di Armando Polito
nome scientifico: Sinapis arvensis L.
nome italiano: senape selvatica
nome dialettale: sanapùddhu a Nardò, rapèsta a Calimera, Cutrofiano, Galatone, Galatina, Poggiardo, Seclì, Vernole e Veglie; rapìsta ad Aradeo, Bagnolo e Sogliano; lapìstra a Castro e Squinzano; laprìsta a Calimera e Parabita.
famiglia: Brassicaceae
Tra le specie vegetali spontanee commestibili del Salento occupa un posto privilegiato per il sapore particolare, esaltato da diverse opzioni di preparazione, su cui non sono assolutamente all’altezza per soffermarmi. Con la culinaria (attenzione agli errori di battitura…perché basta che ti sfuggano due spazi in più per trovarti in situazioni, almeno per chi, come me, ha ancora gusti “tradizionali”, spiacevoli…) non ho un buon rapporto; sono, però, almeno così dicono, un’ottima forchetta. Ogni tanto indosso pure i panni del divulgatore, come faccio ora, sperando che il Padreterno me la mandi buona. E lo faccio non per apparire come il “dotto” invocato nel post Torre Inserraglio, Salento. I sanàpi e una ricettina sciuè sciuè del 7 settembre u. s., a firma di Tommaso Esposito, che ho letto solo qualche giorno fa. La sua pubblicazione, evidentemente, era avvenuta in un periodo in cui il pc era andato in tilt e non ho potuto disporne se non dopo quattro o cinque giorni, un periodo breve ma sufficiente per non tenermi aggiornato con Spigolature salentine, il che la dice lunga sulla sua prodigiosa funzione di sviluppo della cultura non solo salentina. Poi il caso ha voluto che mi imbattessi nel post citato e…eccomi qui.
Cominciamo con l’etimologia. Una volta esclusa la possibilità da parte della pianta di sanare qualche malattia dei polli (i miei polli e galline, per esempio, neppure la guardano) e che, dunque, sia un termine composto da sanare e puddhi1 (=polli), bisogna enucleare –ùddhi che è un suffisso diminutivo, come succede, per fare un solo esempio, in crucùddhu=cavalletta, deformazione di *brucùllus, diminutivo del greco brykos, che ha lo stesso significato (il passaggio b->c– dovrebbe essere stato indotto per influsso della c della seconda sillaba).
La voce primitiva, infatti è sanàpi che, a quanto ne so, è usata da alcuni come sinonimo di sanapùddhi (senape selvatica, arvensis nel nome scientifico, da arva=campi), da altri per indicarne la varietà coltivata, entrambe della famiglia delle Brassicaceae (da bràssica=cavolo).
Sènape è uno dei rari esempi di parola italiana che ha conservato l’ accento della parola greca di origine (sìnapi o sìnapu o sìnepu o sìnepi), mentre la dialettale sanàpi ha seguito l’accentazione latina (siccome la a della voce greca è lunga, in latino è sinàpi o sinàpe o sinàpis). Il sanare, infine, cacciato, a proposito della forma dialettale, dalla porta potrebbe rientrare dalla finestra, a spiegare, per incrocio, il passaggio –e->-a-.
Tutte le altre denominazioni dialettali sono figlie del latino rapìstrum=rapa salvatica.
Passo ora agli autori antichi che di quest’erba si sono occupati, cominciando da quelli greci. Le testimonianze più remote, purtroppo, sono costituite per lo più da frammenti giunti fino a noi per tradizione indiretta2, il che pone spesso problemi interpretativi, come di norma succede, in qualsiasi campo, in assenza di un adeguato contesto. La miniera più ricca in tal senso è certamente l’opera I deipnosofisti (I dotti a banchetto) di Ateneo di Naucrati (vissuto probabilmente tra il II e il III secolo) in cui lo stesso titolo è tutto un programma, perché il banchetto non è assolutamente da intendersi in senso metaforico, sicché si è davanti ad un immenso trattato di culinaria in cui gli chef sono autori di cui non sapremmo pressoché nulla se Ateneo (a loro posteriore di almeno cinque secoli) non avesse genialmente pensato di riunirli per l’occasione e sui vari argomenti non li avesse fatti intervenire con citazioni tratte dalle loro stesse opere. Le erbe in questa piacevole e dotta conversazione hanno, come di dovere, un posto privilegiato e alla nostra è dedicato un lungo passo (IX, 366): “ Essendo stati serviti dei prosciutti e avendo detto uno che sono freddi Vipiano disse:- Dove questo sta scritto e chi ha chiamato la senape (sìnapu) napi (napy)? Perchè vedo che viene portata nei piatti insieme con i prosciutti (kolèa, di genere femminile)? So che il prosciutto è chiamato anche così, coscia (koleòs, di genere maschile), con nome maschile e non , come i nostri compaesani ateniesi, solo con un nome femminile. Epicarmo in Megaridecosì dice: -Salsiccia (chordé, di genere femminile), piccola forma di formaggio, vertebre e tra i cibi neppure un prosciutto indicato con un nome maschile . E nel Ciclope : -Intestini, cibo soave, per Giove!, e la coscia-. O sapientissimi, sappiate da me pure questo, che Epicarmo diede il nome di salsiccia (chordé) a quello che allora di solito chiamava prosciutto (orýa, di genere femminile). E vedo il sale come condimento in altri cibi…Così nominò la senape (sìnepu) Nicandro di Colofone in Antidoti: -o anche limatura di rame o senape (sìnepu)-. In Georgiche: -I semi piccanti di senape- e di nuovo: -La senape che ha le foglie nere…-. Crates nei libri sulla lingua attica presenta Aristofane che dice: -Vide la senape (sìnepu) e contrasse il volto-, come disse Seleuco nei libri sul corretto uso della lingua greca. Ci resta poi un carme de I cavalieri che dice: -E vide il napi (napy)-. Nessuno degli abitanti dell’Attica disse senape (sìnapu). Ognuno dei due termini ha la sua ragione. Infatti napi (napy) è come nafi (nafy) poiché è privo (afyès) della natura, insignificante e piccolo, come anche l’acciuga (afýe)4. (Si dice) senape (sìnapu) poiché nuoce (sìnetai) agli occhi (opas)5col suo olezzo, come fa anche la cipolla, poiché restringe le pupille (koras)6. Il commediografo Senarco in Sciti disse: -Questo male non è ancora un male. La mia figliola è irritata (sesinàpike)7 a causa di una straniera-”8.
Più avanti nello stesso libro Ateneo fa parlare Antippo che ne L‘uomo che si nasconde, da altri autori attribuito non senza dubbi ad Anasippo (IV-III secolo a. C.), così dice: “Il palato dei vecchi ha una differenza: è molto più tardo di quello dei giovani. Ai vecchi servo la senape e preparo succhi dal gusto aspro perché dopo averli eccitati li riempia di aria“.9
Nicandro di Colofone10 (II secolo a. C.) nel suo Alexiphàrmaca (Antidoti) propone questo rimedio contro l’avvelenamento da funghi che, secondo lui, sono diventati nocivi per essere venuti a contatto con una vipera o per averne assunto il fiato: “Prendi la testa di un sinuoso cavolo, oppure recidi un rametto di ruta, prendi se è il caso un pizzico di limatura di vecchio rame, getta un po’ di cenere di clematide nell’aceto e trita il tutto; aggiungici piretro o nitro o una foglia di nasturzio, il medo e la piccante senape (sìnepu).“11
Dopo i poeti è la volta dei medici. Dioscoride Pedanio (I secolo d.C.) che così parla dell’olio di senape (sinapèlaion) nel capitolo 38 del libro I della sua opera: “L’olio di senape si prepara dopo aver tritato la senape (sìnepu) ed averla fatta macerare in acqua fredda, con l’aggiunta successiva di olio e spremitura; giova contro i dolori cronici come componente “.12
Oribasio (IV secolo d. C.) dedica al senapismo (vedi nota n.7) l’intero capitolo 13 del libro X della sua opera scritta in greco ma giuntaci nella traduzione latina del V o VI secolo: ”Il cataplasma che si prepara con la senape (sinàpi) è alquanto efficace perché è consigliato non solo nelle malattie acute. Lo usiamo da solo nei casi di fiacchezza e stordimento, nelle malattie croniche, per quasi tutte le infermità di lunga durata; laddove abbiamo constatato che più debole è l’efficacia degli altri rimedi e non in grado di opporsi alla malattia, il senapismo (nel testo sinapìsmus) è efficacissimo. Ma tuttavia in presenza di pus e perdita di liquidi da una lesione che riguardi il fegato non consigliamo il senapismo, neppure in qualche altra ulcerazione che riguardi le parti intime, appunto perché diventano acuti e sono resi feroci dall’asprezza della senape; anzi bisogna guardarsi dall’usarla nelle parti cartilaginee, come nelle orecchie e nelle narici infiammate e ogni qual volta quelle che sono prive di carne e le parti cartilaginee siano annerite; invece tutte le altre parti del corpo e le malattie croniche traggono giovamento da questo rimedio. I rilassamenti del pene e della vescica ne hanno un grande aiuto e allo stesso modo tutte le parti rilassate. Anche nell’intestino retto rilassato si introduce una pallottola di senape. A coloro che hanno difficoltà di udito un unguento preparato con la senape pestata viene applicato alle orecchie e una volta che la parte abbia in qualche modo percepito l’effetto del preparato, tolto con un panno l’unguento, si lava la parte con idromele. Nel caso in cui la parte è carnosa o meno sensibile si ponga fine al trattamento solo quando l’infermo sente un violento dolore, la carne è diventata un po’ nera e sollevata rispetto a quella circostante e le vesciche sono leggermente sollevate; per le malattie e per le parti facilmente sensibili bisogna usare la senape più moderatamente, finché la carne non diventi un po’ rossa. Quest’uso moderato non sarà vano se si sarà usato il senapismo sempre un giorno sì e uno no oppure per due giorni, affinché l’uso continuato abbia l’efficacia di un unico robusto trattamento. Certamente c’è un limite per l’uso continuato, quando le parti trattate e spamate col sinapismo non hanno alcuna senzazione di dolore. Nelle malattie acute raramente applichiamo questo tipo di rimedio: solo in caso di catalessi e in tutti gli altri casi di eccessiva tendenza al sonno, come succede in caso di febbre e di catalessi e di escoriazione che bruci dolorosamente. Procuriamo col senapismo contrazioni alle gambe di coloro che sono eccessivamente soggetti al sonno e in coloro che sentono molto freddo alle gambe e alle braccia. Per il resto la senape vada applicata in uno strato sottile a tutti gli altri dopo aver coperto la parte con un panno di lino. Il senapismo si prepara in questo modo: bisogna il giorno prima macerare fichi secchi in acqua tiepida; il giorno successivo dopo aver strizzato con forza l’acqua vanno pestati energicamente; a quel punto prendere senape pungente, come è quella della Siria e dell’Egitto, e pestarla da sola versando poco a poco l’acqua in cui sono stati macerati i fichi perché così si amalgama meglio. Poi si formino due ammassi , uno di fichi, l’altro di senape. Il senapismo sarà più energico se aggiungeremo due parti di senape ad una di fichi,di media forza se sarà preparato con due parti uguali; se poi riesce poco forte aggiungeremo un terzo di senape due terzi di fichi. Si usa spalmato sul lino o su un panno qualsiasi. La parte cui si deve applicare il senapismo prima dev’essere prima spalmata di nitro, poi va applicato il cataplasma e il tutto va protetto con una fascia. Il senapismo va usato al sole o in una casa esposta al sole e preferibilmente prima del bagno. Non si può determinare a priori quanto deve essere lasciato poiché alcuni ne sentono l’efficacia prima, altri dopo. Perciò spesso bisogna osservare la parte per vedere se si è sufficientemente arrossata. Se dopo un lungo tempo il senapismo applicato non agisce, imbevuta di acqua calda una spugna e collocatala nel panno in cui c’è il cataplasma, bisogna riscaldare la parte. Una volta usato più che a sufficienza il senapismo, il malato sia condotto al bagno e, lo si bagni tutto perchè si rilassi moderatamente, comprese preferibilmente le parti alle quali è stato applicato il senapismo; queste però non siano unte e se il malato sembra sopportarlo lo deve sopportare ed entrare di nuovo nel bagno ed essere bagnato senza, beninteso, essere unto neppure allora. Laviamo pure parecchi senza ungerli fino al giorno seguente. Dopo l’ultimo bagno ungiamo le parti con olio di rose. Se il dolore diventa violento e si sono formate pustole: le parti devono essere trattate con lana imbevuta di acqua e di olio di rose o anche con olio di mandorle misto ad acqua, meglio ancora se invece dell’acqua si usa succo di malva. In coloro che il dolore tormenta, la parte va spalmata con malva ben cotta o da sola o con pane; quando il dolore sarà cessato useremo un cerotto all’olio di rose con biacca. Gli affetti da sonnolenza e quelli che soffrono di malattie acute devono essere lavati, gli altri ai quali è stato applicato il senapismo li ungiamo con olio e lo stesso facciamo con quelli che hanno carni estremamente delicate. In quelli per i quali usiamo il senapismo non per le parti più superficiali ma per quelle che stanno vicino alla pelle va mescolato alla senape pane reso liscio invece dei fichi. Bisogna sapere anche che se si macera la senape nell’aceto vien fuori un cataplasma più debole, se nell’acqua meno pungente. Coloro che applicano il senapismo alle orecchie devono fasciarle con un panno o con una doppia fascia di lino; se viene applicato ai malleoli bisogna prima ungerli con olio, poi fasciarli con un doppio strato di lino”.13
Passo alle più significative testimonianze degli autori latini. La nostra erba ha l’onore della citazione in due commedie di Plauto (III-II secolo a. C.): “Si macina la scellerata senape (sinàpis) che fa lacrimare gli occhi ancor prima di macinarla”; “Se, per Castore, quest’uomo si ciba di senape non credo che possa essere tanto triste”14.
Ampio spazio le dedica, pure con riferimento alla sua coltivazione, Columella (I secolo d. C.): “In periodo non diverso si piantano anche il cappero, merce da conserviere, le amare enule, le minacciose canne, i serpeggianti cespi di menta e si spargono i fiori dell’aneto dal gradito profumo…“; “La senape (sinàpi) e il coriandro nonché la rucola e il basilico rimangono al loro posto come furono piantati e non bisogna fare altro che letamarli e sarchiarli…Anche le piantine della senape trapiantate all’inizio dell’inverno sviluppano più cime”; ecco come la senape entra nella preparazione, credo a lunga scadenza, delle rape: “Raccogli rape quanto più rotonde, se sono sporche lavale, con un coltello affilato elimina la corteccia superficiale; poi, come sono soliti fare i conservieri, con una mezzaluna fa un taglio ad x facendo attenzione a non trapassare la rapa da parte a parte. A questo punto spargi del sale non troppo fino nel taglio e sistema le rape in una catinella o in un vaso di terracotta e, dopo averle cosparse abbondantemente di sale, lasciale trasudare per tre giorni. Al terzo giorno assaggia un pezzo interno di rapa per controllare se il sale ha fatto effetto; poi, quando ti sembrerà che ciò sia avvenuto, toglile tutte e lavale una per una col loro stesso liquido, oppure, se non ce n’è molto, aggiungi salamoia concentrata e così lavale e poi sistemale in una cesta quadrata di vimini che sia fatta a maglie nontroppo strette ma robuste. Allora posaci sopra una tavola tale che possa arrivare, se è necessario, al fondo della cesta; mettici sopra un grosso peso e lasciale ad asciugarsi per un’intera notte e per un giorno. Fatto questo sistemale in un contenitore di terracotta impeciato o di vetro e spargi senape e aceto fino a che non siano coperte”; ed ecco, infine, la ricetta per preparare un aceto particolare: “Lava accuratamente e passa al setaccio il seme della senape; poi lavalo con acqua fredda e quando sarà ben pulito lascialo a mollo in acqua per due ore, quindi toglilo e pestalo in un mortaio nuovo e ben pulito. Quando sarà stato sminuzzato raccoglilo tutto al centro del mortaio e comprimilo col palmo della mano. Fatto ciò, fai delle incisioni e, messici pochi carboni vivi, versa acqua nitrata perché vadano via il sapore amaro e il color giallo. A questo punto inclina immediatamente il mortaio perché tutto l’umore scorra via, poi aggiungi aceto bianco forte, batti col pestello e filtra. Questo succo è splendidamente adatto a condire le rape. Del resto, se vuoi prepararlo per ogni uso, una volta fatta scolare la senape, aggiungi pinoli freschissimi e amido e pesta accuratamente dopo aver versato dell’aceto. Fa’ il resto come ho detto prima. La senape così trattata potrai adoperarla non solo come salsa piccante ma come qualcosa di particolare; infatti è di una bianchezza eccezionale se è fatta con cura”15.
Per non fare io stesso, oltre che farla fare al fin qui paziente lettore, indigestione di senape, chiudo con il principe dei naturalisti, Plinio (I secolo d. C.): “Nell’equinozio di autunno…si seminano il coriandro, l’aneto, l’atriplice, la malva, il lapato, il cerfoglio che i Greci chiamano pederoto e la senape (sinàpi) dal sapore piccantissimo, effetto di fuoco e molto salutare per il corpo; non ha bisogno di alcuna coltura anche se la cresce meglio quando è trapiantata. Al contrario, una volta che sia stata seminata, non è più possibile eliminarla dal campo perché il seme, che cade subito, subito nasce. La si usa come vivanda cotta in padella in modo che appena si senta il suo sapore piccante. Si cuociono anche le foglie, come per le altre erbe. Ce ne sono tre specie: una sottile, l’altra simile nelle foglie alla rapa, l’ultima alla rucola. Ottimo seme è quello egizio. Gli Ateniesi la chiamarono napi, altri tapsi, altri ancora saurio”; “La senape, della quale nominammo tre specie tra le erbe coltivate, secondo Pitagora detiene il primato tra quelle la cui forza sale in alto, poiché nessuna più di essa penetra nel naso e nel cervello. Pesta con l’aceto viene applicata ad empiastro contro i morsi dei serpenti e degli scorpioni. Neutralizza il veleno dei funghi. Contro il raffreddore si tiene in bocca finché non si scioglie o si fa il gargarismo con acqua mista a miele. Viene masticata contro il mal di denti, in caso di malattia all’ugola viene gargarizzata con aceto e miele. È utilissima contro tutte le malattie dello stomaco e dei polmoni. Assunta col cibo rende facile l’espettorazione e viene somministrata anche agli asmatici, nonché col succo di cocomero negli attacchi di epilessia. Purga i sensi e con gli starnuti il capo, mollifica l’intestino, stimola il ciclo mestruale e la diuresi. Si somministra agli idropici, pesta con fico e cumino nella dose di un terzo. Giova all’epilessia e mescolata con aceto e col suo odore rianima le donne soffocate da un attacco isterico, allo stesso modo giova ai letargici. Si aggiunge il tordilio che è il seme del sesili. Se un sonno profondo ha preso i letargici, si spalma con fico ed aceto sulle gambe e sulla testa. Con il suo potere caustico cura i vecchi dolori del torace, dei fianchi, delle gambe, degli omeri e i disturbi che vanno eliminati dal profondo, creando, dopo che è stata spalmata, delle vesciche. Se la parte è molto dura si applica senza fico e se si ha paura di ustionarsi si utilizza un doppio panno. Si usa contro l’alopecia insieme con l’argilla rossa, contro la rogna, la lebbra, la ftiriasi, l’impetigine, l’opistotono. La spalmano pure col miele sulle guance screpolate o sugli occhi offuscati. Si estrae il succo in un vaso di terracotta e lo si lascia riscaldare al sole moderatamente. Dal gambo fuoriesce un succo simile al latte che, una volta indurito, cura il mal di denti. Il seme e la radice dopo che sono stati immersi nel mosto vengono pestati e bevuti nella dose che sta in una mano per tonificare la gola, lo stomaco, gli occhi, il capo e tutti i sensi e sono efficaci anche contro la stanchezza femminile. La senape bevuta nell’aceto elimina pure i calcoli. Si applica con miele e grasso d’oca o cera di Cipro come cataplasma sui lividi. Dal seme macerato nell’olio e spremuto si ricava un olio che viene usato contro l’irrigidimento dei nervi e per frizionare i fianchi e le gambe”16.
_______
1 Puddhu [dal latino pullu(m)=animale giovane, da cui l’italiano pollo] nel dialetto salentino esiste ma a seconda delle zone designa la larva delle api oppure il salvadanaio di creta (per la somiglianza con la testa di un bambino), non il pollo adulto (jàddhu; per la par condicio, la femmina è iaddhìna) o giovane (jaddhùzzu e , sempre per la par condicio, puddhàscia).
2 Cioè non presenti in manoscritti recanti parte dell’opera di un autore o la sua opera intera (tradizione diretta), ma solo grazie a citazioni tramandateci da altri autori.
3 Traduco dal testo originale dell’edizione Fragmenta comicorum Graecorum a cura di A. Meineke, Reimer, Berlino, 1840, vol. III, pag. 624
4 Qui viene stabilito un parallelo etimologico tutto da verificare tra l’aggettivo afyès (da a privativo+fyo=produrre, a sua volta connesso con fysis=natura) e il sostantivo afýe.
5 Altra etimologia tutta da verificare: sìnapu sarebbe parola composta dalla radice sin– del verbo sino=nuocere e dalla radice op– di ops=occhio; come proposta sarebbe perfetta se si fosse sviluppato sìnopu e non sìnapu.
6 Approfitto dell’occasione per mettere in risalto un concetto comune al mondo greco e a quello romano. Kore in greco significa ragazza e, per traslato, bambola, figurina, pupilla (per la figurina che vi si vede riflessa); il latino pupìlla(che è diminutivo di pupa=fanciulla, bambola) significa fanciulla minorenne,orfanella, pupilla. Inutile dire che le voci italiane pupillo e pupilla (quest’ultima nel doppio senso di minorenne sottoposta a tutela o soggetta a particolare predilezione, come per la voce maschile, e di parte dell’occhio).
7 Da sinapìzo=applicare dei senapismi (cataplasma fatto con farina di senape nera impastata con acqua e, per traslato, cosa assai molesta o persona intollerabile). Sui senapismi, comunque, vedi più avanti nel testo.
8 Traduco dal testo originale dell’ edizione Athenaei Deipnosophistai libri XVuscita a Lipsia nel 1868 per i tipi di Tauchnit, pagg. 262-263.
9 Athenaei…, op.cit., pag. 333.
10 È lo stesso autore prima citato in Ateneo, uno dei pochi del quale abbiamo anche l’opera per tradizione diretta. Facendo il confronto tra il testo originale e la citazione il lettore si renderà conto di quanto sia pieno di rischi, per non dire aleatorio, il campo in cui la filologia si muove. Meno male che almeno la voce che ci interessa è riportata in entrambi i casi nella stessa forma (sìnepu).
11 Vv. 527-533; traduco dal testo originale dell’edizione a cura di M. Bandinio, Ex officina Moückiana, Firenze, 1764, pagg. 238-240
12 Traduco dal testo originale dell’edizione Pedanii Dioscoridis Anazarbei De materia medica tres, a cura di C. Sprengerl, Cnobloch, Lipsia, 1829, tomo I, pag. 52.
13 Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di G.B. Rasatio Oribasii Sardiani collectorum medicinalium libri XVII, Aldo, Parigi, 1555, pagg. 174-175.
14 Pseudolus, atto III, scena 2, v. 28; Truculentus, atto II, scena II, vv. 60-61. Traduco dal testo originale dell’edizione M. Accii Plauti comoediae superstites viginti, Davison, Londra, 1823, pagg. 109 e 55.
15 De re rustica, X, 117; XI, 29; XII, 56; XII, 57. Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di G. Scheider, Antonelli, Venezia, 1846, pagg. 601, 679, 803 e 804.
16 Naturalis historia, XIX, 54 e XX, 87.Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di L. Domenichi, Antonelli, Venezia, 1844, vol. I, pag. 1799 e vol. II, pagg. 91-93.
Armando, grazie.
Invocavo una ricerca come la tua su Lu sanapùddhu perché se ne sentiva la mancanza.
Finalmente adesso l’orizzonte gastronomico di questo vegetale è chiarito.