di Armando Polito
TERZA ED ULTIMA PARTE: LE TESTIMONIANZE DEGLI AUTORI GRECI, QUALCHE IMMAGINE DI IERI E DI OGGI, UNA SORPRESA FINALE…
Aristofane (V-IV secolo a. C.), Gli uccelli, vv. 159-160: E becchiamo nei giardino i bianchi sesami e i mirti e i papaveri (nel testo originale mèkona, accusativo plurale di mekon) e i sisimbri.
Callimaco (III secolo a. C.), Inno a Demetra, vv. 44-45: Subito, dopo aver assunto le sembianze di Nicippa che la città stessa aveva fatto sua sacerdotessa, prese in mano la fascia sacra, il papavero (nel testo originale màkona, accusativo singolare di makon, forma dorica per l’attica mekon) e aveva la chiave appesa in spalla.
Teocrito (III secolo a. C.), Idilli, VII, vv. 255-257: …che io possa ancora piantare nel mucchio [di grano] la mia grande pala e che lei [Demetra] sorrida tenendo nelle due mani fasci di spighe e papaveri (nel testo originale màkonas, accusativo plurale di makon, forma dorica corrispondente all’attica mekon).
Dioscoride Pedanio (I secolo d. C.)
Il papavero rhoeas (nell’originale greco mekon rhoiàs1) ebbe questo nome dal fiore che cade precocemente (alcuni lo chiamano oxytono (nell’originale greco oxýtonon2), i Romani papaverale (nell’originale greco papaberàlis), gli Egizi nanti). Nasce nei campi in primavera, periodo in cui viene pure raccolto. Le foglie sono simili a quelle dell’origano o della rucola o della cicoria o del timo, sono pennate ma lunghe e ispide. Ha il gambo esile, stretto, ispido e lungo un cubito. Il fiore è rosso, talvolta anche bianco, simile all’anemone selvatico, la testa è lunga ma meno dell’anemone, il seme rossiccio. La radice è allungata, biancastra, della grossezza di un piccolo dito e amara. Somministrerai cinque o sei sue testoline bollite in tre ciati di vino finché non si riducono a due a colui al quale vorrai indurre il sonno. Il seme poi bevuto con acqua mielata nella misura di un quarto di emina è un purgante leggero e allo stesso scopo viene mescolato con piccole focacce e ciambelle. Del resto le foglia applicate con le teste curano le infiammazioni. Il loro infuso concilia il sonno.
Quella del papavero, che i Greci chiamano e camesicio (nell’originale greco chamaisýke3) e oxytono (nell’originale greco oxýtonon2), gli Egizi nanti, è una specie coltivata e ortiva, il cui seme viene usato salutarmente nella preparazione del pane: lo usano anche con il miele invece del sesamo e lo chiamano thylaciti (nell’originale thylakìtis4). Ha il capolino oblungo e il seme bianco. Diverso è il papavero selvatico dal capolino schiacciato e oblungo e col seme nero. Parecchi lo chiamano rhoeas poiché da esso sgorga un liquido5; è chiamato anche pithiti (nell’originale pithìtis6). C’è una terza varietà più selvatica e dalle maggiori proprietà medicamentose, più lunga delle precedenti, dal capolino oblungo. Tutte hanno proprietà rinfrescanti; perciò le foglie con le stesse teste bollite in acqua inducono col riscaldamento il sonno; pure il decotto viene bevuto per combattere l’insonnia. I capolini pestati e applicati con polenta come cataplasmo giovano in caso di infiammazione e erisipela. Conviene dopo averli pestati verdi farne pillole e conservarle dopo averle fatte seccare. Dalle teste bollite da sole in acqua finché questa non si riduce a metà e successivamente bollite col miele finché la massa non diventa più densa si prepara uno sciroppo che in caso di tosse, raffreddore e disturbi intestinali placa il dolore. Viene reso ancora più efficace con l’aggiunta di succo di ipocistide e acacia. Inoltre il seme del papavero nero pestato nel vino viene dato da bere contro la diarrea e la dismenorrea. In caso di insonnia viene applicato con aqua sulla fronte e sulle tempie. Lo stesso succo, massimamente rinfrescante, pesante, denso e secco, assunto in quantità pari ad un legume, placa il dolore, concilia il sonno e stimola la digestione, è d’aiuto in caso di tosse e di disturbi intestinali. Però se viene assunto in eccesso fa male, rende letargici e uccide. È efficace pure contro il mal di testa se viene asperso con olio di rose, pure contro il dolore di orecchi se viene instillato con olio di mandorle, mirra e zafferano. Giova contro le infiammazioni degli occhi con tuorlo d’uovo abbrustolito e zafferano, in caso di erisipela e di ferite con aceto, nella podagra con latte di donna e zafferano; infine messo nell’ano invece di un dattero concilia il sonno. Efficacissimo è poi il succo che è denso e dall’odore acuto e che annusato induce sonnolenza,amaro al gusto, facile a diluirsi in acqua, leggero, bianco, non acre né grumoso, che nel colare non solidifica come cera ma che esposto al sole si scioglie e che acceso in una lucerna arde di una fiamma con pochissimo fumo, che, infine, dopo che si è spento, conserva ancora tutta la forza del suo odore. Lo sofisticano con l’aggiunta di glaucio, gomma o succo di lattuga selvatica. Ma corrotto dal glaucio mentre scioglie assume il colore dello zafferano; quello adulterato col succo di lattuga è di odore debole ed evanescente e più acre; quello, infine, corrotto dalla gomma è debole e trasparente. Parecchi giunsero a tal punto di follia da mescolarlo con grasso. Viene inoltre torrefatto come medicina per gli occhi in un vaso di creta nuovo finché non diventa molle e biondo. Ma Erasistrato dice che Diagora condannò il suo uso contro il dolore di orecchi e le malattie degli occhi poiché riduce l’acutezza visiva e provoca letargia. Andrea aggiunse che, se è puro, chi lo usa corre il rischio di diventare cieco. Inoltre Mnesidemo ammise che venisse solo annusato per conciliare il sonno, affermando che usato in altro modo è nocivo. L’esperienza insegna che tutto ciò è falso, poiché fa testo l’effetto della forza di questo medicamento. Piuttosto non sarà fuori luogo aggiungere qualcosa sulle sue modalità di assunzione. Parecchi raccolgono le teste e le stesse foglie e le spremono col torchio, poi le pestano in un mortaio e ne fanno pillole: si chiama meconio, molto più debole dell’oppio. Conviene che coloro che vogliano estrarre il succo, quando il liquido stillante è secco, incidano all’intorno con un coltello l’asterisco (che si trova nella parte estrema della testa del papavero) in modo che non ci si spinga troppo in profondità e dai fianchi del capo incidere in linea retta la superficie, poi raccogliere col dito la lacrima che fuoriesce in una coppetta e aspettare non molto; infatti si troverà di nuovo altro liquido che si è raccolto, anche nel giorno successivo. Finalmente questo deve essere pestato in un mortaio e, ridotto in pillole, conservato. Tuttavia, mentre si incide, bisogna fare attenzione perché perché il liquido non si disperda a contatto con le vesti.
Il papavero cornuto, che alcuni chiamano marittimo o marino, altri dei campi [i Romani cibo marino, gli Africani sisimaca] ha foglie bianche, ispide, simili al verbasco, seghettate ai margini come il papavero di campo, lo stelo simile, il fiore giallo, il frutto lungo, curvo a mo’ di corno, a somiglianza del fieno greco da cui ha preso anche il soprannome. Il seme è sottile, nero, come quello del papavero, la radice è superficiale, nera e spessa. Nasce nei luoghi marittimi e rocciosi.
La radice, bollita in acqua, fino a che questa non si riduce a metà, e bevuta ha efficacia contro le malattie dell’anca e del fegato ed è di giovamento a coloro che hanno nell’urina sostanze grasse e simili a ragnatela. Il seme poi, bevuto con acqua mielata nella dose di un quarto di emina, è un leggero lassativo. Le foglie e i fiori applicati ad empiastro con olio squarciano le croste e spalmate fanno scomparire le macchie bianche e scure del bestiame. Del resto non manca chi allo stesso scopo utilizza inutilmente il glaucio, ingannato da una certa somiglianza delle foglie.
Il papavero spumoso , da parecchi chiamato eracleo, ha lo stelo lungo nove pollici, con foglie molto piccole, simili a quelle della saponaria e col seme bianco. Ma tutta l’erba è bianca e spumosa, la radice sottile e superficiale. Il seme si raccoglie in estate, quando si è completamente sviluppato, e viene conservato secco. Assunto nella misura di un quarto di emina in acqua mielata funge da antiemetico e con la stessa modalità giova agli epilettici7.
Ateneo di Naucrati (II secolo d. C.): …e dello stesso papavero (nel testo originale mekon) getta i petali per far sì che le zanzare non ti divorino la testa8.
Dopo questa inusitata scoperta del papavero come repellente non mi resta che aggiungere che la nostra pianta era nel mondo classico parte integrante dell’iconografia di Ypnos (Sonno), fratello di Thanatos (Morte), potendo simboleggiare l’uno col suo uso moderato, l’altra con quello spinto.
Non sono, tuttavia, queste le raffigurazioni più antiche della nostra pianta. A Tebe nella tomba di Nebamon e Ipuky (due scultori) risalente al XIV secolo a. C. è visibile la scena sottostante in cui, collocata quasi al centro, Henutnofret, vedova di entrambi, assiste all’ingresso delle mummie pronte per essere deposte nel sarcofago cospargendosi il capo di cenere, accovacciata di fronte ad una composizione costituita da fiori di ninfea e da papaveri.
Ancora più eloquenti sono l’idolo di Gazi, una statuetta di terracotta risalente al XIII secolo a. C che reca ai lati del capo due capsule di papavero con le tipiche incisioni verticali che testimoniano la raccolta dell’oppio, e un sigillo pressappoco coevo rinvenuto a Micene e che mostra quattro figure femminili offerenti ad una quinta che reca in mano tre steli con capsule di papavero.
In un bassorilievo risalente al IX-VIII secolo a. C.) e custodito al Museo di Ankara la dea sumera Kubaba stringe nella mano sinistra uno specchio e nella destra l’ovario di un papavero da oppio.
Dopo le copie romane di originali greci già presentate è la volta del bassorilievo della Saturnia tellus facente parte dell’Ara pacis (fine del I secolo a. C.) a Roma.
Al di sopra della testa del secondo putto, come mostra più chiaramente il dettaglio, papaveri frammisti a spighe di grano.
Un bassorilievo rinvenuto a Roma al tempo di papa Pio IV (prima metà del XVI secolo) raffigura un putto incoronato di papaveri e che regge nella destra spieghe di grano e nella sinistra grappoli d’uva, con ai piedi l’iscrizione (AE, 1961, 00118): QUIS TU LAETE PUER GENIUS/CUR DEXTERA ARISTAM/LAEVA UVAS VERTEX QUIDVE/PAPAVER HABET/HAEC TRIA DONA DEUM CERERIS/BACCHI ATQUE SOPORIS/NAMQUE HIS MORTALES VIVITIS/ET GENIO9(Chi sei tu, o lieto fanciullo; il Genio? Perché la destra ha la spiga, la sinistra l’uva o la testa il papavero? Sono questi i tre doni degli dei Cerere, Bacco e Sopore; infatti voi mortali vivete grazie a loro ed al Genio)
Si direbbe che l’iscrizione, peraltro l’unica conosciuta in cui compaia la parola papaver, sintetizzi gli antichi miti già ricordati ma esprima anche una filosofia di vita basata sull’essenziale (Cerere>grano>pane>cibo) e sulla fuga dal dolore (Bacco>uva>vino e Sopore>papavero>sonno). Peccato che per alcuni l’iscrizione sarebbe un falso di epoca umanistica. È confermata, invece, dalle fonti numismatiche la notizia di Plinio, riportata alla fine della seconda parte, sul papavero come elemento iconografico del Bonus Eventus, come si vede nel denario di Vespasiano (78-79 d. C.) di seguito riprodotto.
legenda: IMP(ERATOR) TITUS CAESAR VESPASIAN(US) AUG(USTUS) P(ONTIFEX) M(AXIMUS)/BONUS EVENTUS AUGUSTI
Ad ogni buon conto, come tanti altri simboli pagani, anche il papavero troverà ospitalità nel Cristianesimo, soprattutto simboleggiando, col suo colore rosso intenso, la passione di Cristo.
Il motivo iconografico classico verrà ripreso in epoche successive.
Somnus. Scultura di John Coward del 1774 circa. Birmingham Museum of Art, Alabama
Hypnos e Thanatos (quest’ultimo dio della morte) in un dipinto di John William Waterhouse (1849-1917)
Siamo giunti alla sorpresa annunziata nel titolo. A dire il vero, più che di sorpresa si tratta di una speranza di sollievo, di natura culinaria, che presumo di procurare a chi con enorme pazienza mi ha fin qui seguito senza lasciarsi sopraffare dalla papàgna10. Nel periodo in cui quest’ultima puntata esce non è improbabile, se il clima è stato mite, che in qualche vigneto abbia fatto già la sua comparsa la nostra erba; quale occasione migliore per riscoprire o scoprire (a seconda dei casi) uno dei tanti sapori antichi che rendono pressoché unica qualsiasi terra? E il Salento, modestamente, non è una terra qualsiasi…
Paparìne ‘nfucate (papaveri affogati)
Ingredienti: paparìne 1 kg. da raccogliere assolutamente quando la pianta ha un aspetto prostrato e il gambo non è ancora spuntato;
olio extravergine di oliva, pugliese (tanto l’oliva che l’olio, altro non dico…): 5 cucchiai;
sale: q. b.
olive nere cilìne: una manciata;
aceto di vino (possibilmente quello che un tempo si faceva in casa): due cucchiai
Riscaldare l’olio in un tegame e non appena comincia a fumare mettere dentro le paparine. preventivamente mondate e lavate con grande accuratezza (la pianta, quando è prostrata anche in caso di pioggia modesta tende a trattenere molta terra sulle foglie).
Appena appassiscono nel tegame aggiungere il sale e a metà cottura l’aceto e le olive.
Coprire il tegame e cuocere a fuoco lento per una decina di minuti.
Poco prima di estrarle aggiungere peperoncino a seconda del gusto personale (qualcuno all’inizio della fase precedente ci aggiunge uno o due spicchi di aglio).
Le paparine ‘nfucàte pretendono un rosso generoso, naturalmente pugliese (tanto l’uva che il vino, altro non dico…). E…buon appetito!
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1 Vedi quanto detto nella sezione etimologica trattata nella prima parte.
2 Da oxýs=acuto e tonos=tono, forza (probabile riferimento all’effetto). La voce, comunque, riferita al papavero, ricorre solo in Dioscoride.
3 Composto da chamài=a terra e syke=fico (probabile riferimento all’andamento prostrato della pianta prima che si formi lo stelo).
4 Alla lettera: a capsula, da thýlacos=sacco, borsa, otre.
5 L’etimologia di base è la stessa di quella indicata in nota 1, ma si è passati dall’idea del cadere delle foglie a quella dello sgorgare della linfa.
6 Alla lettera: a forma di barile, da pithos=giara, botte, barile.
7 De materia medica, IV, 64-67.
8 I deipnosofisti, XV, 683
9 Si tratta di due distici elegiaci di ottima fattura. Eccone la scansione:
QUĪS TŪ / LAĒTĔ PŬ/ĒR // GĔNĬ/ŪS CŪR/ DĒXTĔRA Ă/RĪSTĀM
LAĒVA Ū/VĀS VĒR/TĒX // QUĪDVĔ PĂ/PĀVĔR HĂ/BĔT
HAĒC TRĬĂ/ DŌNĂ DĔ/ŪM // CĔRĔ/RĪS BĀCCHI /ĀTQUĔ SŎ/PŌRĬS
NĀMQUE HĪS/ MŌRTĀ/LĒS // VĪVĬTĬS/ ĒT GĔNĬ/Ō
10 Sinonimo neretino di sonnolenza. La voce indica, invece, il papavero a Palagiano nel Tarantino e a Seclì nel Leccese; il suo decotto a Ostuni nel Brindisino e a Manduria nel Tarantino. Il maschile indica il fiore del papavero nella forma papàgno nel napoletano e papàgnu nel calabrese. È interessante notare l’uso letterario (una volta era quello che consentiva poi al vocabolo di entrare nella lingua nazionale, oggi gli agenti veicolatori sono ben altri…) metonimico (l’effetto per la causa) di papàgna (nel senso di scappellotto, anche se non energico fino ad addormentare…) in autori contemporanei: “Lui dice scendendo le scale: -Ti dò una papagna sulla testa. Vergogna delle ossa che escono da tutte le parti! Guarda lì!-“ (Tiziano Sclavi, Non è successo niente, Mondadori, Milano, 1998, pag. 218); “Qualcuno mi ghignò in faccia, altri mi assestarono qualche calcio o papagna” (Nantas Salvalaggio, Rio dei pensieri, Mondadori, Milano, 1983, pag. 55).
prima parte:
seconda parte:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/29/la-paparina-il-papavero/
Grande Prof!
Eccezionale ricostruzione, mi è capitato di seguire il filone “Paparine e lapazzu”, come da famoso canto popolare. Oltre al riconosciuto Lapazio, Acetosa, per dare sapore alle paparine sembra che in alcune zone aggiungano lu “Rapazzu”, ossia i germogli del verbasco, che pur non essendo riconosciuta come pianta commestibile in questi luoghi viene cucinato insieme. Nello specifico ho ritrovato questa procedura nel basso salento e in Abbruzzo-