LETTERATURA GASTRONOMICA
IL BIANCO MANGIARE,
antica ricetta salentina
Nel latte ricavato dalle mandorle, la vigilia di Natale, si cuocevano li passaricchi di pasta, aggiungendo zucchero e insaporendo, a cottura avvenuta, con molta cannella e manciate di canditi.
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Venivano nei giorni precedenti il Natale, avvolte nei lunghi scialli e dondolando i fianchi, diventati enormi per via delle gonne arricciate. Arrivavano di prima mattina, ciarliere come le gazze, con un sorriso appena accennato sul viso cotto dal sole: Peppa, Cìa e Ssunta, le tre contadine che, nei periodi di maggiore lavoro, venivano ad aggiungersi alle due domestiche.
Appena arrivate, sgusciavano oltre il cortile, in una stanza grande dalla volta bassa sagomata a spigoli, tanto da sembrare una stella. Più che una stanza poteva dirsi un salone, anche se i lunghi tavoli appoggiati al muro e le vasche di pietra allineate al centro ne limitavano lo spazio.
“San Martino ti cresca il lavoro” si auguravano in dialetto l’un l’altra prima di cominciare, e si segnavano col pugno chiuso, quasi per completare una cerimonia, un rito che per me, rimasta a curiosare sull’uscio, aveva un certo che di misterioso, un fascino che si sommava a quello del Natale vicino.
Rimanevo con loro, accoccolata su uno sgabello, con la bambola in grembo e gli occhi fissi al loro sfaccendare. Avevo poco più di cinque anni e non mi badavano mentre si raccontavano le loro pene. Parlavano in fretta, quasi a sincronizzare il suono delle parole con i colpi di martello, battuti con decisione sulla corteccia dura delle mandorle.
Quando i tavoli risultavano sommersi da una massa di mandorle schiacciate, si sospendeva il ticchettio, per separare il gheriglio dalla corteccia e versarlo, a larghe manate, nelle vasche di pietra. Poi, attinta l’acqua con le giare di coccio, colmavano le vasche, lasciando le mandorle a gonfiarsi.
Uscendo, chiudevano a chiave la porta, come a tutelare una congiura e, a fila indiana, si avviavano in cucina, dove un mucchietto di farina bianchissima era già pronta sulla piattaforma di marmo. Sistemata a cono, con un pozzetto nel centro a forma di cratere, mi dava l’idea di un vulcano pronto per l’eruzione ma, al posto della lava, scorreva acqua tiepida, mentre le mani di Cìa, a scatti nervosi, impastavano a lungo.
Ne veniva fuori una palla di pasta molto densa, dalla quale, con una lestezza invidiabile, a pizzicotti, le donne traevano dei pezzettini che, strofinati fra pollice e indice, assumevano la forma di sottilissimi pinoli. Una specie di chiodini che le donne chiamavano “passaricchi” e che disponevano in un grande staio per farli asciugare.
Dopo due giorni di sospensione si riprendeva il lavoro, togliendo le mandorle dalle vasche per sgusciarle. Dalla loro camicia marroncino saltavano fuori bianche, lucide, e ammucchiate davano l’idea di una risata aperta, incontenibile. Anche le donne apparivano meno addolorate e attendevano, con una specie di euforia, l’ingresso di Gaetano.
Arrivava sul mezzogiorno, con il suo berretto da campagnolo e la giacca scura dei giorni segnati; se ne liberava subito, arrotolando le maniche della camicia a quadri e sistemando – operazione preliminare – il grande mortaio di marmo sul tavolo centrale. Con un peso di bronzo, si dava poi a pestare le mandorle sino a ridurle in poltiglia. E man mano che il lavoro andava avanti, le donne raccoglievano la poltiglia in sottili fazzoletti bianchi che immersi, così pieni, nell’acqua fresca e strizzati, davano fuori un latte bianchissimo.
In quel latte, la vigilia di Natale, si cuocevano i pinoli di pasta, aggiungendo zucchero e insaporendo, a cottura avvenuta, con molta cannella e manciate di canditi.
Ne veniva fuori un dolce cremoso, gustosissimo, che, certo per via del suo colore, si chiamava “Bianco mangiare”.
Se ne preparava in abbondanza, giacché era uso della famiglia riunire, la notte di Natale, contadini e giardinieri per il consueto cenone di mezzanotte.
Il ritrovo avveniva nella cantina più vasta, quella sottostante al salone delle feste, dove fra botti piene di malvasia e orci ribollenti di “aleatico” si preparava un tavolo lunghissimo, magicamente illuminato da lanterne.
I natali della mia infanzia sono rimasti caratterizzati da quella cena e dal “bianco mangiare”. Più volte, trascinata dal ricordo nostalgico, ho ridato vita alla vecchia ricetta, anche se la turbinosa realtà dell’oggi non consente lunghe soste in cucina.
L’ultima volta l’ho preparato per Peppa. Tornata nella mia terra salentina, me la vidi venire incontro con il viso incartapecorito e negli occhi la distaccata lontananza di chi sta per andarsene. Era la sola a portare ancora la lunga gonna arricciata e a vederla camminare tra lo sfrecciare dei motori e l’irrompere delle ragazze in minigonna, dava l’idea di un fantasma, risvegliato per il compimento di chi sa quale missione.
Mi abbracciò piangendo e continuò a piangere, mentre rivangava i natali del passato. “Vorrei riviverli”, ripeteva.
Non era Natale, ma io volli preparare ugualmente una scodella di “bianco mangiare”, con tanta cannella e tutto un ricamo di canditi.
“Cìa, Ssunta e Ccaitànu no nci sontu cchiùi” (“Lucia, Assunta e Gaetano non ci sono più”) diceva piano “sono morti e io, soltanto io sono rimasta…”!. E si annodava più forte il fazzoletto e si segnava, guardando il “Bianco mangiare” così come si guarda la foto dei propri morti.
Da “L’APOLLO BONGUSTAIO”, ALMANACCO GASTRONOMICO PER L’ANNO 1970, a cura di Mario Dell’Arco (Dell’Arco Editore in Roma).
Tenendo presente che il volume gastronomico uscì nel dicembre del 1969, si può stabilire che la pubblicazione di questo racconto risale esattamente a 42 anni or sono, periodo di tempo più che sufficiente ormai per svelare l’esatta identità di una delle tre donne protagoniste, alla quale – essendo ancora viva al momento della scrittura – la Giulietta, per evitarle qualche possibile sgridata da parte dei figli o parenti, preferì chiamarla Peppa e non Cuncetta qual’era il suo vero nome. Cuncetta, detta “la curfiòta”, ossia Concetta Rizzo (1882-1972), morta a 90 anni.
Che fosse l’unica anziana in paese a portare ancora “la lunga gonna arricciata” è vero, ed io ricordando le sue visite e associando la figura al nomignolo “curfiòta” (“di Corfù”) giustifico, anzi do la reale motivazione, a tanti suoi esasperati gesti da vero teatro greco, venendomi addirittura il dubbio che da giovane potesse essere stata una “chiangimuérti” (“prefica”).
Nessuno può immaginare la scena a cui io assistevo ogni qualvolta veniva a trovarci: appena finito di salire la scala, si stendeva a pancia in giù a terra tra pianerottolo e sala d’ingresso e, a braccia aperte, baciava il suolo mentre con la destra tracciava un segno di croce. Un’operazione a vietare la quale non c’erano mezzi di convincimento e che la Giulietta attribuiva ad arcaiche regole di sudditanza dovute a reminiscenze bibliche, cioè al gestuale rispetto, anzi riverenza, che i pastori ebraici mettevano in pratica quando, in prossimità della Pasqua, si recavano a Gerusalemme per adempiere, presso il Tempio di Salomone, all’annuale offerta di agnelli.
Gestualità affettiva, da parte della Concetta, che continuava per almeno cinque minuti dopo essersi messa in piedi: baci, abbracci, sbracciate e pianti a non finire intercalati da un continuo “Beddhra… bbeddhra mia…” E rivolta a me “… ca jò l’àggiu crisciùta… jò l’àggiu purtàta am brazze!…” Una scena teatrale, ripeto, sicuramente invidiata da una delle migliori attrici, anche perché da inquadrare nel contesto visivo del personaggio: gonna arricciatissima fino ai piedi, facciulittòne (scialle) in testa e volto da pagnottella che – senza un dente in bocca – era di una bellezza espressiva notevolissima, caratterizzato da una geografia di fitte rughe da sembrare uno speciale mappamondo.
E’ vero che la Concetta era stata presso la famiglia già da bambina, cresciuta dalla bisnonna, per cui l’affetto poteva essere verace; è vero che la Giulietta era amata da tutti, soprattutto dalle classi subalterne, nel senso che di lei si fidavano; pur tuttavia a me, che mi trovavo “nuovo” al cospetto di tali esagerate manifestazioni, dava l’idea di trovarmi – e non soltanto con la Concetta – in platea ad assistere a delle finzioni sceniche. E sto calcando su questo concetto per mettere in risalto quanto nella narrazione la Giulietta fu parca nello sbozzo dei personaggi, rivelando anche qui il suo carattere asciutto, di donna di pochissime parole.
Questa mia precisazione mi è sembrata doverosa sia nei confronti del lettore e di riflesso dell’autrice – che viene così riscattata dall’aver camuffato l’identità del personaggio -, sia nei confronti, appunto, di Concetta, quasi un renderle giustizia per essere stata disconosciuta – al cospetto dei suoi tre compagni di lavoro e della società del tempo – di un’esperienza esistenziale che l’ha sottratta alla realtà storica. Sì, perché nel bene e nel male – e nessuno di noi oggi è in grado di giudicare – il tutto è racchiuso in una realtà storico-antropologica dove la ricchezza e la miseria, il potere e la sudditanza, la nobiltà e il proletariato non sono da addebitare agli uomini per i contingenti ruoli rappresentati, ma alla legiferazione governativa che approvava o imponeva gli stessi ruoli. E’ un po’ come succede nelle dittature; un po’ come sta succedendo oggi con uno Stato che intende mettere a dieta i pensionati; ed è come potrebbe accadere se lo stesso Stato decidesse di togliere le pensioni facendo tornare alla povertà dei tempi rappresentati nel racconto. E se a quei tempi molti giovani contadini per vincere la fame occuparono le terre d’Arneo, parecchi dei quali facendosi ammazzare, cosa potrebbero fare oggi i vecchi pensionati? Occupare Roma facendosi ammazzare davanti al Palazzo del Governo?
Sapori e ricordi del cuore, grazie❤️
Delizioso il racconto, e ‘ngraziata anche la noticina a commento!
Sì, ma chi è la… Giulietta⁉️
è la moglie dell’autore, entrambi deceduti