di Alessio Palumbo
Bello non lo sono mai stato, nemmeno da giovane. Ricco men che meno. Mi sono rotto la schiena per più di cinquant’anni sulle paranze di mezza Gallipoli e tutto quello che sono riuscito a mettere da parte l’ho speso per tirare su una casa di tre stanze su un appezzamento di terra sulla via per Mancaversa donatomi da uno zio prete. Una casa senza pretese, piccola e con poche comodità. Una strada la separa dal mare e d’inverno è quasi come trovarsi all’aperto. La tramontana si infiltra fredda dalle fessure ed il mare ha da tempo divorato tutto l’intonaco. Tuttavia, vivendo per quasi tutta la mia vita da solo, mi sono adattato.
Non sono sposato, né lo sono mai stato. Non che non mi piacessero le donne. Anzi! Tuttavia, per un tipo brutto e senza soldi le occasioni non sono mai tante e, se non si è pronti nel coglierle, sfumano rapidamente.
Anche da vecchio, però, la compagnia di amici e conoscenti non è mai scarseggiata. Tutto il vicinato, da quando ho abbandonato la vita di mare, si è preso cura di me. Gli uomini, quasi tutti pescatori come me, mandavano le mogli o i figli per portarmi un pasto caldo, qualche primizia o il conforto di due chiacchiere. Per questo non ho sofferto mai la solitudine. Tuttavia la compagnia di una donna è un’altra cosa. Finché uno non ce l’ha non sa cosa sia…e io, a settanta anni suonati, ho avuto la fortuna di goderne le piacevolezze. “Fortuna” forse non è la parola più azzeccata.
Si chiamava Elvira e si era trasferita da poco nella casa del compare Franco, proprio accanto alla mia. Abitava una stanza che aveva preso in affitto con i pochi soldi che aveva portato con sé venendo via dal paese. Era fuggita, mi raccontò, per non sposare un vecchio ricco che la famiglia voleva imporle. Dovevate vederla cos’era. Bruna, con un viso liscio e gentile, gli occhi neri come la pece e un bel seno da balia su dei fianchi stretti stretti da ragazza. Aveva venticinque anni quando l’ho conosciuta.
Elvira non era solo bella: era onesta e lavoratrice. Fin da subito si era data da fare per cercare un lavoro che le consentisse di sostentarsi; tuttavia, meschina, la salute non glielo aveva permesso. Nonostante infatti quell’aspetto florido era spesso malata. E così finì presto i pochi soldi che aveva con sé, rischiando di trovarsi per strada. Me lo ricordo ancora, accadde esattamente cinque anni fa. Mancavano una decina di giorni al Natale. La poveretta venne a portarmi gli auguri in anticipo perché, da lì a pochi giorni, avrebbe dovuto abbandonare la casa. Compare Franco l’aveva sfrattata. Mi disse che sarebbe andata un paio di giorni da un’amica e poi, se non avesse trovato altro, sarebbe tornata dai suoi. Mi sentii stringere il cuore e le chiesi se avesse voluto accettare la mia ospitalità. Non volevo nulla in cambio, al massimo mi avrebbe aiutato a tenere in ordine la casa. Le avrei dato il mio letto e io mi sarei sistemato in una branda in cucina. La poveretta accettò subito, tant’era disperata. Venne quindi a vivere da me, in quella mia casa povera e fredda.
Io feci di tutto per non farle pesare quella situazione. La mia pensione e l’aiuto del vicinato non bastava per entrambi e così ripresi a darmi da fare presso qualche vecchio amico. Ricucivo le reti, pulivo le paranze, insomma per un annetto riuscimmo ad andare avanti. Ma Elvira, poveretta, era sempre triste. Qualcosa la tormentava e finalmente un bel giorno riuscì a confessarlo: al paese era rimasto un suo fratello, vedovo e disoccupato, che viveva di stenti insieme al figlio. Proprio in quei giorni i suoi li avevano sbattuti fuori di casa.
“E falli venire qui, perdio” le dissi “Dove si mangia in due si mangia in quattro. E poi posso presentare tuo fratello a qualcuno dei miei amici. Vedrai, glielo troveremo un lavoro”
Elvira saltò dal letto e mi strinse forte. Dovevate vederla com’era felice.
Da lì a due giorni si presentò il fratello, Renzo, con il figlio ma, come capii quasi subito, anche Renzo avrebbe potuto fare ben poco per il sostentamento di quella famiglia che stavamo formando. Come la sorella, infatti, era spesso ammalato, tanto che i due, poveretti, restavano spesso per interi giorni a letto, mandando via di casa anche il ragazzino per evitare che potesse ammalarsi stando con loro. Non fosse stato per la nostra povertà, saremmo stati proprio una famiglia felice. Elvira ed il fratello si volevano bene come pochi. Si abbracciavano spesso; lei era persino gelosa di lui, perciò le rare volte che Renzo era in forze gli impediva di venire a lavorare con me. Chissà cosa le girava in quella testolina? Sta di fatto che nessuno sapeva dirle di no e tutti le volevamo bene. Anche il nipote l’amava talmente tanto che, a volte, la chiamava mamma. Le cose andarono avanti così per quasi due anni, finché un giorno non successe quel che successe. Al solo pensiero mi tremano le gambe.
Una mattina, mentre riparavo le reti da Nino Persico, un amico che mi aveva dato del lavoro, si presentarono due carabinieri. Mi dissero che Elvira mi aveva denunciato per violenze su di lei e sul bambino. Mi sentii mancare. Non ve lo sto neanche a dire.
“Non ci credo” dissi “Fatemi parlare con lei”
Il maresciallo e l’appuntato mi portarono a casa e quando chiesero conferma ad Elvira delle accuse mi sembrò che anche lei ne fosse colpita. Ricordo che abbracciò il nipote e si mise a piangere violentemente. L’unica frase che riuscì a pronunciare fu: “Portatelo via, per favore”.
Poverina, doveva essere sconvolta. Non riuscì a dire altro e svenne.
Come sono andate le cose tutto il paese lo sa. Forse stanco per quel clamore che si era creato, per le malelingue che si erano messe a girare sul conto mio e di Elvira, ammisi la colpa che non avevo. In fondo in prigione non stavo così male: di inverno faceva meno freddo che a casa mia.
L’unico rammarico è non aver rivisto più Elvira. Sono due anni che non la vedo: prima in galera e poi in questa casa di cura non è venuta mai a trovarmi. Poveretta, malata com’è non avrà mai avuto modo di venire a farmi visita. Del resto non lo ha fatto quasi nessuno. Non perché si siano dimenticati di me, ma per mio volere. Dopo pochi giorni dall’arresto, venne in parlatorio compare Franco, il mio vicino di casa, e mi raccontò una storia incredibile. Mi disse che in realtà il fratello di Elvira era il marito, che stavano bene e vivevano tranquillamente in casa mia. Insomma mi avevano raggirato per impossessarsi della casa e per questo avrei dovuto denunciarli.
“Eh no” gli dissi “Tu la devi smettere di parlare così di Elvira. Quella ragazza non ti è andata mai a genio”
Franco me ne disse di tutti colori e se ne andò via bestemmiando. Da allora nessuno è più venuto a trovarmi. Perché vi ho raccontato questa storia? Per dimostrarvi la cattiveria della gente! Compare Franco è un uomo crudele. Prima mette alla porta una brava ragazza; poi, vedendo che questa ha trovato la felicità con me e con i suoi parenti, con qualche imbroglio mi mette nei guai. Sono infatti sicuro che dietro al mio arresto ci sia lo zampino di Franco. Come se non bastasse, cerca di danneggiare anche la brava ragazza accusandola ingiustamente di un fantasioso raggiro ai miei danni. Avete capito? Povera Elvira mia, che gente cattiva c’è al mondo!
Quanta amarezza devi aver provato, Alessio, nel raccontarci una storia come questa!
Il messaggio è chiaro: l’amore, sia materializzato come affetto che potenziato dalla solitudine, rende ciechi, vulnerabili, predisposti a castelli in aria di giustificazioni e di rifiuto salvifico delle brutture della realtà.
La coscienza è un lusso di tanti ma non di tutti e quando s’incontrano sulla propria strada quei pochi che se la sono venduta per un tozzo di pane, allora se ne possono vedere delle belle. Elvira è scaltra, probabilmente ha dovuto imparare già così giovane l’arte del raggiro e dell’arrangiarsi. Compare Franco è stato accorto, forse perchè sollecitato dalla vicinanza affettiva di una vita normale e familiare. Detto fatto, l’uomo non si è lasciato intenerire dalle messe in scena della povera ragazza sfortunata, giovane, graziosa, povera e tanto malata: se n’è liberato sfrattandola. Ma laddove c’è un cuore buono, sanguinante solitudine, la sete di profitto diventa la vera malattia virulenta, si attacca ad atri e ventricoli e non li lascia fino a quando non li svuota di ogni stilla di energia. Il protagonista, dunque, saggio per esperienza e ingenuo per bisogno, sa di poter barattare la vecchiaia e il suo povero avere solo con la compagnia della giovane Elvira, con quel po’ di aria vissuta a rinfresco della casa battuta dal mare e dalla tramontana, suo unico possedimento. Così l’anziano la accoglie con slancio e con lei accoglie tutte le sue bugie, presenze striscianti nel diabolico piano di sbarazzarsi di lui a favore della propria felicità, come legge di sopravvivenza vuole.
Forse alla popolana dispiace aver calunniato il proprio benefattore fino a vederlo mettere in manette: piange. Magari è solo l’imprevisto (o previsto?) emotivo voluto dal copione.
Ma cosa c’è di più inebriante della felicità pura che il vecchio protagonista ha provato nel periodo della convivenza con la giovane? Quale costruzione letteraria più formidabile di quella di Alessio nel creare una storia nella storia, un illusionismo nella crudezza della realtà?
E Alessio Palumbo diventa il soggetto, prova e ci fa provare l’emozione palpitante di una solitudine squarciata dalla novità di una presenza, dalla forza trainante della giovinezza, dal recupero di una nuova ragione di vita se non della vita stessa. Tanto è l’entusiasmo del povero vecchio salvato in estremis da una sorte ambigua e beffarda, che perfino noi lettori finiamo per comprenderne gli atteggiamenti, per scusarne la forsennata decisione di credere fino in fondo alla sua bella favola, quella senza un lieto fine solo per un fraintendimento disgraziato, quella a cui essere sempre e comunque grati per il carico di gioia così difficile da sottomettere alla crudeltà dell’ignoranza e della disonestà.
Questo mi fa apprezzare oltremodo il titolo dato dall’autore al racconto, perchè mai nessuno può essere più degno di commiserazione di chi non conosce l’amore, il sentimento che arricchisce chi lo prova e impoverisce chi se ne serve senza averlo.
Ho letto tutto d’un fiato il tuo commento e, sinceramente, credo sia molto più bello e profondo dello stesso raccontino!
Grazie Raffaella