Di origini napoletane ma gallipolino d’adozione
EPAMINONDA VALENTINO
di Rino Duma
Epaminonda Valentino è da considerare uno tra i più determinati e attivi perasonaggi del Risorgimento salentino. Epaminonda (chiamato Mino dai familiari e amici) nacque a Napoli il 3 aprile 1810 da Vito, consigliere d’Intendenza di Napoli e da Maria Cristina Chiarizia, i cui familiari parteciparono ai sommovimenti che precedettero la Repubblica Partenopea del 1799.
La famiglia Valentino si trasferì ben presto a Gallipoli per motivi di lavoro. Il padre Vito, essendo molto facoltoso, acquistò il palazzo Doxi-Stracca (oggi palazzo Fontana, in Via Micetti) e il casino di campagna Stracca, a poca distanza da Villa Picciotti (l’attuale Alezio).
Il ragazzo crebbe in una famiglia di spiccate idee liberali, cosicché, sin dall’infanzia, fu influenzato notevolmente nella sua formazione culturale e spirituale. Da giovane studente frequentò scuole tra le più famose del napoletano e del Salento, in cui insegnavano i migliori educatori, che contribuirono ancor di più a fortificargli l’idea repubblicana. Aveva in odio il sovrano Ferdinando I di Borbone, il quale, rimpossessatosi del Regno di Napoli, dopo il periodo di occupazione francese, si lasciò andare a una repressione spietata nei confronti dei liberali e, soprattutto, dei giacobini.
Sin da giovane, entrò a far parte dei movimenti settari napoletani, e, forse anche, si iscrisse alla setta carbonara gallipolina “L’Utica del Salento”, capeggiata dai fratelli Antonio e Gregorio de Pace. Questa setta, mitigata negli atteggiamenti politici, era antagonista di un’altra setta cittadina “L’Asilo dell’Onestà”, molto più attivista e intransigente, i cui aderenti si macchiarono di alcuni omicidi nei confronti di gallipolini “Calderari”, fedeli al sovrano.
Con ogni probabilità, frequentando la setta carbonica, ebbe la possibilità di conoscere Rosa de Pace, figlia di Gregorio e sorella della più famosa Antonietta, con la quale stabilì, sin dal 1830, un rapporto sentimentale segreto (Rosa aveva all’epoca solo quindici anni). Qualche anno dopo (1836) i due decisero di convivere, anche perché la sua compagna era rimasta incinta. Nel mese di settembre di quello stesso anno nacque il figlio Francesco, che morirà nell’estate del 1866, all’età di trent’anni, nella battaglia di Bezzecca, al seguito di Garibaldi, nella terza guerra d’indipendenza. Non essendo ancora sposati, al figlio fu assegnato momentaneamente il cognome di Onorati e solo dopo il loro matrimonio, avvenuto nel 1838, gli fu attribuito il cognome del padre. Nel 1841 nacque la secondogenita Laura.
A cavallo degli anni ’30 e ’40, la coppia risedette ora a Napoli ora a Gallipoli, per via dell’attività commerciale dell’uomo, ma soprattutto per la sua intensa attività politica.
Epaminonda tesseva le relazioni tra i repubblicani salentini e quelli napoletani, rischiando il più delle volte di essere arrestato dalla gendarmeria borbonica, perché in possesso di documenti molto compromettenti. Il giovane repubblicano si spostava in continuazione da Napoli verso le varie città salentine e da queste ritornava nella capitale per tenere vivi e costanti i contatti tra gli affiliati.
Ben presto s’iscrisse alla “Giovine Italia” napoletana e divenne personaggio di spicco, insieme al tarantino Nicola Mignogna, al leccese Giuseppe Libertini e ai concittadini Bonaventura Mazzarella, Francesco Patitari ed Emanuele Barba, tre eminenti personaggi gallipolini, insieme ai quali costituì una sezione cittadina legata al movimento mazziniano.
In questa importante opera di “tessitura politica” fu aiutato dalla cognata Antonietta de Pace, che salirà alla ribalta della cronaca per l’intraprendenza e il coraggio evidenziati durante la sommossa napoletana del 15 maggio 1848 sulle barricate di Via Toledo e in occasione del processo contro di lei intentato e dal quale si salvò grazie ad un verdetto “pari” dei giudici napoletani.
Epaminonda e Antonietta formarono un binomio importantissimo nella lotta antiborbonica, tanto che ogni operazione politica era vagliata dai due, prima della necessaria autorizzazione a procedere.
Per l’intensa attività politica, la polizia borbonica aveva incluso nella lista delle persone “attendibili” di Gallipoli Epaminonda, insieme a Stanislao de Pace (zio di Antonietta) e ai fratelli Francesco e Giuseppe Patitari.
Nonostante tutto, Epaminonda fu proposto, in alcune circostanze, come il più “desiderato” a occupare la carica di sindaco della città: una prima volta nell’agosto del 1838, una seconda nel luglio del 1842. In entrambi i casi il suo nominativo fu categoricamente scartato dall’Intendente cittadino.
Sebbene ci fosse stato il netto rifiuto dell’autorità borbonica, nell’agosto del 1844, il Decurionato di Gallipoli ripropose il suo nome alla prima carica cittadina. Il Valentino, convinto che l’Intendente avrebbe rifiutato ancora una volta la sua nomina, scrisse a costui un’ampia e dettagliata lettera, in cui esponeva le ragioni della rinuncia, addebitandole ai numerosi impegni di vita e alle sue non perfette condizioni di salute. L’Intendente inviò la lettera al Decurionato perché ne prendesse atto e presentasse, in sua vece, un altro nominativo. Il massimo collegio cittadino, riunitosi il 1 ottobre di quell’anno, invalidò le motivazioni addotte dal Valentino, sicché ripropose all’Intendente la sua candidatura, ma, ancora una volta, da questi fu rigettata. Anche nel 1845 Epaminonda ebbe un’ulteriore bocciatura in occasione del suo ingresso nel Consiglio Provinciale.
Nel 1848, subito dopo la concessione della tanto agognata Costituzione da parte di re Ferdinando II, Epaminonda, insieme ad Antonietta, Bonaventura, Emanuele, Giuseppe Libertini, Achille dell’Antoglietta, Luigi Settembrini e Nicola Mignogna, combatterono eroicamente sulle barricate a Napoli, dopo che re Ferdinando II s’era rifiutato di apportare alcune modifiche alla appena nata Costituzione. La guerriglia tra la Guardia Nazionale (a difesa dei Liberali) e la polizia borbonica fu impari. In poco meno di un’ora furono spazzate via le barricate a colpi di cannone e sulle strade rimasero i corpi esanimi di quasi mille rivoluzionari.
Dopo lunghe peripezie, i nostri gallipolini ritornarono nel Salento e costituirono un comitato d’azione in difesa della Costituzione, momentaneamente sospesa dal sovrano.
In tutta la Terra d’Otranto ci furono grandi manifestazioni di piazza che portarono alla destituzione delle autorità locali, nei confronti delle quali non fu però torto un solo capello. Fu armata sufficientemente la Guardia Nazionale che soppiantò la polizia borbonica, alla quale fu tolto ogni tipo di arma per neutralizzare una potenziale reazione.
Epaminonda e Bonaventura, insieme a Sigismondo Castromediano, costituirono a Lecce il Circolo Patriottico Provinciale, cui seguì la nascita, in quasi tutti i paesi del Salento, dei circoli patriottici cittadini. In pochi giorni l’intero Salento era pronto a reggere un eventuale urto delle forze borboniche che da Napoli si muovevano verso le terre in agitazione.
L’euforia era tanta ma la paura di essere attaccati dall’esercito borbonico cresceva in ogni salentino con il trascorrere dei giorni. La resistenza, che prima era compatta e determinata, ora iniziava a scricchiolare, soprattutto per le notizie che provenivano da Napoli attraverso la stampa. Un esercito di ventimila uomini (era di soli quattromila) e una flotta di navi da guerra muovevano verso la Calabria e la Puglia. I liberali moderati (erano in tanti) che facevano parte dei vari Circoli Patriottici decisero di rinunciare alla rischiosa impresa, anche perché erano stati sobillati dalle autorità borboniche esautorate. Epaminonda e Antonietta si recarono in diverse città salentine per mantenere alta la tensione e unita la resistenza. Ma ogni cosa fu inutile.
Dopo alcuni mesi il Salento ritornò nelle mani dei Borbone.
Epaminonda, Bonaventura, Sigismondo e tanti altri eroi della resistenza furono ricercati e alcuni incarcerati. Bonaventura fuggì a Corfù, Sigismondo fu arrestato non opponendo alcuna resistenza, Epaminonda si diede alla macchia.
Anche durante questo periodo il Valentino continuò nell’opera di riorganizzazione della resistenza. Purtroppo, tradito dall’Eletto di San Nicola, Giuseppe Rajmondo, fu scovato nella sua stessa casina di Stracca e arrestato.
L’arresto di Epaminonda fu dovuto al caso. Infatti, avvertito per tempo dell’imminente arrivo della polizia, l’uomo, alquanto grassottello e malato di cuore, non potendo fuggire a cavallo insieme ai suoi amici, fu calato attraverso una stretta botola in un granaio, al di sopra del quale fu sistemato un grosso lastrone. All’arrivo dei gendarmi, la moglie Rosa, fortemente preoccupata, volgeva lo sguardo in continuazione verso il granaio. Il tenente borbonico, accortosi dello sguardo fisso della donna in quella direzione, decise di togliere il lastrone. Solo in questo modo fu scoperto il nascondiglio dell’uomo.
Tradotto nelle carceri leccesi dell’Udienza, umide e scarsamente arieggiate, Epaminonda cominciò a sentirsi poco bene. Nonostante le suppliche dei familiari e del medico militare, l’uomo fu tradotto insieme a Sigismondo e ad altri liberali arrestati, in una zona del carcere ancora più fatiscente, dove non filtrava un solo raggio di luce. L’uomo si aggravò sempre più e la notte del 30 settembre 1849, dopo aver chiesto invano “datemi aria… aria!”, spirò tra le braccia di Sigismondo.
Si concluse in questo modo orrendo la bella vita di Epaminonda Valentino: uomo coraggioso, fiero, amante della libertà e “figlio del vento”, come ebbe a definirlo qualche giorno dopo l’avv. Antonio d’Andrea, durante l’omelia tenuta nella chiesa di Gallipoli.
Il corpo di Epaminonda fu sepolto nel cimitero di Lecce, dove, molti anni dopo, fu tumulato anche quello del figlio Francesco.
N.B. Articolo pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per averne autorizzato la riedizione.
Bravo professore!
Sarebbe gradito un articolo su Gioacchino Maglietta da Marittima di Diso, molto amico di Epaminonda Valentino e cugino di Liborio Romano……..
se conosce qualcuno che ne ha scritto Le saremo molto grati se ce lo indicherà
Ne ha scritto il Prof. Salvatore Coppola di Diso e mons. Vittorio Boccadamo di Marittima, esiste inoltre un romanzo dal titolo “Ditemi di Epaminonda” pubblicato a Tricase. “Ditemi di Epaminonda” è la frase conclusiva di una lettera del Maglietta che scriveva ai familiari.