di Armando Polito
“Sta mmuèru pi llu prièsciu” (Sto morendo per la gioia) e “Prèsciate!” (Gioisci!): chi, neretino, non ha sentito o usato, magari con finalità ironiche o addirittura sarcastiche, queste due espressioni? Nessuno. E chi si è chiesto il loro etimo? Naturalmente solo gli studiosi, anche perché se l’uomo comune dovesse passare al vaglio dell’etimologia ogni parola che usa probabilmente avremmo una società di muti o semibalbuzienti…
Eppure, una riflessione a posteriori ogni tanto non guasterebbe e ci aiuterebbe, forse, a capire meglio noi stessi e gli altri, compresi quelli che ci hanno preceduto. Ognuno di noi è, sostanzialmente, “passato”. Infatti il “presente” è ciò che non fai in tempo a pensare ed è già “passato”. Poi ci siamo inventato quel concetto di presente più o meno progressivamente dilatato per cui bisognerebbe più correttamente usare il termine “corrente”: “il presente giorno, il presente mese, il presente anno, il presente”, quest’ultimo inteso come “i nostri tempi” in contrapposizione a quelli di coloro che ci hanno preceduto (il “passato”) e a quelli di coloro che verranno dopo di noi (il “futuro”). Può sembrare paradossale ma, ripeto, la vita che ciascuno di noi vive è fatta sostanzialmente di passato e di una continua tensione, nel presente, verso il futuro che diventa, in men che non si dica, passato; eppure, prigionieri di quello che ho definito “presente dilatato”, complice anche il ritmo forsennato della vita attuale, trascuriamo il passato e ci precludiamo, così facendo, un futuro che gli sia, nel bene e nel male, degnamente consequenziale.
Nessuno, forse, meglio del Leopardi ha sintetizzato questa nostra condizione ne “Il sabato del villaggio” e in particolare nei versi: “Questo di sette è il più gradito giorno,/pien di speme e di gioia:/diman tristezza e noia/recheran l’ore, ed al travaglio usato/ciascuno in suo pensier farà ritorno”. Il sabato (il “presente”) è l’unico effimero momento di felicità che si consuma nell’attesa della domenica (il “futuro”) su cui già sembra proiettato lo spettro durevole di ciò che è destinato ad essere il doloroso rimpianto di quell’attimo di felice attesa, almeno fino al sabato successivo…
Sarà casuale, ma anche a livello filologico la precarietà del presente è tutta nell’etimo della stessa voce. “Presente” è dal latino “praesens”, participio presente di “praesum”, composto da “prae”=davanti e “sum”=io sono. Non è un caso che gli unici composti di “sum” ad avere il participio presente (nel periodo classico assente in “sum”, nel tardo latino “ens” modellato proprio su “absens” e “praesens”) sono proprio “praesum”=sono presente ed “absum”=sono assente, come se ad essi fosse stato deputato il compito di rappresentare due postulati di significato contrario (essere/non essere), statici nella loro astrattezza e senza conseguenze pratiche, per cui immaginare, per esempio, un participio presente di “prosum” (=giovare) o di “intersum” (=partecipare) sarebbe stato illusorio: infatti, come s’è detto, non esistono. Per capire, poi, quanto lo stesso “sum” sia precario basta considerarne il paradigma: “sum/es/fui/esse”: come si nota, esso manca di supino ma il suo participio futuro (“futurus/futura/futurum”) suppone un supino “*futum” che utilizza il tema del perfetto (“fui”), il quale a sua volta non ha nulla a che fare con quello del presente. E, colmo dei colmi, pure in italiano il participio passato di “essere” (“stato”) è un prestito da “stare”.
Mi sono appena accorto che questa stessa dilatata riflessione rischia, pur nella sua validità generale che mi avrebbe consentito di inserirla in qualsiasi post (l’ho fatto oggi e mi son tolto il pensiero …), di essere un ingombrante presente che, trascurando il passato (assunto del titolo), ritarda o preclude (l’arteriosclerosi è sempre in agguato …) il futuro (dimostrazione dell’assunto). Provvedo subito e saluto anticipatamente, prima che me ne dimentichi …
“Prièsciu” ha il suo corrispondente italiano in “pregio”, che è da “pregiare”, a sua volta dal provenzale “prezar”, che è dal latino medioevale “pretiàre” e quest’ultimo dal classico “prètium” che ha dato vita direttamente a “prezzo”. La voce dialettale “prièsciu”, però, usata sempre nel senso di “gioia”, ha registrato il passaggio da un concetto che, per quanto astratto, rimane pur sempre legato ad una valutazione basata su dati concreti (non a caso sono quelli che decidono il “prezzo”), ad indicare un sentimento, uno stato d’animo. Tutto ciò trova una conferma nel derivato “prisciàre” che non a caso è usato sempre in forma riflessiva ad indicare un compiacimento tutto interiore (“sta mmi prèsciu”=gioisco, sono contento) come succede in italiano (“mi pregio di averti come amico”) in cui la forma non riflessiva, nel significato di “tenere in grande stima”, è di uso letterario e voce obsoleta (soppiantata da “apprezzare”) in quello di “stabilire il prezzo”.
E mi piace chiudere con la pittoresca icasticità di un nesso di fronte al quale “sta mmuèru pi llu prièsciu” appare come un panno scolorito. Si tratta di una battuta del “Nniccu Furdedda”, farsa pastorale scritta nella prima metà del XVIII secolo da Giommo Bachisi (alias Gerolamo Bax):
“Necca! La sputazza mi secca pi llu priesciu ci sapia ca luciscia sta dia pi Titta affrittu!” (Francesca! La saliva mi si seccherebbe per la gioia se sapessi che sta per sorgere questo giorno per Battista afflitto!).