di Paolo Vincenti
Sulle tavole salentine il Natale è allietato da una quantità notevole di delizie e ghiottonerie nostrane, come le pittule, di cui abbiamo già ricordato la leggenda sull’origine di queste frittelle, che possono essere semplici oppure dolci, zuccherate e ripiene di mela, o ancora salate ripiene di cavolfiore lesso, di cime di rape lesse o con pomodorini, cipolla, olive nere e peperoncino, o ancora con pezzetti di acciughe sotto sale.
Il Natale, la festa più magica dell’anno, porta con sé infinite tradizioni, riti, leggende, proverbi e detti popolari, che uniscono il sacro al profano, documentati da molti studiosi di tradizioni popolari nelle loro pubblicazioni.
Facciamo allora un tuffo nel Natale del passato, per vedere come questa festa veniva vissuta dai nostri antenati. Secondo la tradizione i piatti del pranzo di Natale dovevano essere tredici anche se, in passato, le condizioni economiche della famiglia non erano certo molto buone ed allora si contavano anche gli ingredienti per poter arrivare al canonico numero di tredici. Sicuramente non potevano mai mancare ciciri e tria, i purciddhuzzi e le ncarteddhate.
I purciddhuzzi, così chiamati perché essi avevano la forma del muso di un porcellino, fritti in olio bollente e decorati con confettini, sono una ricetta di derivazione persiana, portata dagli Arabi in Spagna e poi dagli Spagnoli in Puglia.
Le ncarteddhate, fritte e cosparse di miele, erano servite insieme ad altri dolci, come gli anisetti, che erano dei piccoli e policromi confetti, simili a chicchi di grano, e il pesce di mandorla, che richiamava il Cristo, rappresentato nell’iconografia cristiana dei primi secoli con il simbolo del pesce, che molto spesso compariva nelle catacombe dove si rifugiavano i cristiani perseguitati. A proposito delle ncarteddhate, alcuni studiosi fanno derivare questo dolce da una specialità marocchina, anzi dal dolce più tipico del Marocco, la cebakeia, preparato durante il periodo del Ramadan. Questo dolce, ottenuto mescolando insieme farina, zucchero, uova, olio, fiori d’arancio, cannella, sesamo, semi di finocchio e lievito, fritto in pezzi cosparsi di miele caldo e semi di sesamo arrostiti, è straordinariamente simile alle nostre ncarteddhate, pur essendo frutto di una cultura religiosa completamente diversa e lontanissima ( quella musulmana) dalla nostra. Nelle ncarteddhate, A.E.Foscarini ha individuato come derivazione quei dolci che nell’antichità i salentino offrivano alla Dea Minerva, protettrice della Terra D’Otranto, in occasione delle “Quinquatrie”, cioè le feste in onore della dea che si celebravano dal 1 al 15 marzo.
Le pittule, ottime se mangiate calde, appena tolte dall’olio di frittura, potevano essere accompagnate da lu cottu, cioè il vin cotto, e, insieme alle pucce e ai taraddhi, accompagnavano tutto il periodo natalizio. Fra le ricette salentine di questo periodo, vi erano i caranciuli,dei bastoncini grossi quanto un dito, tagliati a tocchetti, avviluppati di miele e cosparsi con cannella e confettini, e poi, per la gioia del palato di grandi e piccoli, scajozzi, cupeta, pane cottu.
Nei paesi della Grecìa Salentina, immancabili sono li jermiceddhi cu lu ronghettu, le sagne ncannulate e i classici pezzetti de cavaddhu; ancora, rape nfucate, li turcinieddhi, la pasta al forno, i peperoni arrostiti, il capitone e poi la carne, preparata in tutti i modi, frutta di stagione, dalle arance ai mandarini clementini, alle mele e alle pere, e i fichi secchi con le mandorle.
Si è perduta anche la memoria del rosoliu, un liquore zuccheroso fatto in casa che suggellava l’abbondantissimo cenone della vigilia. Dalla strada veniva il fracasso dei tronetti, i tricchi tracchi, fatti esplodere in segno di gioia.
Dopo la mezzanotte, ci si scambiava i doni sotto l’albero, si deponeva il Bambinello nella mangiatoia e ci si faceva gli auguri per un altro Natale arrivato, quello più bello, il Natale dei ricordi.