Vi racconto la speranza
di Ezio Sanapo
L’ultimo breve periodo di speranza che si possa ancora ricordare, risale alla fine degli anni ’60 e fu stroncato sul nascere dalla cosiddetta “strategia della tensione,” che non si limitò alle stragi di vittime innocenti ma rispolverò la filosofia dell’individualismo, tanto cara ai governi conservatori di questi ultimi anni.
La paura è nemica della speranza e a partire dagli anni ’80, la gente cominciò a barricarsi in casa. Quel imponente ripiegamento di massa fu chiamato” riflusso” che concretamente significa rinuncia, dietrofront. Il tutto all’insegna dello slogan: “Privato è bello”.
Da allora sono passati ormai troppi anni e non credo che oggi la gente sia felice, chiusa in casa e in se stessa: Per la sua tranquillità non sono bastati tutti i sistemi di sicurezza possibili: lucchetti, porte corazzate, videocitofoni, telecamere, sistemi di allarme, cani da guardia, guardie giurate, siepi, muraglie e filo spinato e non ultimo la legge che autorizza a sparare a vista. Ma fuori, del nemico neanche l’ombra (tanto poteva entrare via cavo). E per via cavo, invece di cultura, entra una concezione deformata e volgare della realtà che ha seriamente danneggiato la sensibilità della gente e la sua disponibilità ad emozionarsi. Senza emotività e stimoli culturali i liberi cittadini non hanno più parlato e i liberi pensatori non hanno più pensato. Mi riferisco ai tanti e qualificati intellettuali che abbiamo in tutto il paese, sono ormai decenni che questi ultimi non scendono sulle piazze.
Essi, abbandonati dalla gente comune, si sono isolati in cerca di se stessi: alcuni si sono limitati a un dialogo chiuso all’interno della propria categoria, senza un coinvolgimento popolare, altri, i più validi, hanno perso ogni speranza. Sul fatto che non ci sia più speranza essi hanno ragione ma non è questo il problema. Il problema vero è la loro solitudine, che è la stessa di tutti noi: una solitudine né voluta, ne casuale: la soluzione di questo problema è la premessa per un nuovo clima di speranza. Un intellettuale, si sa, è per certi versi una figura scomoda, se poi sta tra la gente lo è a maggior ragione perchè tra la gente crea Speranza, dividi le due cose e la speranza muore. Prova ne è il fatto che oggi effettivamente non si intravede all’orizzonte nessuna grande idea e nessun progetto di società che sia in grado di risvegliare grandi ideali e stimolare passione.
I governi che si susseguono a malapena riescono a portare avanti il disbrigo dell’ordinaria amministrazione con programmi a breve termine. Direbbe Platone: “Quando uno Stato è male amministrato è giusto cominciare a trasformare intanto la nostre coscienze”. Io spero che partirà dai nostri intellettuali la richiesta di riscatto della nostra dignità storica e morale e il ripristino dei valori della nostra cultura classica e universale. “I beni materiali di ogni società più vengono ripartiti più diminuiscono, la cultura invece è l’unico bene dell’umanità che al contrario diventa più grande se più distribuito” (Hans G. Gadamer). A loro e a una nuova speranza che sia di supporto e di stimolo per tutti, dedico, come racconti per adulti e bambini, queste mie modeste riflessioni.
“Quasi una ninna nanna”
Non deve essere facile per un bambino appena nato essere fiducioso e tranquillo in un mondo che lo sovrasta per la sua enormità, lui così fragile e indifeso. Ma c’è la mamma che lo tranquillizza e gli somministra una razione giornaliera di fiducia e speranza. Lo fa con ogni modo: la mammella, i baci e le carezze; lo fa cantilenando e discorrendo con il bambino. La mamma gli parla, il bambino non la comprende ma la guarda negli occhi e capisce che quelle della mamma sono buone notizie, che fanno ben sperare e si addormenta.
“La cometa e i fuochi di artificio”
La speranza viene vissuta come una vigilia: nella tradizione popolare e religiosa è rappresentata da quel lungo periodo in cui le anime del Purgatorio vivono in attesa dell’Avvento che culmina con la venuta del Messia e della liberazione dalle loro pene. A segnalare e simboleggiare la sua venuta è una stella cometa che indica un orientamento, una direzione. C’è ancora oggi, da parte della gente, il bisogno e la necessità che un corpo celeste, al di sopra di noi, indichi una presenza e una direzione. Nelle feste dei santi protettori, altre popolazioni di anime “penanti” ma dello stesso purgatorio, hanno sostituito le comete con i fuochi artificiali. Il finale di ogni festa è sempre uguale: Allo spegnersi di ogni cometa e allo scoppio dell’ultimo e dirompente botto di ogni fuoco artificiale, c’è il silenzio e il buio totale. E’ quello il momento in cui ognuno di noi sente il bisogno di guardarsi intorno a cercare accanto a sé la presenza di qualcuno.
“Il sepolcro e il grano”
C’era una volta il rituale dei “Sabburchi” (dei Sepolcri) e del miracolo del grano che nasce al buio nello spazio di una bacinella di terra e tufo, coperta con uno straccio bagnato e nascosta sotto il letto per trenta giorni, tirata fuori e decorata con piccole bandierine di carta e petali di fresie. Così addobbata, veniva portata in chiesa prima di Pasqua, il giorno della morte di Cristo. Immaginate lo spettacolo che possono creare cento bacinelle variopinte e tutte ricoperte di teneri fili di grano appena nato, ai piedi dell’altare. La speranza che sfida la rassegnazione, il trionfo della vita sulla morte: cento singole bacinelle che unite tutte insieme formano un campo di grano e, su questo, Cristo risorto!
“Una valigia piena di sogni e di speranza”
Ci sono ancora, da qualche parte, cento famiglie che tutte insieme formano una comunità, ma divise e sparpagliate sono rimaste con un pugno di terra che ognuno ha portato con se, come lievito, convinti che la terra potesse lievitare: la speranza viva per miracolo. Chi è emigrato lo ha fatto suo malgrado, per necessità, ma senza fare nessuna rinuncia. La rinuncia e il danno lo hanno fatto quelli che sono rimasti. Chi è rimasto ha accettato compromessi e in cambio della propria tranquillità ha “lasciato fare”. Sono stati stravolti i centri storici, hanno occupato illegalmente le nostre coste, hanno comprato le masserie e le hanno trasformate in ville con piscina, hanno riempito i terreni di discariche abusive, hanno creato diffidenza reciproca, hanno ucciso il dialogo e, come dice un mio caro amico, hanno ucciso la speranza. Verso la metà degli anni settanta ci fu un massiccio ritorno e chi è tornato ha trovato ormai sciolto quel vincolo di solidarietà che aveva unito generazioni per millenni di anni. Altrettanto massiccia fu la ripartenza, come quella di una nuova ondata di emigrazione giovanile che, ancora oggi, dissangua il meridione, conseguenza di quel patto scellerato tra governanti e governati. Anche questi nuovi emigranti porteranno con se i sogni e la speranza che è stata tanto utile a coloro che li hanno preceduti e che, messi tutti insieme, sono tanti. Così tanti da decidere, addirittura, il Governo e le sorti di una Nazione, com’ è avvenuto con il secondo governo Prodi. L’ex ministro conservatore Tremaglia, autore della recente legge sull’immigrazione non immaginava certo che anche i sogni e la speranza potessero essere di così lunga conservazione e casualmente ha toccato una piaga ed è successa una rivoluzione o semplicemente un miracolo, quello di una bacinella che diventa un campo di grano.
“Il Sud come l’Andalusia ”
Visitando certe zone del Sud, ti sorprende e ti sconforta vedere, a qualsiasi ora, le strade e le piazze deserte: sembra che nei paesi non ci sia più nessuno. Allora ti vengono in mente quegli stessi luoghi negli anni settanta, il clima di festa di allora, una festa durata diversi anni. La gente chiedeva Cultura, voleva Sapere. Mi ricordo la moltitudine di artisti e critici d’arte lavorare gomito a gomito e tanti collezionisti di quadri. C’era una galleria in ogni paese e la gente andava numerosa a visitarle. Chi vive oggi in quei paesi si chiede: “Che fine ha fatto tutta quella gente? E tutti quegli intellettuali?” Mi vengono in mente i versi del poeta spagnolo Rafael Alberti esiliato in Italia a causa del regime fascista, il poeta si chiedeva:
“E’ possibile che l’Andalusia sia rimasta senza nessuno? E’ possibile che sui monti andalusi non ci sia nessuno? Che sui mari e nei campi andalusi non ci sia più nessuno?”
E’ il lamento di dolore causato dal vuoto di speranza e dalla solitudine che ne consegue; dalla distanza tra l’intellettuale e la comunità, distanza tanto simile a quella che si è creata tra la metà di popolazione che è andata via e l’altra che invece è rimasta, senza che nessuno avesse stabilito, tra l’una e l’altra, il necessario dialogo costruttivo che potesse far sperare.
“Il campo dei fuochi”
Il campo dei fuochi stava appena fuori dalla periferia del paese così molta gente poteva guardare i fuochi d’artificio dalla propria terrazza. Visto così al buio sembrava un posto misterioso e chissà quanto lontano, faceva quasi paura. Nei giorni precedenti, prima e durante la festa nessuno aveva potuto avvicinarsi, il divieto era tassativo e gli addetti ai lavori erano stanchi di ripeterlo. Il giorno successivo invece, visto alla luce del sole, era un campo qualsiasi, né incolto né coltivato. Disseminati da tutte le parti, sembravano ancora caldi i pezzi di carta bruciacchiati delle “carcasse”, carta dura e resistente, ricavata dai sacchi di cemento, non facilmente infiammabile. Dopo la festa, di buon mattino,come tutti gli anni, i ragazzi erano là, sparpagliati su tutto il campo a cercare frammenti di polvere da sparo. Erano frammenti di colore nero, di grandezza diversa, nascosti tra le zolle ed i piccoli cespugli. Messi tutti insieme in un barattolo di latta, lo portavano di nascosto a casa. Come ogni anno, la sera si sarebbero riuniti e, sempre di nascosto, avrebbero incartato il tutto e messo in uno “stompo,”; poi, con una miccia di carta accesa, lo facevano esplodere, causando un botto improvviso, forte e violento. Non era certo un fuoco di artificio, ma fra tutti quelli esplosi nei giorni di festa, era forse il più gradito. Siccome la festa era passata, il paese era ricaduto nel suo letargo e questo i ragazzi non lo avevano accettato. Così, d’improvviso, si spalancavano porte e finestre, si sentivano voci dappertutto, cani abbaiare e pianto di bambini. Il paese era ancora vivo.
Il bello di un botto è la sua imprevedibilità, non sai mai quando scoppia né dove. E poi un botto serve a tante cose: può dare il segnale che una festa è finita o che sta per cominciare. Può scoppiare oggi o non scoppiare mai.
…tu però stai alla tua finestra e lo sogni, quando scende la sera.
( da ” il messaggio imperiale” di F. Kafka )
Pensieri che denunciano il desiderio di trasmettere al mondo una positività in un momento pregno di situazioni avverse alla pace interiore dell’uomo.