Il moretum, salsa per tartine di duemila anni fa, antenato del pesto genovese?

di Armando Polito

Nella ricostruzione fotografica gli ingredienti e gli attrezzi per la preparazione del moretum come descritto nell’omonimo poemetto: formaggio, aneto, coriandolo, ruta, sedano, aglio, mortaio con pestello e oliera. Sulla parete il graffito (di mia invenzione …) POTENTES PEREANT. Simulus (Morte ai potenti! Simulo).
Nella ricostruzione fotografica gli ingredienti e gli attrezzi per la preparazione del moretum come descritto nell’omonimo poemetto: formaggio, aneto, coriandolo, ruta, sedano, aglio, mortaio con pestello e oliera. Sulla parete il graffito (di mia invenzione …) POTENTES PEREANT. Simulus (Morte ai potenti! Simulo).

 

E che ci azzecca il pesto genovese, direbbe qualcuno di comune conoscenza, con la cultura salentina? È vero, ma oggi sono costretto a fare riferimento a questa  salsa tipica a base di olio, basilico, aglio pinoli e pecorino o parmigiano per trattare del moretum. E che ci azzecca il moretum, direbbe lo stesso di prima, con la cultura salentina? Se è vero come è vero che ha ragione, questa volta, però, ce l’ha solo parzialmente perché il discorso sul moretum mi serve come preparazione ad un altro post (che tornerà a coinvolgere direttamente la cultura salentina) sul mandorlo e sul suo frutto. Lì a suo tempo (e sperando nella benevolenza della redazione …) il lettore troverà il riferimento al lavoro di oggi e capirà che non potevo includerlo, sia pure in nota, in quello che verrà senza renderlo eccessivamente lungo, nonostante abbia programmato la sua suddivisione in tre puntate (si salvi chi può …).

Per non far perdere ulteriore tempo lascio la parola direttamente agli autori antichi. A Virgilio (I secolo a. C.) fin dall’antichità fu dubitativamente attribuito un poemetto che reca, appunto, il titolo di Moretum. Lo riporterò integralmente perché è relativamente breve (122 esametri) e quasi interamente dedicato alla preparazione di questo piatto, ma soprattutto perché costituisce un quadretto di vita contadina non angustiata da spread, cassa integrazione, inquinamento, disonestà e corruzione dilaganti & C.: “Già la notte era durata dieci ore1 e l’alata sentinella2 col canto aveva annunziato il giorno, quando il contadino Simulo coltivatore di un piccolo campo, temendo il triste digiuno del giorno che viene, solleva a poco a poco le membra posate sul misero giaciglio e muovendo la mano tasta le inerti tenebre e cerca il fuoco che infine sente dopo che ne ha avvertito quasi scottandosi l’intenso calore. Del tronco bruciato restava un piccolo tizzone e la cenere nascondeva la luce alla brace coperta. Vi accosta, con la fronte china, la lucerna abbassata e spinge innanzi con un ago lo stoppino ormai arido e soffiando ripetutamente risveglia il fuoco languente. Finalmente riacceso, ma a stento, il fuoco, arretra, riparandolo dall’aria con la mano tesa di fronte e, vedendo a stento, apre con la chiave la porta. Vi era sparso in terra un piccolo mucchio di grano; da qui ne prende una quantità pari a sedici libbre. Si allontana da lì e si accosta alla macina e poggia la fida lucerna su una tavoletta che teneva fissa alla parete per quell’uso; a questo punto libera della veste ambe le braccia3 e cinto della pelle di villosa capra con la coda scopa le pietre e il fondo della macina. Chiama quindi le mani all’opera; la sinistra è intenta all’assistenza, la destra al lavoro. Questa si muove circolarmente spingendo in modo continuo (il grano scorre pestato dal rapido colpo delle pietre), frattanto la sinistra subentra alla stanca sorella e alterna i turni. Ora canta canzoni campagnole e con la rozza voce allevia la sua fatica; intanto chiama Scibale: era l’unica serva4, di razza africana, la cui figura tutta attestava il luogo d’origine, ricci i capelli, le labbra gonfie, la pelle nera, il petto abbondante e pendulo, il ventre stretto, le gambe esili, spaziose le abbondanti piante dei piedi. La chiama e le ordina di mettere legna da ardere sul fuoco e di far bollire con la fiamma l’acqua fredda. Dopo aver completato la molitura da lì con le mani sposta la farina sparsa nel setaccio e agita; restano sopra le impurità e scende pura e scorre attraverso i buchi la farina setacciata. Allora prontamente la raccoglie sulla liscia tavola, vi versa sopra l’acqua tiepida, ora preme mescolandole l’acqua e la farina, impasta con un movimento trasversale le parti dure e amalgamate con l’acqua, di tanto in tanto cosparge di sale la massa. E già solleva la pasta lavorata e con le palme la dilata in cerchio e la segna in quadri di eguale distanza. Poi la porta al fuoco (Scibale aveva prima pulito il posto adatto), la copre con tegole e sopra vi accumula la brace. Mentre Vulcano e Vesta recitano le loro parti Simulo nel frattempo non perde un attimo e cerca per sé qualcosa d’altro; perché la pasta da sola non sia sgradita al palato prepara cibi da aggiungere. Non aveva sospesi vicino al fuoco uncini per appendere carni, mancavano spalle o altri pezzi di maiale induriti dal sale, ma pendevano una forma di formaggio trafitta al centro dallo sparto5 e un vecchio mazzetto legato di aneto: dunque il nostro provvido eroe si procura un altro ingrediente. C’era congiunto alla casupola un orto che pochi rami e una canna usata dal leggero stelo difendevano, esiguo per spazio ma fertile di varie erbe. Né a lui mancava quel che esige l’abitudine del povero; talvolta erano i ricchi a chiedere parecchie cose al povero. La coltivazione non gli costava nulla ma era regola d’amore: se qualche volta lo costringevano libero da impegni in casa le piogge o un giorno di festa, se per caso subiva un’interruzione il lavoro dell’aratro, quello era il momento di dedicarsi all’orto. Sapeva disporre le varie piante e affidare i semi alla nascosta terra6 e imbrigliare opportunamente le acque dei vicini ruscelli. Qui c’era il cavolo, lì verdeggiavano le bietole che stendevano per largo tratto le loro braccia, e il rigoglioso romice e le malve e le enule, lì il raperonzolo e i porri che devono al capo il nome [qui anche l’agghiacciante papavero che nuoce alla testa,] e la lattuga gradito riposo dei pregiati cibi … e cresce il ravanello allungando la punta e la pesante zucca abbandonata sull’ampio ventre. A dire il vero il prodotto non era del padrone (chi, infatti, era più sobrio di lui?) ma dei clienti e ogni nove giorni portava sulle spalle in città i mazzetti da vendere, poi tornava a casa leggero nelle spalle ma pesante di moneta, a stento talora accompagnato dalla merce del macello cittadino. Una rosseggiante cipolla e qualche fetta di porro domano la fame, e i nasturzi che con l’acre sapore fanno storcere il volto e le cicorie selvatiche e la ruchetta che risveglia Venere assopita7. Allora pensando pure a questo8 era entrato nell’orto; e dapprima, rimossa delicatamente la terra con le dita, tira fuori quattro agli con le spesse fibre, poi strappa  le tenere chiome del sedano e la rigida ruta e il coriandro tremante9 nell’esile aspetto. Dopo aver raccolto queste erbe si mette a sedere presso l’allegro fuoco10 e ad alta voce dice alla serva di portargli il mortaio. Allora mette a nudo le ciascuna delle teste (dell’aglio) dal corpo nodoso e le spoglia delle membrane esterne e gettandole  sparge qua e là per terra queste parti inutilizzabili; bagna con acqua il bulbo integro nella parte verde e lo pone nel cavo cerchio della pietra. Vi sparge grani di sale, viene aggiunto formaggio indurito dal sale, vi pone le erbe prima nominate, rincalza11 la veste leggera sotto l’inguine peloso, dapprima con la destra frantuma col pestello gli agli profumati e a quel punto pesta gli altri ingredienti mescolando il tutto. Va la mano in cerchio, a poco a poco i singoli ingredienti perdono le loro forze, il colore da vario diventa unico, non completamente verde poiché le sostanze del latte inutilmente si oppongono e neppure bianco per il latte, perchè esso viene cambiato da tante erbe. Spesso l’acre profumo colpisce le narici aperte dell’uomo e col volto rincagnato biasima il suo pranzo, spesso col dorso della mano deterge gli occhi lacrimanti e furibondo lancia rimproveri all’incolpevole fumo. La preparazione procedeva e il pestello non si muoveva più, come prima, saltellando ma più pesante in lenti cerchi. Dunque fa cadere gocce dell’oliva di Pallade, sopra versa gocce di poco aceto, di nuovo mescola la massa e la rivolge. Allora finalmente con due dita passa in giro l’intero mortaio e raccoglie tutta la massa prima sparsa perché sia chiaro l’aspetto del prodotto finito e il nome di moreto12. Frattanto pure Scibale premurosa tira fuori il pane che egli lieto prende con la mano e, fugata la paura della fame e sicuro per quel giorno Simulo indossa i gambali e col capo coperto da un berretto pone i giovenchi sotto il gioco di suo padre legato con una correggia e li conduce nei campi e affonda l’aratro per la terra1314.

Il moretum, dunque, è una specie di salsa dal gusto abbastanza forte, da consumarsi con una fetta di pane a mo’ di tartina (quello che durante la preparazione del pesto era rimasto a cuocere sotto le tegole). La ricetta così dettagliatamente descritta nel poemetto che abbiamo appena finito di leggere ricompare con poche varianti in altri autori. Gli ingredienti di base sono sempre gli stessi, in più ce ne sono, come vedremo, altri (d’importazione: per esempio, il formaggio della Gallia o il lasere di Siria) che certamente l’umile Simulo non si sarebbe potuto permettere, nemmeno nella finzione poetica.

Ovidio (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Fasti, XII, 367-372: -Non ci vergogniamo- dissi –di aver posto un pesto di erbe sull’altare della dea? O c’è un motivo?-. Rispose: -Si ricorda che gli antichi erano soliti usare latte puro ed erbe, se qualcuna spontaneamente la terra ne produceva. Si mescola candido formaggio all’erba pestata affinchè l’antica dea riconosca gli antichi cibi …”.15

Columella (I secolo d. C.), De re rustica, XII, 59: “Come preparare il moreto piccante o (come dicono altri) garum piccante16.

Metti in un mortaio satureia, menta, ruta, coriandro, sedano, porro che si può facilmente tagliare o, se non ce n’è, cipolla verde, foglie di lattuga, foglie di ruchetta, timo verde o nepitella, poi anche puleggio verde e formaggio fresco e salato. Pesta tutto insieme e versaci un po’ di aceto pepato. Dopo aver messo questa mistura in un piattino versavi sopra dell’olio.

Altrimenti: dopo aver pestato le erbe prima citate, pesta noci sgusciate per quanto ti parrà che bastino, mescolavi un po’ di aceto pepato, poi versa sopra olio.

Altrimenti: insieme con le erbe prima citate pesta sesamo leggermente tostato. Allo stesso modo mescola un po’ d’aceto pepato  e poi versaci sopra olio.

Altrimenti: tagliuzza minutamente e pesta formaggio della Gallia o di qualsiasi tipo vorrai, pinoli se ne avrai a sufficienza o, in caso contrario, nocciole tostate dopo aver tolto la pelle o mandorle, allo stesso modo nella misura giusta versaci olio e aggiungi un po’ di aceto pepato, mescola bene e versa dell’olio sul composto. Se non ci saranno erbe verdi pesta, insieme col formaggio, puleggio secco o timo o origano o satureia, aggiungi aceto pepato e olio. Tuttavia queste erbe secche, in assenza delle altre, possono essere mescolate singolarmente col formaggio.

Composizione di salsa piccante. Tre once di pepe bianco, se l’hai, altrimenti di nero, due once di seme di sedano, un’oncia e mezzo di radice di lasere che i Greci chiamano silfio, un sestante di formaggio; dopo aver pestato e setacciato il tutto, mescolalo col miele e conservalo in una pentola nuova; poi quando ce ne sarà bisogno allunga con aceto e con salsa di pesce quanto ti parrà di consumarne.

Altrimenti: Un’oncia di levistico, un sestante di uva passita tolti i semi, un sestante di menta secca, un quadrante di pepe bianco o nero. Questi ingredienti, se vuoi evitare maggior fatica, possono essere mescolati col miele e così conservati. Ma se vuoi fare un intingolo più sofisticato mescola questi stessi ingredienti con il precedente preparato e conservalo. Se anche invece di silfio avrai lasere di Siria meglio farai ad aggiungerne mezza oncia”17.

Il moretum oxyporum o oxygarum di Columella assume un nome leggermente diverso (oxygarum digestibile=garum piccante digestivo) in Apicio (I secolo d. C.), De re coquinaria, I, 34-35: “Garum piccante digestivo: Mezza oncia di pepe. Tre scrupoli18 di seselio gallico. Sei scrupoli di cumino. Uno scrupolo di cinnamomo. Sei scrupoli di menta secca. Pesta il tutto, passalo al setaccio e impastalo col miele. Quando sarà necessario aggiungi il liquido ricavato dalla preparazione del garum e aceto.

Altrimenti: un’oncia di pepe, un’oncia di prezzemolo, un’oncia di nocciole, un’oncia di levistico. Impasta col miele e quando sarà necessario aggiungi il liquido ricavato dalla lavorazione del garum e aceto”19.

Se il moretum rappresenti veramente l’antenato del pesto genovese resta dubbio; ciò che è certo è che tra gli ingredienti compaiono le noci (nuces iuglandes), le mandorle (amygdalae), i pinoli (nuclei pinei), le nocciole (nuces avellanae), non certo le pesche (nuces persicae), che, oltretutto, miele escluso (ma pure questo ha la prevalente funzione di addensante), sarebbero state come un pesce fuor d’acqua rispetto agli altri ingredienti costituiti, erbe a parte, da frutti che hanno la caratteristica comune di essere utilizzati sia verdi che secchi (ma la presenza delle nocciole solo tostate fa pensare che gli altri fossero utilizzati secchi). Era questo un dettaglio che mi interessava mettere in rilievo in rapporto al prossimo post di cui parlavo all’inizio.

___________

1 I Romani dividevano il giorno in due parti: le ore diurne andavano dall’ora prima (le 6) all’ora dodicesima (le 18) e così per quelle notturne. Qui, perciò, sono le quattro.

2 Il gallo.

3 In dialetto neretino: “si ‘nfòrdica li màniche”. Per l’etimologia di ‘nfurdicàre vedi la nota 11.

4 Può sembrare strano che quest’umile contadino possa avere a sua disposizione una serva, ma bisogna tener conto che si tratta di una schiava e il prezzo medio degli schiavi, essendocene molti sul mercato (altro vantaggio dell’imperialismo …), era decisamente basso. E poi, come si vedrà, più che un bracciante, Simulo sembra essere un piccolo imprenditore.

5 Specie di giunco. Interessante qui la descrizione della sua modalità di utilizzo per la stagionatura del formaggio, la cui prima fase, però, doveva essere già avvenuta nel fìsculus (o fiscèlla).

6 In realtà è il seme che risulta nascosto dalla terra; ma nella traduzione ho volute conservare l’ipallage originale.

7 La ruchetta è solo una delle innumerevoli erbe cui, a torto o a ragione, gli antichi attribuivano proprietà afrodisiache.

8 Fa tenerezza (in più di un politico, e non solo, solo sprezzante commiserazione …) lo scrupolo di chi sta destinando, per giunta in via eccezionale,  a se stesso il frutto del proprio, sottolineo proprio,  lavoro, sottolineo lavoro.

9 Qui l’autore (cosa di cui solo i poeti sono capaci …) attribuisce alla pianta il sentimento animale (dicono …) della paura; dirò di più: attribuisce alla sensibilità del contadino la possibilità di cogliere quel sentimento.

10 Qui l’ipallage è ancora più potente di quella evidenziata nella nota 6: il fuoco ispira allegria perché è esso stesso allegro (quanto rispetto per la natura!).

11 In dialetto neretino: ‘nfordica. ‘Nfurdicare è da un latino *infulticàre, formato da in+*fulticàre, forma intensiva derivata da fultum, supino del classico fulcìre=puntellare, sorreggere.

12 Si tratta, in pratica, di un’etimologia. Se essa è corretta morètum dovrebbe essere trascrizione del greco μορητόν=fatto a pezzi, aggettivo verbale di μορέω=essere tormentato, a sua volta da μόρος=destino, morte, cadavere; e qui cominciano a balenare prospettive a dir poco inquietanti. Infatti fratello di μόρος è μέρος=parte, dal quale derivano μείρομαι=ottenere la propria parte, avere in sorte e μοῖρα (nome comune)=porzione,  e Μοῖρα (nome proprio)=Destino. Dal concetto iniziale di essere tormentato si è passati a quello di spezzettare, dividere, assegnare la parte, morire. Dunque anche i latini mors e mori, da cui rispettivamente i nostri morte e morire, avrebbero la stessa radice. Non è finita: lasciando da parte l’opinione di alcuni autori che, mettendo in campo un moretàrium di molto dubbia attestazione e fatto derivare da morètum, gli attribuiscono la generazione per sincope di mortàrium=mortaio, come si fa a non pensare che il mortaio, in fondo, è una sorta di sepoltura in miniatura, pur essendo il suo uso legato all’idea iniziale del tormentare, frantumare, dividere, non a quella finale e definitiva di morte?

13 Ho tradotto letteralmente terrae, dativo di vantaggio; infatti la traduzione libera più scontata (nella terra) avrebbe distrutto il rapporto d’amore che la lega al contadino e ridotto l’aratura ad un mero atto di violenza.

14 Iam nox hibernas bis quinque peregerat horas/ excubitorque diem cantu praedixerat ales,/Simulus exigui cultor cum rusticus agri,/tristia venturae metuens ieiunia lucis,/membra levat vili sensim demissa grabato/sollicitaque manu tenebras explorat inertes/ vestigatque focum, laesus quem denique sensit. Parvulus exusto remanebat stipite fomes/et cinis obductae celabat lumina prunae./Admovet his pronam summissa fronte lucernam/et producit acu stuppas umore carentis,/excitat et crebris languentem flatibus ignem./Tandem concepto, sed vix, fulgore recedit/oppositaque manu lumen defendit ab aura/et reserat clausae qua pervidet ostia clavis./Fusus erat terra frumenti pauper acervus:/hinc sibi depromit quantum mensura patebat,/quae bis in octonas excurrit pondere libras./Inde abit adsistitque molae parvaque tabella,/quam fixam paries illos servabat in usus,/lumina fida locat; geminos tunc veste lacertos/liberat et cinctus villosae tergore caprae/perverrit cauda silices gremiumque molarum./Advocat inde manus operi, partitus utroque:/laeva ministerio, dextra est intenta labori./ Haec rotat adsiduum gyris et concitat orbem/(tunsa Ceres silicum rapido decurrit ab ictu),/interdum fessae succedit laeva sorori/alternatque vices. Modo rustica carmina cantat/agrestique suum solatur voce laborem,/interdum clamat Scybalen (erat unica custos,/Afra genus, tota patriam testante figura,/torta comam labroque tumens et fusca colore,/pectore lata, iacens mammis, compressior alvo,/cruribus exilis, spatiosa prodiga planta):/hanc vocat atque arsura focis imponere ligna/imperat et flamma gelidos adolere liquores. /Postquam implevit opus iustum versatile finem,/transfert inde manu fusas in cribra farinas/et quatit; ac remanent summo purgamina dorso;/subsidit sincera foraminibusque liquatur/emundata Ceres. Levi tum protinus illam/componit tabula, tepidas super ingerit undas,/contrahit admixtos nunc fontes atque farinas,/transversat durata manu liquidoque coacta,/ interdum grumos spargit sale. Iamque subactum/levat opus palmisque suum dilatat in orbem/et notat impressis aequo discrimine quadris./Infert inde foco (Scybale mundaverat aptum/ante locum) testisque tegit, super aggerat ignis./Dumque suas peragit Vulcanus Vestaque partes,/Simulus interea vacua non cessat in hora,/verum aliam sibi quaerit opem, neu sola palato/sit non grata Ceres, quas iungat comparat escas./Non illi suspensa focum carnaria iuxta,/durati sale terga suis truncique vacabant,/traiectus medium sparto sed caseus orbem/et vetus adstricti fascis pendebat anethi:/ergo aliam molitur opem sibi providus heros./Hortus erat iunctus casulae, quem vimina pauca/et calamo rediviva levi munibat harundo,/exiguus spatio, variis sed fertilis herbis./Nil illi deerat quod pauperis exigit usus;/interdum locuples a paupere plura petebat./Nec sumptus erat ullius [opus], sed regula curae:/si quando vacuum casula pluviaeve tenebant/festave lux, si forte labor cessabat aratri,/horti opus illud erat. Varias disponere plantas/norat et occultae committere semina terrae/vicinosque apte cura summittere rivos./Hic holus, hic late fundentes bracchia betae/fecundusque rumex malvaeque inulaeque virebant,/hic siser et nomen capiti debentia porra/[hic etiam nocuum capiti gelidum papaver,]/grataque nobilium requies lactuca ciborum,/. . . . . . . crescitque in acumina radix/et gravis in latum dimissa cucurbita ventrem./Verum hic non domini (quis enim contractior illo?)/sed populi proventus erat, nonisque diebus/venalis umero fasces portabat in urbem,/inde domum cervice levis, gravis aere redibat/vix umquam urbani comitatus merce macelli:/cepa rubens sectique famem domat area porri/quaeque trahunt acri vultus nasturtia morsu/intibaque et Venerem revocans eruca morantem. /Tum quoque tale aliquid meditans intraverat hortum;/ac primum leviter digitis tellure refossa/quattuor educit cum spissis alia fibris,/inde comas apii graciles rutamque rigentem/vellit et exiguo coriandra trementia filo./Haec ubi collegit, laetum consedit ad ignem/et clara famulam poscit mortaria voce./Singula tum capitum nodoso corpore nudat/et summis spoliat coriis contemptaque passim/spargit humi atque abicit; servatum gramine bulbum/tinguit aqua lapidisque cavum demittit in orbem./His salis inspargit micas, sale durus adeso/caseus adicitur, dictas super ingerit herbas,/et laevam vestem saetosa sub inguina fulcit,/dextera pistillo primum fragrantia mollit/alia, tum pariter mixto terit omnia suco./ It manus in gyrum: paulatim singula vires/deperdunt proprias, color est e pluribus unus,/nec totus viridis, quia lactea frusta repugnant,/nec de lacte nitens, quia tot variatur ab herbis./Saepe viri nares acer iaculatur apertas/spiritus et simo damnat sua prandia vultu,/saepe manu summa lacrimantia lumina terget/immeritoque furens dicit convicia fumo./Procedebat opus; nec iam salebrosus, ut ante,/sed gravior lentos ibat pistillus in orbis./Ergo Palladii guttas instillat olivi/exiguique super vires infundit aceti/atque iterum commiscet opus mixtumque retractat./Tum demum digitis mortaria tota duobus/circuit inque globum distantia contrahit unum,/constet ut effecti species nomenque moreti./Eruit interea Scybale quoque sedula panem,/quem laetus recipit manibus, pulsoque timore/iam famis inque diem securus Simulus illam/ambit crura ocreis paribus tectusque galero/sub iuga parentis cogit lorata iuvencos/atque agit in segetes et terrae condit aratrum.

15 “Nos pudet herbosum, dixi, posuisse moretum/in dominae mensis? An sua causa subest?/Laete mero veteres usi memorantur et herbis,/sponte sua si quas terra ferebat, ait./Candidus elise miscetur caseus herbae,/cognoscat priscos ut dea prisca cibos …”.

16 Traduco alla lettera questa parola composta dal greco ὀξύς=acuto, pungente+garum =salsa di interiora di pesci (anche se essa compare come ingrediente solo in una variante della serie di ricette che Columella ci propone nel brano).

17 Moretum oxyporum vel (ut alii) oxygarum quemadmodum componas. Addito in mortarium satureiam, mentam, rutam, coriandrum, apium, porrum sectivum, aut, si non erit, viridem cepam, folia lactucae. thymum viride vel nepetam, tum etiam viride puleium et Caseum recentem, et salsum; ea omnia pariter conterito, acetique piperati exiguum permisceto. Hanc misturam quum in catillo composueris, oleum superfundito.

Aliter. Qumm viridia, quae supra dicta sunt, contriveris, nuces iuglandes purgatas, quantum satis videbitur, interito, acetique piperati exiguum permisceto ert oleum infundito.

Aliter. Sesamum leviter torrefactum cum iis viridibus, quae supra dicta sunt, conrerito. Item aceti piperati exiguum permisceto, tum supra oleum superfundito.

Aliter. Caseum gallicum vel cuiuscumque notae volueris minutatim concidito et conterito, nucleosque pineos, si eorum copia fuerit; si minus, nuces avellanas torrefactas ademopta cute, vel amygdalas, aeque supra condimenta pariter misceto acetique piperati exiguum adiicito et permisceto compositumque oleo superfundito. Si condimenta viridia non erunt, puleium aridum vel thymum vel origanum aut aridam satureiam cum caseo conterito acetumque piperatum et oleum adiicito. Possunt tamen haec arida, si reliquorum non sit potestas, etiam singula caseo misceri.

Oxypori compositio. Piperis albi, si sit; si minus, nigri unciae tres, apii seminis unciae duae, laseris radicis, quod σίλφιον Graeci vocant, sescunciam, casei sextantem: haec contusa et cribrata melli permisceto, et in olla nova servato; deinde quum egerit usus, quantulumcumque ex eo videbitur, aceto et garo diluito.

Aliter. Ligustici unciam, passae uvae detractis vinaceis sextantem, mentae aridae sextantem, piperis albi vel nigri quadrantem: haec, si maiorem impensam vitabis, possunt melli admisceri et ita servari. At si pretiosius oxyporum facere voles, haec eadem cum superiore compositione miscebis et ita in usum repones; quod si etiam Syriacum laser habueris pro silphio, melius adicies pondo semunciam”.

18  Scrùpulum (o scrìpulum o scrìptulum o scriptulus) era un’unita di misura corrispondente ad 1/24 di oncia, vale a dire poco più di un grammo; per traslato significava anche piccola quantità. Il maschile scrùpulus (o scrìpulus), come il precedente diminutivo di scrupus=sasso aguzzo, inquietudine, oltre al significato di piccolo sasso aguzzo per traslato aveva anche quello di inquietudine, scrupolo, ricerca minuziosa. Nella voce italiana è rimasto solo il formale significato morale (che già in latino fondeva il tormento del sasso aguzzo con il rigore della precisione necessaria per valutare una piccola quantità) che, purtroppo, è vuoto quando quella virtù particolare non viene praticata in concreto.

19 “Oxygarum digestibile. Piperis semunciam. Silis gallici scrupulos tres. Cardamomi scrupulos sex. Cumini scrupulos sex. Folii scrupulum unum. Menthae siccae scrupulos sex. Tunsa cribrataque melle colligis. Cum opus fuerit, liquamen et acetum addis.

Aliter. Piperis unciam unam. Petroselini, carei, ligustici uncias singulas. Melle colligis et cum opus fuerit liquamen et acetum addis”.

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