produzione nota dell’artista galatinese, ma non bisogna dimenticare che si tratta di una commissione pubblica.

L’unica opera superstite di questi anni è la scultura conservata al Museo Cavoti, probabilmente donata dallo stesso artista sul finire del decennio, quando la collezione del museo voluto dal segretario della locale sezione del partito fascista, Francesco Bardoscia, s’incrementò grazie alla generosità di alcuni artisti e donatori.

Ma cosa è accaduto dopo la fine degli studi? In seguito alla seconda guerra mondiale, Duma ha fatto ritorno a Galatina avviando la sua attività di docente di disegno presso le scuole medie inferiori e tralasciando, per circa un ventennio, l’attività artistica. Il suo ruolo all’interno delle vicende artistiche del territorio rimane decisamente appartato; non partecipa alle rassegne espositive collettive ordinate in quel torno di anni in Puglia, non riscuote interesse sulla stampa, fatta eccezione per alcuni articoli editi su quotidiani del territorio, e anche nelle antologie dedicate alle vicende artistiche del territorio il suo nome risulta assente, probabilmente per il suo riserbo e, soprattutto, per l’estraneità della sua ricerca dalle coeve indagini artistiche. Duma, difatti, evita qualsiasi forma di sperimentazione linguistica, qualsiasi contaminazione legata alle ricerche visive a lui contemporanee per dedicarsi a un percorso fuori dalla storia ma al contempo – e questo non deve apparire un paradosso – universale, non fosse altro che per la scelta delle tematiche: iconografia cristiana, mitologia, musica e condizione umana. Va così in scena un’umanità afflitta da una sottile malinconia, percepibile negli sguardi assorti, nelle camminate stanche, nella gestualità delle sottili mani e delle braccia affusolate della gente ritratta, elementi questi già ravvisati da Antonio Antonaci che nel giugno 1967 ha affidato le sue riflessioni sull’opera di Duma a un breve articolo edito su “Il Titano” di Galatina.

Un bambino dai calzoni corti s’incammina, un altro scruta il futuro con uno sguardo speranzoso nella sua essenziale divisa scolastica, due fanciulle si avvicinano a una mendicante e gli offrono una ciotola, altre due soccorrono un disabile; un anziano si rivolge affettuosamente a una bambina e un vecchio fuma in solitudine la sua pipa. Gli affetti, il lavoro, la carità, la solitudine. In queste opere si avverte, a differenza dei lavori giovanili noti, un coinvolgimento emotivo da parte dell’autore, il quale nel corso degli anni ha collezionato un vero e proprio campionario di sentimenti e tipologie umane. Dai diseredati che vagano assorti con le proprie intime riflessioni, al chirurgo che impugna il bisturi prima di un’operazione, allo storpio che cammina con l’ausilio di una stampella. E poi, come accennato, la mitologia, come si ravvisa in una Diana cacciatrice e – come riportato in un articolo apparso il 6 novembre 1970 sulle colonne de “La Tribuna del Salento” in occasione di una mostra personale allestita presso la Società Operaia di Mutuo Soccorso di Lecce – con le statue raffiguranti Apollo e Dafne, Ratto di Proserpina e Amore e Psiche.

Tra i cicli ricorrenti nella produzione plastica di Duma in questo torno di anni vi è poi la musica, ballerine e, soprattutto, suonatrici, modellate con un flusso materico mai azzardato, ma non per questo rigido; ed ancora opere legate all’iconografia religiosa – si pensi a un San Francesco o a un profilo della Madonna –, e ancora pescatori, zampognari, circensi e ritratti di giovani modelle in fiore, mentre nella coeva produzione dei bassorilievi – se ne conservano alcuni di grandi dimensioni in collezione privata – si lega soprattutto alla rappresentazione del mondo agricolo e del paesaggio, dove, ancora una volta, “ogni pezzo è un inno alla vita, alla natura alla realtà, è un invito alla speranza, alla umanità eterna delle cose”, come si legge sulle pagine dell’Almanacco Salentino (1970-1972) curato da Mario Congedo e che costituisce l’ultimo contributo noto sull’artista galatinese che morirà nel 1986.

 

Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per averne concesso la riedizione

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