di Pino de Luca
“ … chisto non é migliaccio che se pozza spartire a fella, perzò è forza che ad uno tocca la fava della copeta e l’autre se pigliano lo palicco.”
(Lo cunto de li cunti, Giovan Battista Basile, 1636)
Come è d’uopo, i napoletani hanno metafore molto colorite. Il Re deva dare la figlia in sposa e i pretendenti sono cinque e allora spiega che Cianna, la figlia, non è una torta di semolino (migliaccio) che si possa dividere a fette (fella) e quindi uno si prende la “fava della copeta” e gli altri si prendono lo stuzzicadenti (palicco).
Ma cos’è la “fava della copeta”? Se si paragona alla principessa dev’essere la parte preziosa. Se consideriamo il baccello (ùngulu), la fava è la parte interna, quella più dolce e saporita. Ma ùngulu e copeta cosa hanno a che spartire? E la copeta, precisamente cosa è?
Cominciamo con la risposta semplice: ùngulu e copeta condividono la forma (allungata) e il fatto che hanno una parte esterna ed una interna. Nella copeta essa è costituita da mandorle o noci o nocciole o, per i più poveri, da “nùzzuli” (semi di albicocca ma non di “spergia” che quelli sono velenosi … ne riparleremo di questo) e l’esterno da zucchero, miele o vincotto.
La copeta altri non è che quella cosa che caratterizza ogni festa del sud e che si chiama torrone, croccante, copeta, cupeta, cubbaida, ecc.
Accade molte volte che i cibi viaggino sicché Cremona è, dicono, la patria del Torrone sol perché la prima forma con cui compare è quella del Torrazzo, torre campanaria del duecento. I francesi, a loro volta, indicano il torrone (panis turronis) come il pane di Tours (patria di San Martino e di Martino IV, relegato dal sommo poeta nel Purgatorio per la sua golosità. So che Martino IV è Martino II ma qui non stiamo a correggere Dante, o, meglio, i suoi esegeti.)
Per la verità negli archivi di Palermo c’è un atto notarile che riguarda un tale Federico che, di mestiere, faceva il “cubaydario” ovvero faceva la cubaita, assai probabilmente traduzione locale del dolce nordafricano da strada che si chiama “qubbat” ovvero madorlato. Questo documento è del 1287 …
Solo che … i romani avevano un vocabolo: “cupediae” che significa “ghiottonerie” e il “cuppedinarius” era il “venditore di ghiottonerie”. Ma nelle grandi pere culinarie latine la copeta non compare come ghiottoneria. Non ci resta che rassegnarci ad accettare l’origine nordafricana di questo dolce difficile da fare e difficile da mangiare. Se alla copeta ti approcci in modo aggressivo essa ti resiste, si oppone. Ma se la tieni in bocca dolcemente, si scalda, si scioglie e ti cede fragranze e sapori indimenticabili.
Perché di copeta ne esistono diverse varianti, ogni “cupetaru” ha le sue, chi aggiunge la scorza di agrume, chi i pinoli, chi i pistacchi, chi la cannella, di cupeta, i cui ingredienti principali sono le mandorle e il miele se ne possono fare millanta. Far qui ricette non é il caso tanto se non ci si esercita con qualcuno che la sa fare e insegna a “lavorarla sul marmo”, l’unica cosa che riuscireste a fare è quella di buttare tutto, anche i recipienti.
Sarebbe bello se nella calza della Befana qualcuno si fosse ricordato di metterci della “cupeta” …