di Armando Polito
Sul vino, anche come espressione culturale in cui molteplici sono le intersezioni tra medicina, religione, filosofia e, addirittura, politica, l’inchiostro è scorso a fiumi e, sembrerà strano, non ho nulla da obiettare e, tra l’altro, invidio chi, pur non essendo un sommelier, è in grado di distinguere di un vino perfino l’annata (naturalmente senza averla letta prima sull’etichetta …); mi dà solo un leggero fastidio (lo stesso che provo quando leggo una di quelle recensioni in cui con parole altisonanti si tenta, per me con effetti grotteschi, di complicare ciò che è di suo divinamente semplice) l’atteggiamento artatamente ieratico che sovente accompagna la definizione di un vino. Forse dipende dalla mia, a tratti, animalesca rozzezza e non raffinata sensibilità, quella stessa che oggi mi ispira a scrivere queste poche righe.
Bere bene per bere meglio è lo slogan da qualche anno opportunamente usato tra l’altro anche per la promozione di un prodotto di cui il nostro Salento è, diventato giustamente, anche se in ritardo, leader mondiale. Il consiglio, però, per quanto banale, non è originale, nel senso che ricalca un pensiero molto antico sul quale dirò qualcosa dopo essermi soffermato, e ti pareva!, sulle etimologie.
Vino è dal latino vinu(m), a sua volta connesso col greco οἶνος (òinos, prima della caduta del digamma iniziale era vòinos) da cui eno– primo componente di molti derivati. La voce dialettale neretina mièru è dal latino meru(m)=vino schietto, neutro sostantivato dell’aggettivo merus/a/um=puro.
Per gli intenditori oggi sarebbe un’eresia gustare un vino annacquato, ma questa era la regola per il mondo classico. È giunto il momento di riportarne alcune significative testimonianze (per brevità, questa volta, riporto solo la mia traduzione).
Partiamo da lontano, cioè dal mio riassunto del mito così come ci è stato tramandato nelle Dionisiache di Nonno di Palopoli (autore greco del V secolo d. C., che, però, si serve quasi certamente di una tradizione precedente): Ampelo (non a caso ἄμπελος è il nome greco della vite), bellissimo satiro amante di Dioniso, muore presso il fiume Pattolo a causa di un toro inferocito scagliatogli contro da Ate, la dea della morte. Giove ha pietà del dolore di Dioniso ed accorda una seconda vita ad Ampolo che rinasce nelle sembianze di una vigna, dalla cui vendemmia Dioniso ricava il primo vino della storia.
Per il mondo greco classico ecco la tripletta Socrate>Platone>Aristotele in cui il simbolo >non ha solo il significato di “poi” ma anche “maestro di”. È più che noto che di Socrate non ci è rimasto nulla di scritto, ma che il suo pensiero lo possiamo ricavare dagli scritti del suo allievo Platone (V-IV secolo a. C.). E mi piace iniziare con un brano (406 c1) del Cratilo in cui Platone ci presenta un simpaticissimo Socrate che ironicamente si esibisce in una scherzosa etimologia del nome del dio greco del vino, Dioniso e del nome greco del vino stesso, mediante un gioco di parole:
“ERMOGENE: -E che dire poi di Dionysos e di Aphrodite?-. SOCRATE: -Sono difficili le domande che mi poni, figlio di Ipponico. Infatti l’etimo dei nomi per questi due dèi può essere espresso seriamente e scherzosamente. L’etimo serio chiedilo a qualcun altro; ma nulla impedisce di trattare di quello scherzoso, perché anche gli dei sono spiritosi. Dunque Dioniso nominato scherzosamente sarebbe “colui che dà il vino”, Didoinysos1, mentre il vino poi, poiché fa sì che parecchi di coloro che bevono abbiano senno mentre non ne hanno, potrebbe essere chiamato a buon diritto oionous2-.
Il Cratilo non è l’unico dialogo che contiene riferimenti al nostro argomento. Nel Simposio, 176a-d:“… dopo, essendosi Socrate sdraiato e avendo cenato lui e gli altri, essi fecero libagioni e dopo aver celebrato con canti il dio e assolto alle altre consuetudini, si diedero al bere. Poi Pausania diede inizio ad un discorso siffatto: -Bene, amici! Come bere senza tanti scrupoli? Io vi dico : – Via, amici, come s’ha a fare a bere che non s’affoghi?-. Per conto mio io vi dico chiaro e tondo che il mio stato non è dei migliori dopo la bevuta di ieri e che ho bisogno di una pausa. Così credo che sia pure per molti di voi poiché ieri c’eravate. Guardate dunque come dovremmo bere responsabilmente. Allora Aristofane disse: -Dici certamente bene, o Pausania, che in ogni modo si cerchi una pausa nel bere, poiché anche io faccio parte di quelli che ieri sono affondati (nel vino)-. Erissimaco, figlio di Acumeno, avendolo sentito disse: -Parli certamente bene ma ho bisogno di sapere da voi ancora una cosa, come Agatone sta quanto a voglia di bere-. -Non ne ho- rispose -neppure io sto bene-. E l’altro: -Sarebbe una fortuna per noi, come sembra, per me, per Aristodemo, per Fedro e per questi altri se voi, i più forti nel bere, ora vi tiraste indietro: noi infatti siamo sempre stati debolucci. Escludo dal mio discorso Socrate: infatti egli può abusare o fare a meno del bere, sicché comunque facciamo ci sarà d’aiuto. Poiché dunque mi sembra che nessuno dei presenti sia ben disposto a bere molto vino forse sarei poco spiacevole se dicessi qual è la verità sull’ubriachezza. Io credo questo, che è chiaro dalla medicina che l’ubriachezza è pericolosa per gli uomini; e né io stesso vorrei bere oltre né lo consiglierei ad un altro, anche se non soffrisse ancora i postumi della sbornia di ieri-. Disse, prendendo la parola, Fedro di Mirrinunte: -Io sono abituato a crederti, anche quando non parli di medicina; ora anche gli altri, se hanno giudizio-. Dopo aver udito ciò tutti convennero di evitare l’ubriachezza per quella volta, ma di bere così per il piacere”.
È una condanna senza appello e un invito alla moderazione, la sola che può fare del vino un piacere e non un pericoloso vizio, sicché Socrate, che qui compare defilato e che dalle parole dei commensali potrebbe essere semplicisticamente considerato un’autentica spugna, in realtà è il modello di colui che riesce a restare sempre padrone di se stesso perché conosce i propri limiti e ha la forza di non superarli.
Questo pensiero trova più ampio sviluppo in Leggi dove (I, 636e-637b) lo spartano Megillo così si rivolge ad un anonimo (ma non è difficile identificarlo con Socrate) ateniese : “-… mi sembra giusto che a Sparta il legislatore prescriva di evitare i piaceri; quanto alle leggi di Cnosso egli4, se vorrà, le difenderà. Mi sembra che a Sparta ci siano le più belle leggi umane in materia di piaceri; gli uomini infatti non cadono minimamente vittime neppure dei piaceri più grandi, dell’insolenza e di ogni tipo di stoltezza; questo bandisce la nostra legge da tutto il territorio e non ti potrebbe capitare di vedere per i campi né nelle città che sono sotto il controllo degli Spartani simposi né tutto ciò che ad essi accompagnandosi spinge il piacere alla sfrenatezza; e non c’è nessuno che non rivolga subito un grandissimo rimprovero a chi fa baldoria a causa dell’ubriachezza, neppure se accampasse a pretesto le feste in onore di Dioniso, come talora io ho visto succedere sui carri presso di voi e a Taranto presso i nostri coloni ho visto l’intera città in preda all’ubriachezza nel corso delle feste in onore di Dioniso; da noi non c’è niente di tutto questo-“.
Nel corso del dibattito l’Ateniese dimostrerà il carattere ambiguo del vino, cioè la sua capacità di aggregare idee e sentimenti liberi da ipocrisie, inibizioni e falsi pudori, cioè di generare un piacere che non fa male né a se stessi né agli altri, come pure di obnubilare la coscienza, il che non solo preclude la fruizione di un piacere, qualsiasi esso sia, ma crea un danno a se stessi e agli altri. Verrà così ribadito il concetto della misura e dell’autocontrollo strettamente legato a quello della consapevolezza dei propri limiti, anche nell’assimilazione dell’alcool5. Estremamente interessante è, poi, l’idea microcosmica del simposio retto dall’autocontrollo di ciascuno (a partire da chi ne è, in un certo senso, il capo detto simposiarca), che diventa metafora macrocosmica della corretta organizzazione politica della società.
Aristotele dedica all’argomento ampio spazio nella terza sezione dei Problemata, in cui si pone trentacinque domande e dà altrettante risposte sul meccanismo di parecchi effetti dell’ubriachezza (dalla visione sdoppiata al mal di testa, dalla minzione intensificata all’impotenza). La riflessione più interessante, anche per i suoi risvolti giuridici per quella che, volendo inventare un’attenuante, può essere considerata responsabilità parzialmente diretta, mi pare però quella contenuta nel capitolo V del terzo libro dell’Etica Nicomachea: “(I legislatori) puniscono per l’ignoranza stessa quando ritengono che uno sia causa della propria ignoranza; per esempio, per gli ubriachi le pene sono doppie, giacché l’origine dell’atto è in colui stesso che lo compie: infatti egli è padrone di non ubriacarsi, ma l’ubriachezza, poi, è la causa della sua ignoranza”.
Dopo duemila anni i reati provocati dalla guida in stato d’ebbrezza o in preda all’azione di stupefacenti attendono ancora di essere adeguatamente sanciti …
Ne approfitto per dichiarare pure che, a mio parere, legata allo stereotipico binomio genio-sregolatezza e quanto meno discutibile sia l’opinione di coloro che credono che l’assunzione di certe sostanze stimoli la creatività artistica6. Io credo che il genio, comunque, è per definizione “sregolato”, ma nel senso che è lui l’inventore di nuove regole o l’innovatore parziale o totale delle vecchie; e per fare questo, se si è veramente geniali, basta, sempre secondo me, il cervello che la natura ci ha dato insieme con la capacità e la volontà di mantenerlo sempre in allenamento, altrimenti anche la più sublime opera d’arte non è dissimile dal record dell’atleta dopato, cioè fasulla e truffaldina. E nessuno si è mai chiesto se qualche capolavoro creato in condizioni artificiose documentate non sarebbe potuto essere ancor più capolavoro se l’artista non fosse ricorso all’aiutino?
Continuando la nostra carrellata, una vera e propria antologia di opinioni disparate e sovente contrastanti sul vino è ne I deipnosofisti di Ateneo di Naucrati (II-III secolo d. C.). Dato il numero veramente elevato, ne riporto solo le più significative: “Filocoro scrive che Anfizione re degli Ateniesi, avendo appreso da Bacco il modo di temperare il vino, per primo lo diluì e perciò chi aveva bevuto il vino così miscelato camminava correttamente, mentre gli altri procedevano barcollanti. Per questo beneficio innalzò a Bacco Retto un altare nel tempio delle Ore poiché le Ore nutrono il frutto della vite. E vicino a quell’altare ne eresse un altro per le Ninfe, monito per i bevitori che il vino dev’essere temperato poiché si tramanda che le Ninfe furono le nutrici di Bacco. Inoltre promulgò una legge che dichiarava la quantità di vino che poteva essere servita con i cibi per la degustazione, poi che si poteva bere a volontà il vino temperato ma invocando prima il nome di Giove Salvatore, affinché i bevitori ricordassero che chi avesse bevuto seguendo queste regole non poteva essere in alcun modo incriminato”; “Filocoro dice che non solo coloro che bevono rivelano quel che veramente sono ma che con la loro libera e ingenua conversazione mostrano pure di che pasta sono fatti gli altri; perciò il vino è detto anche verità. Teognide: Gli esperti saggiano col fuoco l’oro e l’argento; ma la mente degli uomini è svelata dal vino”.
Dunque il vecchio proverbio Ἐν οἴνῳ ἀλήθεια (nel vino verità) avrebbe la sua paternità in Teognide (VI-V secolo a. C.) citato da Filocoro (IV-III secolo a. C.), a sua volta citato cinque secoli dopo da Ateneo! E con Ateneo continuiamo a fare un pezzo di strada.
“Paniasi: -Per gli uomini che abitano le terre pari è l’utilità del fuoco e del vino. Usato contro tutti i fastidi il vino è un ottimo rimedio. Per un ottimo simposio occorre una parte di vino, una di danza in coro, una di amabile compagnia: perciò nei banchetti conviene che tu lo beva con animo ben disposto e che non ti metta a sedere come fa un bambino quando è sazio e il cibo ritorna alla gola, dimentico degli obblighi di cortesia”; e più avanti: “-Il vino è un ottimo e magnifico dono degli dei ai mortali: col vino si accorda qualsiasi canto, qualsiasi danza, ogni amabile benevolenza; il vino cancella dal cuore degli uomini tutti gli affanni, se è bevuto in modica quantità; bevuto oltre misura è dannoso-”; “Eubolo -Il vino oscura la nostra prudenza-”; “Anfide -È probabile che la razionalità risieda nel vino: coloro che bevono acqua sono stupidi e fatui-”; “Antifane: -Il vino dev’essere scacciato col vino-”.
Gli autori citati da Ateneo e sopra riportati (ad eccezione di Filocoro che era uno storico e di Paniasi che era un poeta epico) sono tutti poeti comici e questo spiega il carattere provocatorio (se agli scritti fossero seguiti i fatti potremmo parlare di “poeti maledetti” ante litteram) delle loro affermazioni se le contrapponiamo alle posizioni filosofiche riportate all’inizio. D’altra parte pure nella produzione tragica non mancano personaggi che cercano nel vino l’oblio della propria infelice condizione, ma qui si tratta di un espediente congeniale allo sviluppo dell’azione.
Chiudo la carrellata degli autori greci facendo come oggi è di moda, ma qui solo cronologicamente, un passo indietro con quattro poeti lirici che celebrano l’ambiguità del vino anticipando di secoli (magia della poesia …) la trattazione filosofica del tema.
Archiloco (VII secolo a. C.): “Fra le aste c’è per me la farina impastata, fra le aste c’è per me il vino,/d’Ismara e all’asta mi appoggio mentre bevo.”; “Su col boccale tra i banchi dell’agile nave/e stappa il concavo barile!/Spilla il vino rosso; neppure noi/possiamo far la guardia senza bere.”; “Perché io so bene dare inizio/al ditirambo,/il bel canto di Dioniso signore,/folgorato nella mente dal vino.”
Alceo (VII-VI secolo): “Dobbiamo ubriacarci oltre ogni limite:/ il tiranno Mirsilo è morto.”; “Non bisogna consentire/che il dolore si impadronisca dell’animo/perché il dolore non dà nulla di utile;/va versato il vino perché l’ebrezza è il miglior rimedio.”; “Sta piovendo a dirotto e la tempesta/infuria nel cielo, si gonfiano i fiumi:/supera i disagi della stagione/mettendo molta legna/ al fuoco/e bevendo allegramente vino a volontà.”; “Irrori il vino entrambi i polmoni,/beviamo: il sole sta salendo;/ogni cosa ha sete per l’infuocata stagione.”; “Quando giunge la primavera/il suo rigoglio/è un invito al piacere:mescetemi dolce vino.”; “Il vino è per gli uomini uno specchio:/vino, caro fanciullo, e verità.”; “Salute e bevi/, bevi con noi!”.
Focilide (VI secolo a. C.): “Nel simposio conviene quando girano i calici/sedersi a parlare di cose allegre e tracannare il vino”.
Teognide (VI-V secolo a. C.) è certamente, almeno secondo me, tra i lirici quello che più si è soffermato sul tema senza, tuttavia, incorrere nel rischio del banale o del ripetitivo: “Bere molto vino fa male, ma se uno lo beve/da saggio gli fa bene.”; “Non posso bere vino perché con la mia dolce fanciulla/giace un uomo di gran lunga peggiore di me./Glielo hanno dato a dormirle accanto freddo i genitori/e lei porta l’anfora dell’acqua dalla sorgente e rimpiange me./Qui le ho stretto la vita col braccio e le ho baciato il collo/ed essa mi ha parlato dolcemente.”; “Bevo, ma non fino ad ubriacarmi; così il vino non mi spinge a dire cose spiacevoli su di te”; “Non succede ogni notte di fare baldoria./Io tra l’altro, che bevo il dolce vino nella giusta misura/, penso al piacere del sonno e andrò a casa./Mostrerò che il vino è piacevole a bersi quando io/, non essendo più sano, non sono ubriaco./Ma coloro che bevono come spugne non sono/più padroni della propria mente e della propria lingua/e dicono cose sconsiderate che ai sobri sembrano turpi e nulla,/preso dal vino, si vergogna di fare./ Mentre prima era saggio, ora è stolto: ma tu, conoscendo ciò,/non bere il vino in misura eccessiva/o allontanati prima di essere ubriaco perché non abbia ad emettere dalla gola grida/come giornalmente si fa con un servo colpevole, o, se resti, non bere. Invece tu hai sulle labbra sempre un “versa!”/, parola stupida che ti fa ubriacare,/ poiché un bicchiere si leva all’amicizia, un altro è già pronto,/da uno bevi in onore dei numi, ne tieni un altro in mano/e non sai dir di no./ È veramente un vincitore/chi si scola molti bicchieri e non dice sciocchezze./Ora dunque abbandonatevi ad una piacevole conversazione stando vicini al cratere/ma lontani da risse e provocazioni,/cantando tutti insieme in accordo:/così il simposio diviene giocondo.”; ”Onomacrito, mi gira la testa e il vino mi spinge/a non essere più padrone della mia lingua./Tutta la casa mi giro intorno, ma voglio provare/ad alzarmi, purché il vino non faccia effetto sui miei piedi/ oltre che sulla mia mente. Ho paura di fare/ubriaco qualche sciocchezza di cui dopo mi debba vergognare”; “È vergognoso per un ubriaco stare in mezzo a sobri, ma è vergognoso pure per il sobrio stare tra ubriachi”; “Del vino mi piace tutto, meno il fatto/che mi eccita a scagliarmi contro mi sta sulle scatole”; “Quando ti sembra di vedere sopra ciò che sta sotto/allora è giunto il momento di andare a casa smettendo di bere.”; “Bevi questo vino che sotto le cime del Taigeto/producono per me le viti che aveva piantato il vecchio/nelle balze del monte Teotimo caro agli dei e condusse lì/le fresche acque dal Platanisto. Bevendolo allontanerai ogni preoccupazione/ed ebbro ti sentirai molto più lieve”; Bevi quando gli altri bevono/e quando qualche preoccupazione ti tormenta il cuore/, perché nessun uomo sappia che stai soffrendo”; “Per ora svuotiamo allegramente i bicchieri/e facciamo a gara a motteggiare./Al futuro devono pensare gli dei.”; “Io bevo e così non penso alla povertà che mi tormenta/e ai nemici che parlano male di me./Ma continuo a tormentarmi per l’amabile giovinezza che vola via/e piango la vecchiaia in cui ho già un piede.”
Termina qui, con questa nota di funerea suspence, a mo’ di telenovela o di fiction di ultima generazione, questa prima parte; mi auguro solo che l’audience della seconda registri una punta più elevata …
Per la seconda parte:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/20/lu-mieru-il-vino-22/
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1 Διδοίνυσος è una fantasiosa creazione composta dal verbo δίδωμι=dare+il sostantivo οἶνος=vino.
2 Οἰόνους è come il precedente Διδοίνυσος voce inventata mettendo insieme οἶος=solo+νοῦς=senno.
3 Feste in onore di Dioniso, nel corso delle quali c’è da immaginarsi che non si bevesse acqua …
4 Si tratta di un altro interlocutore di nazionalità cretese.
5 Ultimamente in questo e pure in quel social network è in corso tra gli iscritti una gara a chi rende pubblico un pensiero tratto dagli scritti più svariati dei più svariati autori (e non sempre del padre di quel pensiero si cita il nome …). Ciò che non si sa è che quello stesso concetto, che riteniamo originale, è vecchio di millenni per un motivo semplicissimo: è frutto di quel buon senso che noi sembriamo aver perso.
6 Anche questo concetto non è nuovo. Basta leggere più avanti il frammento in cui Alceo parla del suo rapporto col ditirambo e col vino.