A Natale il verbo preferire mia suocera lo usa così… e come si fa a darle torto?
di Armando Polito
La celebrazione dell’Immacolata costituisce il primo collaudo psico-fisico in vista delle grandi manovre culinarie del lungo periodo festivo immediatamente successivo e le pèttule1 ne sono l’immancabile bandiera.
Si tratta di un impasto di farina di forma tondeggiante, lasciato adeguatamente lievitare e poi cotto nell’olio bollente. Le forme più “ricche” prevedono l’inglobamento di cavolfiore o cicoria o capperi o baccalà o alici in salamoia o funghi.
La facilità (relativa all’esperienza…) di preparazione ha dato vita al detto E cce sso’, pèttule? per indicare qualcosa che non può essere fatta in breve tempo e che richiede un certo impegno. L’appiccicosità dell’impasto, poi, ha dato vita ad espressioni del tipo quìddhu ete nna pèttula riferito a chici sta insistentemente appresso o ci annoia (in questo secondo caso con un significato simile all’italiano che pizza!)
Per il Rholfs pèttula è diminutivo di pitta, un tipo di focaccia, fatto derivare dubitativamente dal greco pitta o pissa=pece1; per l’insigne studioso, inoltre, pèttula per traslato ha dato vita alla identica voce che indicava uno dei due lembi posteriori della camicia di un tempo. Si può facilissimamente constatare come il greco pitta/pissa non potesse andar meglio dal punto di vista fonetico ma appare piuttosto traballante da quello semantico (anche se il pensiero vola subito alle olive nere, ingrediente fondamentale della nostra pitta rustica), da cui, credo, il dubbio dello stesso studioso tedesco2.
Dubbi, invece, non ha mia suocera (si chiama Concetta, 87 anni), formidabile forchetta dallo stomaco di amianto e dal fegato di acciaio, nonostante il diabete. L’8 scorso festeggiava il suo onomastico e davanti ad una tavolata di una trentina di persone (solo trenta, perché parecchi componenti della numerosa discendenza erano fuori sede, altrimenti saremmo stati almeno il doppio) alla domanda: “Nonna, quale pèttula preferisci?” ha fulmineamente risposto: “Preferiscu queddha a ssola e queddha cull’alice e queddha cu llu caulufiùru e queddha cu llu bbaccallà e queddha cu lli fungi, e queddha ssuppàta intr’a llu mele e queddha ssuppàta intr’allu cuèttu e…sirà ca sta mmi ‘ndi scordu quarchetùna…”3. All’enunciato è seguita la pronta dimostrazione…
Il problema è che fa così con qualsiasi preparato abbia delle varianti più o meno significative, nonché quando sarebbe più opportuno per la salute gustare solo uno dei tre dolci natalizi di cui ora parlerò, o tutti, ma in modica quantità o porzione ridotta: cartiddhàte, purciddhùzzi e scagliòzzi.
Le cartiddhàte sono strisce di pasta fritte e poi cosparse di miele.
Il nome secondo il Rohlfs deriva dal siciliano cartèddha=cesta, per la forma che rassomiglia ad un intreccio; cartèddha, aggiungo io, è dal greco càrtallos=paniere con chiusura a punta, da kurtòs=arrotondato. Propongo, invece, la derivazione dallo spagnolo cartìlla, diminutivo di carta=carta, dal latino charta(m), dal greco chartes=papiro (in italiano cartiglio, con la stessa etimologia, indica il rotolo di carta parzialmente svolto, scolpito o dipinto, usato come elemento decorativo specialmente nei secoli XVII e XVIII); d’altra parte lo stesso Rohlfs nel terzo volume del suo Vocabolario mostra di propendere, anche se non chiaramente, per questa seconda ipotesi: “piuttosto cartellate, cioè sfoglie di pasta, insieme di fogli di carta, di pasta dolce”.
I purciddhùzzi sono pezzetti di pasta fritti e poi indorati col miele.
I nomi italiani sono: strùffoli (diminutivo dell’antico strùffo=brandello, di origine incerta) e cicerchiata (da cicerchia, per la somiglianza con il suo seme). Il singolare di purciddhùzzi (purciddhùzzu) è diminutivo di purcèddhu, corrispondente all’italiano porcello, dal latino porcèllu(m), diminutivo di porcus (i pezzettini di pasta hanno le estremità a muso di porco).
Gli scagliòzzi sono dolci di forma romboidale con mandorle tostate e spezzettate, ricoperti di cioccolato o glassa, ben diversi dagli scagliozzi toscani e da quelli napoletani (pezzi di polenta indorati e fritti).
Il nome italiano al singolare è mostacciolo, diminutivo del latino mustàceu(m)=torta di farina, mosto, formaggio, anice e foglie di alloro4.
Il nome dialettale al singolare potrebbe essere da scaglia con aggiunta del suffisso –ozzo, analogamente a quanto è successo in maritozzo (da marito), con riferimento alla forma o alla loro disposizione in scaglioni (quasi un terrazzamento) nel piatto.
E, mentre io faccio lo slalom tra verbi al condizionale e avverbi come forse e probabilmente, nonna Concetta ribadisce da tempo immemorabile: “La temocrazia pi mme funziona sulu cu lli dorci: quiddhi ca si presèntanu cu ssalinu no lli pozzu votàre tutti ti paru, tocca lli tò la preferenza a unu sulu, ci no lu votu no vvale; li torci, invece, li preferiscu e mi li mbaccu tutti e no lli fazzu tuertu a nnuddhu”5. E poi, rivolta a me: “Armandu, no tti mangiare la capu cu lli timologie. Mbàccatili, ca capisci motu ti cchiùi!”6.
Non ho seguito mai il suo consiglio…e i risultati si vedono!
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1Pitta continua nel latino medioevale petta ricorrente in un documento del 1249 (Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Favre, Niort, 1883, tomo VI, pag. 299) nel significato inequivocabile di focaccia.
2 Il lettore avrà subito pensato, e non solo per assonanza, all’italiano pizza; questa voce deriva dal latino medioevale pizza, sinonimo del classico placenta=focaccia; pizza, a sua volta, è dal gotico o longobardo *pizzo (nel tedesco antico pizzo/bizzo=boccone di pane, da bizan=mordere) diffusosi nei dialetti italiani, specialmente in quello napoletano, da cui in italiano e in altre lingue moderne). Non deve sorprendere il significato originario di placenta, anche perché quest’ultima nel significato attuale deriva proprio dal latino placènta(m)=focaccia, a sua volta dal greco plakùnta, accusativo maschile dell’aggettivo plakùs/plakùsa/plakùv=piatto, di forma schiacciata e, sottintendendo artos=pagnotta, focaccia. Conclusione: tra pitta e pizza non c’è alcun rapporto di parentela.
3 Preferisco quella semplice e quella con l’alice e quella col cavolfiore e quella col baccalà e quella con i funghi e quella inzuppata nel miele e quella inzuppata nel vin cotto e…forse ne sto scordando qualcuna…
4 Eccone la ricetta tramandataci da Catone (III°-II° secolo a. C.), De agricultura, 122: Mustaceos sic facito. Farinae siligineae modium unum musto conspargito. Anesum, cuminum, adipis p(ondo) II, casei libram, et de virga lauri deradito, eodem addito. Et ubi definxeris, lauri folia subtus addito cum coques (Prepara così i mostaccioli: cospargi di mosto un moggio di fior di farina. Aggiungivi anice, cumino, due libbre di strutto, una libbra di formaggio, raschia la corteccia da uno stelo di alloro e aggiungi pure essa. E quando avrai modellato il tutto aggiungi sotto foglie di alloro e cuocilo”. Come si vede, nella ricetta di Catone gli ingredienti più in vista sono il mosto (che dà il nome al preparato) e l’alloro. A quest’ultimo componente è legato il detto di Cicerone (Ad Atticum, V, 20, 4) laureolam in mustaceo quarere (cercare una coroncina di alloro in un mostacciolo, cioè la gloria in un’impresa frivola). Giovenale (Satire, VI, 200-204) poi ci fa intuire che questa sorta di focaccia veniva inviata a parenti ed amici nel giorno delle nozze: Si tibi legitimis pactam iunctamque tabellis/non es amaturus, ducendi nulla videtur/caussa; nec est quare coenam et mustacea perdas, labente officio, crudis donanda… (Se non hai intenzione di amare colei che è stata promessa e congiunta a te con regolare contratto, non c’è nessun motivo per sposarla; né c’è motivo per cui tu perda il pranzo e i mostaccioli da donare a persone crudeli se il dovere è venuto meno…).
5 La democrazia per me funziona solo con i dolci: i candidati che si presentano per essere eletti non posso votarli tutti insieme, bisogna che dia la preferenza ad uno solo, altrimenti il voto non vale; i dolci, invece, li preferisco e me li mangio tutti, e non faccio torto a nessuno di loro.
6 Armando, non ti tormentare il cervello con le etimologe! Mangiateli, e capirai molto di più!
piacevoli e gradite,come sempre,le “spigolature “culinarie,che ci fanno tornare dolcemente ai ricordi e agli affetti del passato.
eccellente anche la risposta al “paulus lombardus”,grazie a nome di tutti i meridionali che sono fieri di essere tali
vabbè, sono un settentrionale, fieramente salentino per ispirazione (o per vocazione). Quindi mi unisco ai complimenti duplici. Al professor (filosofo) Tarsi, altro non dico. Però si potrebbero avere notizie più pratiche sulle ricette? Da quando sono qui ho mangiato :pettule e/o pittule, a seconda di dove me le offrivano. E’ possibile che uno che arriva dal nord impari a farle? Attendo speranzoso.
Il nostro sito annovera tra gli spigola(u)tori l’amico Massimo Vaglio, grande conoscitore della cucina locale e non solo. Nessuno meglio di lui è in grado di fornirne ricette e dettagliate istruzioni. E, dopo aver passato la palla (non per vigliaccheria o assurda gelosia, ma per totale incompetenza: so preparare solo un uovo alla coque), ringrazio per i complimenti.
un commento tardivo ma spero ancora utile.
Alcuni anni fa ero in visita alla NMcGill di Montreal, prima della partenza definitiva il mio ospite un Collega greco professore di neonatologia mi invita in un ristorante tipico greco ” o Psaropoulos” ovviamente “il pescatore” e, al finire di un pranzo quasi salentino mi fa:”Luigi, ora ti faccio assaggiare un tipico dessert greco”. Incuriosito aspetto con ansia “sai viene preparato al momenti” mi dice l’amico greco.
E mi portano un piatto di “pittule” di quelle di sola farina che in padella diventano perfettamente sferiche… ovviamente condite col miele…
“ma queste solo le nostre pittule” mi è venuto subito da dire…
Caro Armando, a parte il buon Rohlfs, nostro estimatore e tra i primi a pubblicizzare il Salento in Europa, in grecia le chiamano “loukumades” e cercandio cercando ho ttrovato un link….
magari è interessante!
A parte i risvolti erotici, che non guastano mai…, credo (pur non conoscendo il neogreco) che loukoumades nasca dalla fusione di elementi antichi: louka=farinata (compare in Esichio, lessicografo del V°-VI° secolo) e la radice (mad-) di masso=impastare. Grazie per la inconsueta, ma graditissima forse proprio per questo, integrazione.
Maraviglioso Armando per questo interessante articolo! Mi ha fatto ridere di cuore l’espressione simpatica e briosa della Signora Concetta: “Preferiscu queddha a ssola e queddha cull’alice e queddha cu llu caulufiùru e queddha cu llu bbaccallà e queddha cu lli fungi, e queddha ssuppàta intr’a llu mele e queddha ssuppàta intr’allu cuèttu e…sirà ca sta mmi ‘ndi scordu quarchetùna…” Anch’io le preferisco tutte accompagnando con un bicchiere di buon vino Primitivo o bianco Donna Marzia. Auguri di BUON NATALE a tutti e grazie per le ricette!