Il mistero della lenticchia “porta ricchezza”

Lenticchia e zampone (o cotechino)

quando la panzana si fa classica tradizione.

 

di Pino de Luca

Lenticchie

Passato il rito del capodanno e del cenone di San Silvestro restano sempre da smaltire i resti. Nell’abbuffata che coinvolge grandi e piccini si mescolano, per pura superstizione, cibi beneauguranti di ogni latitudine mascherando il cenone degli “avanzi” (riserve della dispensa dell’anno che muore) con mille e una pietanze che da “portata” si assumono come “portatrici”. Fra queste vi sono le lenticchie, per ragioni che nessuno sa spiegare foriere di ricchezza secondo un costume probabilmente romano.

Alle radici s’associa lo zampone o il cotechino che sulle tavole salentine ha avuto diritto di cittadinanza con la televisione. Sostituendo il capitone, il cappone e il gallo verso i quali l’interesse è scemato quasi totalmente. Sic transit gloria mundi

Rimane il mistero della “lenticchia porta ricchezza.” E allora ci si mette al lavoro. Indubbiamente è il più antico tra i legumi coltivati dall’uomo. Ne parlano in molti e tracce di lenticchie si trovano fin dal 7000 a.c. nell’area della mezzaluna della civiltà nella quale abitarono i Sumeri. Di certo la conoscevano gli egizi vista la presenza del legume in numerose tombe e, senza dubbio alcuno, era nota al popolo ebraico.

Ritrovamenti archeologici risalenti al principio del II millennio a.c. testimoniano l’esistenza della lenticchia come legume costituente mensa umana nelle isole Eolie (Filicudi, Filo Braccio)

Nel libro della Genesi [25,34] si narra di Esaù e di Giacobbe e di come il primo cedette il diritto di primogenitura “per un piatto di lenticchie ”palesando già da allora che si trattava di legume di poco valore.

Le lenticchie compaiono anche per due volte nei Libri storici (Samuele) e una volta anche in quelli profetici (Ezechiele). Ma ciò non ne ha reso un prodotto benaugurale, l contrario gli Ebrei usano consumarlo quando sono in lutto. Di ciò v’è traccia concorde anche nella “interpretazione dei sogni” di Artemidoro nella quale le “lenticchie” sono presagi funerei.

D’altra parte il mito racconta che Esaù, diseredato per colpa delle lenticchie e dell’astuto Giacobbe (il cui nome significa il “soppiantatore”), prese il nome di Edom e dette origine alla più antica popolazione del Sud Italia (gli Idumenei) … non certamente ciò è segno di fortuna.

lenticchia1

La lenticchia era amata invece dai tutori della salute. Sicuramente Galeno, che la recensisce con grandi virtù sia cotta che cruda assegnandogli anche proprietà anticancerose (in realtà anticancrena per quei tempi il cancro non era noto) ma, singolarmente, era nota l’elefantiasi. Ne fa menzione il medico Bresciano Hieronimo Sachetto nel 1562 traducendo l’opera del medesimo Galeno.

Ma la nostra brava lenticchia non genera opinioni concordi: Ateneo di Naucrati, latore dei Deipnosofisti la cita con onore in un discorso fatto a Plutarco, Sopatro ne racconta le virtù come minestra e come portatrici di proprietà cosmetiche, Ovidio ne descrive l’utilizzo in maschere di bellezza e, miste a miele, come medicamento per scottature e eritemi solari.

Ma ancora alcuna radice benaugurale se ne può dedurre. In fondo si tratta di legume comune e componente essenziale della mensa dei poveri. Tanto diffuso da fare minestra di lenticchie ben prima di quella di maggior uso nell’antica Roma e nei suoi territori. Puls (minestra) Lentis (di lenticchie) daranno origine alla ben più nota polenta!!!

Catone e soprattutto Plinio ne glorificano le proprietà alimentari. Facendo della lenticchia la “carne dei poveri” anche per il suo altissimo contenuto proteico e di ferro.

Un singolare uso ne fece Caligola: dovendo trasportare la colonna egizia che si erge in Piazza San Pietro e avendo timore che si rompesse, la fece imbarcare all’interno di un sarcofago pieno di lenticchie. Che spreco diranno i più. Forse. Caligola era un po’ eccentrico come è noto e però non era stupido. I romani avevano un modo singolare di conservare le lenticchie delle quali erano molto ghiotti.

Lo descrive molto bene Lucio Giunio Moderato Columella nel suo De Re Rustica:

(Per conservare la lenticchia) dopo la sua trebbiatura si deve mettere il seme in acqua. I semi che galleggiano vengono scartati. In questo modo si individuano e si separano quelli che dovessero contenere qualche insetto parassita. Gli altri, così selezionati, vengono asciugati al sole e bagnati con aceto contenente radice di laserpizio. Con questo infuso vengono strofinati e sottoposti ad una seconda asciugatura. Quindi si opera una ventilazione con i setacci e infine i semi possono essere riposti in giare ben asciutte, che vengono immediatamente tappate con gesso. In alternativa, possono essere mescolati con cenere setacciata.

E i semi che galleggiano possiamo usarli al posto del polistirolo, e, dopo, come mangime per animali. Ad esempio ne sono assai ghiotti i cavalli.

Dai greci di Grecia ai Griki di Grecìa, un ispirato Antifane declama: “Amici, vi giuro, in nome di quel dio per merito del quale è dato a noi tutti di ubriacarci, che davvero preferisco vivere questa vita piuttosto che avere la potenza del re Seleuco. E’ bello sorbirsi in tutta tranquillità una zuppa  di lenticchie, mentre è da sventurati dormire pieni di paura su morbidi letti.” E il grande Crisippo enuncia: “D’inverno zuppa di lenticchie con lampascioni, oh,oh ! Col freddo gelido è come l’ambrosia!” Poteva Apicio trascurare tanta ricchezza? Ed ecco la Lenticula ex sfondilys, come sempre ricca di spezie e arricchita dalle spugnole.

D’alterne fortune vive questo legume fino ai giorni nostri. Urbanesimo, nuovi legumi (fagioli soprattutto) e nuove abitudini alimentari lo relegano alle mense dei più diseredati, al consumo contadino e ai mercati poveri dei primi comuni.

Scompare quasi, come tutti i legumi, dalle tavole dei secoli della modernizzazione per riapparire alla fine del XX-esimo secolo.

La lenticchia, nel Medio Evo, si fa cattiva fama perché, con tutta probabilità, viene associata con la cicerchia nelle zuppe e la cicerchia però è un legume che, se non è trattato come si deve, produce latirismo, una malattia del sistema nervoso che porta alla paralisi degli arti inferiori.

Solo con l’evoluzione della ricerca e la selezione dei semi la lenticchia ha ripreso il posto che merita.

E, senza alcun dubbio, le lenticchie migliori si producono nello stivale:

Castelluccio di Norcia (PG) ha la DOP. Ma di pregiate e famose ve ne sono a Colfiorito di Foligno (PG), la verde di Altamura (BA), quella di Villalba (CL) a grana grande, di Antillo (ME), la lenticchia nera di Leonforte (EN), quella di Gangi (PA) che è ne la “Manciata di novi cosi”, delle Eolie, di Ventotene, le “microsperme” di Mormanno in fieri di diventare presidio Slow Food poiché di origini asiatiche più che Mediterranee e le piccole, tenere e rare lenticchie di Ustica dal colore marrone scuro e coltivate su terreni vulcanici.

Senza ovviamente dimenticare la lenticchia di Soleto.

Delle “estere” son degne di nota la rossa o “egiziana” a cottura veloce poiché decorticata, e quelle dell’Armuña di origine spagnola, famose per il sapore unico.

Di ricette di lenticchie ne esistono a bizzeffe, non ci sono limiti, anche se la più golosa rimane la zuppa consumata senza cucchiaio, semplicemente attingendo dal piatto con la costola di cipolla cruda …

Resta un mistero l’associazione della lenticchia al buon augurio che, ricordiamo, consiste nel mangiare un cucchiaio di lenticchie appena prima di mezzanotte di San Silvestro ed esse devono essere senza olio altrimenti il denaro arriva ma scivola via.

Un mistero che dal lato della lenticchia non riusciremo mai a dipanare, al massimo potremmo aggiungere la nostra voce a che la fa risalire al “potere della parola.”

La particolare assonanza che, in antico greco, lega la malasorte (kakôs) con la lenticchia (phakôs), potrebbe indurre alla sostituzione di parole e con essa anche quella del destino? E perché no? In fondo tutte le formule magiche son fatte di parole …

Debole però, molto debole, quasi quanto l’usanza romana di regalare un sacchettino con la lenticchia dentro. Anche meno diffusa del mettere in tasca alcuni grani di frumento …

Proviamo a prendere il filo dal capo opposto nel tentativo di dipanare la matassa.

E dunque il Capodanno, secondo il calendario gregoriano, cade il primo giorno di Gennaio. Praticamente tutti i paesi che hanno questo calendario ne condividono l’evento. A questa data proveremo a limitare l’analisi visto che cambiando i tempi e i giorni nessuna tradizione può accomunarsi, ad esempio con gli ortodossi che, utilizzando il calendario Giuliano, fanno cadere il principio dell’anno a quello che per noi è il 14 gennaio e tanto meno al capodanno Ebraico, Islamico, Indù o Cinese.

La nostra ricerca dovrà dipanarsi nei meandri dei paesi che utilizzano il calendario Gregoriano e, ancor di più, nelle italiche regioni.

In primis esaminiamo il caso del calendario Giuliano che assegnava il primo mese dell’anno a Ianus, Giano bifronte. Questo calendario, elaborato da Sosigene di Alessandria, entrò in vigore nel 46 a.c. e sostituisce il calendario di Romolo per il quale si partiva da Marzo.

Per molti anni regnò la confusione e si dovettero aggiungere e togliere giorni e mesi per raccordare la misura. Non sappiamo con precisione quali fossero i giorni che coincidevano con il trapasso dell’anno, in realtà essi venivano decisi secondo esigenze politiche.

Sappiamo di certo due cose: che le festività del mondo europeo occidentale (compresi quindi i Druidi) potevano essere di Sabatt (legate ai cicli del sole) o di Esbat (legate ai cicli della luna).

Di certo i druidi, nel VII secolo d.c., erano usi festeggiare il cambio dell’anno. Ma Sant’Eligio li fustigò severamente con una specie di bolla, e allora le bolle dei santi facevano male assai, e i poveri druidi delle Fiandre dovettero metter fine alle loro sguaiate libagioni nelle quali, magari, potevano comparire le lenticchie.

Si stabilizza dunque il calendario Giuliano e cominciano ad esistere in maniera stabile il 31 di dicembre e il primo di gennaio. Nonostante la “parva superstitio” fosse diventata religione di stato grazie all’Imperatore Costantino, continuano a sopravvivere i riti pagani. E le festività del 31 dicembre e del primo gennaio appartengono tutte alla Esbat. In particolare il 31 dicembre si festeggia Artemide (dea della caccia) e, per l’appunto, la festa dei Sidhe (Popolo fatato). I Sidhe dovrebbero situarsi in Irlanda (poco o nulla a che vedere con la lenticchia) e Artemide proteggeva la caccia, il tiro con l’arco e la verginità … di lenticchie nulla ne sapeva.

Proseguendo nella storia finalmente Gregorio Magno corregge il calendario e lo fa diventare un po’ più normale, entra in vigore il 15 ottobre 1582 saltando undici giorni e funziona solo in alcuni paesi secondo la divisione di quel tempo.

In realtà anche allora ognuno faceva un po’ a modo suo, ad esempio fino al XVIII secolo in Inghilterra ed in Irlanda capodanno era il 25 marzo (e questo anche a Pisa prima e Firenze poi), nella Repubblica di Venezia fino a che è esistita (1797) capodanno era il primo marzo e nelle Puglie, Calabria e Sardegna il primo settembre.

Data il 1691, con Innocenzo XII la bolla papale che stabilisce come principio dell’anno il 1° gennaio, giorno della Circoncisione di Gesù Bambino.

Anche dopo son cambiate molte volte le cose, ad esempio con la Rivoluzione Francese e il Calendario Repubblicano oppure con il calendario fascista che definì il capodanno il 28 ottobre.

Difficile definire tradizioni per un giorno quando il giorno balla così frequentemente.

Non ci aiuta nemmeno il calendario a trovare il principio di questa usanza, il suo asset beneaugurale, la “tradizione” festaiola.

Provare allora con zampone o cotechino dei quali la lenticchia è inseparabile compagna secondo il credo comune.

Intanto richiamiamo la differenza tra zampone e cotechino: entrambi di residui di lavorazione del maiale con i quali, nel primo caso si riempie la zampa del suino e nel secondo le budella.

Il racconto vuole che beccai, lardaroli e salsicciari in quel di Modena fossero gli unici abilitati alla preparazione del cotechino. La corporazione dei suddetti data il 1547 (e cotechino e lenticchia prima non potevano abbinarsi) tuttavia il primo documento concreto nel quale si menziona il cotechino è un “calmiere” (elenco dei prezzi per il pubblico) del 1745. Il cotechino diventa famoso in quanto ricetta n. 322 del celeberrimo ” La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene “ nota come “cotechino fasciato”, (nemmeno l’ombra di una lenticchia).

Allora sarà lo zampone la causa di tutto?

In un paese dai mille mestieri capita che esista o sia esistito (non ho notizie dello status attuale) anche un illustre “mutinologo”: Marco Cesare Nannini. Un “mutinologo” non è altro che un esperto di Mutina, nome con il quale i romani indicavano Modena.

Ad esempio un esperto di Lecce si chiamerebbe lupiologo, e quello di Nardò neretologo.

Marco Cesare Nannini ci racconta che dal primo gennaio 1511 Mirandola, alleata fedele della Francia, è assediata dalle truppe di Papa Giulio II della Rovere (il Papa messaggero di pace è una invenzione molto recente). A Mirandola, in quel tempo, abitava il famoso Giovanni Pico: un geniaccio come è noto.

I mirandolesi sono alla fame e hanno solo i maiali (ma non i frigoriferi), macellarli senza poterli consumare significava semplicemente lasciarli marcire, lasciarli vivi significava consegnarli al nemico.

Il buon Pico (della Mirandola) nonostante l’ingegno non riuscì a venirne a capo. Ci riuscì invece uno dei suoi cuochi che propose di insaccare la carne non consumata nelle zampe del maiale …

Nacque lo “zampino” che poi divenne “zampone” quando i maiali si usarono più grossi e nacque sotto cattiva stella: il 20 gennaio Mirandola capitolava e gli zamponi se li gustarono i papalini, gratis e, sembra, senza alcuna lenticchia.

Lo zampone ritrova traccia in cucina ne “L’economia del cittadino in villa” di Vincenzo Tanara (1667) e, successivamente, con Maria Luigia di Parma il cui cuoco era Vincenzo Agnoletti il quale definisce la mistura del ripieno dello zampone. Ma non l’accompagnamento delle lenticchie.

Singolare che dell’insaccato in budella si abbia traccia nella tebaide e però sia documentato prima quello in pelle …

Come è e come non è, anche qui di lenticchia non abbiamo traccia alcuna.

Eppure se sfogliamo le millanta riviste e i milioni di pagine elettroniche troveremo che tutti dichiarano seraficamente che il classico dei classici nel menù di capodanno è lo zampone (o il cotechino) con la lenticchia. Ma da quando s’è classicizzato?

Non sono in grado di dire chi sia il buontempone che ha propalato questa ricetta fino a farla diventare ”tradizione”, certamente gli emiliani sono dei maghi del marketing e grazie a questa para-tradizione ne hanno vendute di zampe anteriori di maiali e di resti della lavorazione dei medesimi, e a caro prezzo.

Magari mi sarà sfuggito qualcosa, ma, in conclusione mi sembra di poter affermare che l’unica buona ragione per consumare zampone (o cotechino) e lenticchie è semplicemente perché sono buoni, la sorte non c’entra un bel niente.

La superstizione è una panzana in generale, in questo caso è una panzana colossale.

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Un commento a Il mistero della lenticchia “porta ricchezza”

  1. Dopo essermi complimentato con l’autore per la dovizia delle fonti citate e dopo aver precisato che “polenta” non è affatto parola composta da “puls”=farinata+”lentis”=lenticchia (anche se nei comuni vocabolari di latino “puls” viene impropriamente tradotto con “polenta, farinata di grano e di fave” ; proprio quell’iniziale e sintetico “polenta” è fuorviante) ma parola direttamente connessa con “puls” incrociato con “pollen”=fior di farina, polvere”, mosso dal sospetto che in questo caso, come in tanti altri, la questione sia meno complicata di quanto si pensi, formulo l’ipotesi che la lenticchia sia simbolo di fortuna solo perché la sua forma ricorda quella di una monetina. È un’ipotesi materialistica e cinica, ma connessa con la natura dell’uomo per il quale, inutile girarci attorno, la fortuna, ieri come oggi, in prima battuta si identifica con la ricchezza. In quest’ambito ricordo che “pisieddhi” (piselli) è usato metaforicamente nel senso di denaro, non credo per la loro dolcezza rispetto ad altri legumi ma per la loro forma che ricorda le perle.

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