di Giorgio Cretì
Allora, da maggio ad ottobre, la gente si trasferiva a vivere in campagna ed in paese tornava solamente per comperare il sale e qualche altro genere di stretta necessità. Quasi tutti coltivavano tabacco ed il tabacco aveva bisogno di cure molto assidue.
Alla Tumara c’erano ben cinque famiglie, alloggiate in seccatoi ad un solo spiovente con il tetto di coppi. Una vera e propria comunità, anche se ciascun nucleo familiare economicamente viveva per proprio conto e non aveva interessi in comune con gli altri. In alcune stagioni la comunità raggiungeva anche le venticinque persone.
Tumara, poi, era il termine per indicare una zona al alto degrado vegetale, dove il timo(1) la faceva da padrone, assieme al mentastro(2), alla salvia selvatica(3), al rosmarino(4): tutte piante molto aromatiche. In primavera, dal sottilissimo strato superficiale di humus prorompeva la vita vegetale ed il suolo si copriva prima di un bellissimo verde e poi diventava una variopinta tavolozza di colori cui concorrevano il giallo dei ranuncoli(5), il bianco delle pratoline(6) ed il lilla della scabiosa(7) e di tanti altri fiori meno appariscenti, come le ombrelle delle carote selvatiche(8) ed i ciuffi dei sonaglini(9) e dell’avena selvatica(10)) che fremevano creando suggestive vibrazioni alla carezza del vento. Fra le fitte e sottili foglie del lino delle fate(11)), spuntavano anche le scarpette della Madonna(12)), piccole orchidee nere che sembravano di velluto.
Uno dei due seccatoi, quello abitato dai due mezzadri, aveva le soglie affacciate sulla tumara, l’altro, che era di proprietà degli occupanti, dava sulla strada di campagna che proseguiva un po’ più oltre e si perdeva fra gli ulivi della contrada detta Fogge, che formavano un vero e proprio bosco.
I due edifici erano posti a elle, leggermente distaccati l’uno dall’altro, nel punto più alto di un piccolo rilievo che scendeva con leggera scarpata verso una zona eluviale di terra rossa, molto adatta a varie colture, dove si piantava tabacco.
Dall’alto si scorgeva l’inizio dell’oliveto che andava fino a Diso e Vignecastrisi.
In mezzo la gariga di timo, in qualche piccolo affossamento che raccoglieva un po’ di terreno, o in qualche piccola tasca terrosa, crescevano piante isolate di fico che erano tenute in gran conto.
Ogni due o tre anni le zappe raschiavano il poco humus formatosi sulla roccia calcarea e ne facevano piccoli mucchi.
Il timo sradicato serviva per il fuoco domestico e per il forno del pane. I mucchi di pietre sparsi, venivano spostati, e rimessi insieme con perizia, per ricavare altro terreno da coltivare. Questo era ricco di sostanze organiche prodotte dalle erbe seccate, da gusci di chiocciole, da millepiedi scarabei glomenidi morti e da licheni e somigliava molto al letame. In quei mucchietti si piantava orzo o legumi e, se durante la primavera successiva cadeva sufficiente pioggia, si poteva anche avere un raccolto. Altrimenti, se era secco, ci si rimetteva la semente, perché i frutti morivano sulla pianta prima ancora di maturare. L’humus grattato dalla roccia veniva poi regolarmente dilavato verso il basso.
Ampie zone di roccia rimanevano nude ed erano segnate qua e là da cadinaz, che sono quelle vene verticali di roccia più dura resistente all’erosione, che in alcuni punti, a seconda dello spessore, emergono come muriccioli.
A fine maggio, le erbe secche o le stoppie davanti ai seccatoi venivano bruciate e tutto quello spazio era destinato ai telai del tabacco da seccare e, più tardi, anche ai cannicci dei fichi spaccati e messi al sole.
Donato e Angelo, i due mezzadri, con le loro famiglie coltivavano le terre del padrone dei seccatoi che abitavano; Angelo le aveva tutte dentro la “Tumara”, Donato nel fondo attiguo che era leggermente sottoposto e si trovava al piano della strada provinciale, diritta bianca e polverosa. Angelo aveva anche la vigna, in una pietraia verso le Fogge; la vigna di Donato era nel fondo di un altro padrone, ma non era lontana.
La maggior parte dello spazio all’interno dei seccatoi era occupato da un’intelaiatura fissa, alta fino al soffitto per sostenere il tabacco, man mano che seccava e si metteva da parte; nel resto si lavorava, mangiava e dormiva, salvo occupare per intero anche questo spazio quando minacciava pioggia e si doveva proteggere il tabacco che non era ben secco, perchè una sola goccia d’acqua ne avrebbe compromesso la qualità e abbassato il prezzo. Riuscivano a farci stare anche i cannicci dei fichi, accatastati a ridosso di una parete, con un sistema che permetteva, a mezzo di canne, di tenerli staccati uno dall’altro.
La gente, in campagna, si portava anche gli animali, ossia la capra o la pecora che davano il latte occorrente alla famiglia e le galline che fornivano le uova da vendere. Angelo aveva anche un corvo nero che sapeva dire qualche nome e lo ripeteva quando gliene veniva l’estro. Esternamente al seccatoio, Donato e Angelo avevano costruito le loro cucine che avevano appena lo spazio per accendere il fuoco in terra e accostarvi le pignate dei legumi o per sistemare un treppiedi per usare la pentola.
La cucina di Angelo era coperta di coppi, quella di Donato di fronde di leccio che ogni anno bisognava rinnovare. Dietro la cucina, al mattino tenevano legata la capra che spostavano dietro il seccatoio quando girava il sole.
Un po’ distante avevano costruito un piccolo recinto di pietre che serviva da gabinetto. Quello di Angelo era in parte coperto da lastre di pietra (chianche) per creare un po’ di ombra nei caldissimi mesi estivi.
Completava i servizi il pollaio che era costituito da un riparo più ampio con una porticina che poteva essere chiusa per il riparo vero e proprio e uno molto più piccolo e aperto, dove le galline facevano le uova.
Le galline razzolavano tutto il giorno in due gruppi separati, sempre mantenendosi nei pressi dei seccatoi e la sera tornavano ai loro pollai che venivano poi chiusi dall’esterno con un blocco di tufo, perché la notte quando tutto era silenzio vi si aggirava la volpe.
Con la scusa della devozione, la gente si prendeva due o tre giorni di riposo all’anno, che poi si traducevano in pellegrinaggi religiosi di una giornata a questo o quel santuario. Il più importante era il santuario dell SS. Crocefisso a Galatone dove si fa festa ancora ai primi di maggio; poi c’era quello di San Rocco di Torrepaduli, a metà agosto, e da ultimo, quando la raccolta del tabacco era ormai terminata ed i contadini potevano un po’ rifiatare, l’otto settembre, c’era la Madonna di Sanarica; si andava anche a Leuca, quando si poteva – almeno una volta nella vita lo si doveva fare! – ed al Santuario di Montevergine sulla Serra di Palmariggi. La gente si muoveva a piedi scalzi, perché non poteva permettersi il lusso di consumare quell’unico paio di scarpe che teneva custodite per il giorno del suo funerale, e portava con sé il pane ed anche un po’ di companatico: brodetti di peperoni o melanzane fritte. Partiva la mattina all’alba e tornava la sera ch’era già buio. A Leuca ed a Galatone, ch’erano un po’ più lontani, si andava con una vettura da noleggio, uno scerabbà. Le ferie non propriamente dedicate al culto religioso, due o tre giorni di fila al massimo, si prendevano per l’Assunta ed in quei giorni la gente partiva la mattina e si riversava sulla costa con ogni bendidio da mangiare. La sera, però, tornava sempre a casa.
Alla Tumara la raccolta del tabacco quell’anno era terminata; ormai era rimasto soltanto qualche cannicciodii canne (cannizzu) di fichi da seccare, oltre a qualche lavoro nella vigna. Adesso si poteva veramente rifiatare e la Madonna delle Grazie, la Madonna di Sanarica, cadeva proprio nel momento più propizio. Quell’anno partirono tutti, grandi e piccoli, rimasero lì alla Tumara soltanto Uccio e suo zio Donato.
Uccio aveva raccolto i fichi maturi dal culummu nero che, insinuatosi con le sue radici in una fessura della roccia, lussureggiava maestoso presso l’angolo che si formava tra i fondi Montepozzello e Cinesi: ad ogni raccolta quell’albero, da solo, dava tre cannicci di fichi spaccati ed era una specie di brogiotto nero unifero, che non produce fioroni, con frutti particolarmente adatti ad essere seccati. Uccio stava all’esterno e suo zio, ch’era tornato dalla vigna con una bisaccia d’erba per la capra, stava ora dentro al seccatoio sistemando certi telai del tabacco che s’erano schiodati o erano andati fuori squadra con il peso e con il sole. Dalla parte dei Cinesi salì un questuante con un sacco in spalla, di quelli che allora giravano per le campagne a raccogliere derrate per la festa di un santo.
“San Rocco!”, il forestiero disse quando arrivò vicino al ragazzo.
Uccio chiamò suo zio.
“Zio Donato, esci che c’è uno per San Rocco”.
Suo zio si affacciò sull’uscio con in mano un martello e rivolto al nuovo venuto disse: “Che cosa ti serve?”.
“San Rocco!”, disse quello.
“E’ passato”, disse lo zio, e intendeva ch’era già passata la festa.
“Da che parte è andato?”, chiese quello che non aveva capito.
“E’ andato di là con un sacco in collo”, lo zio concluse dando un’occhia d’intesa al nipote.
“Mannaggia la prima donna. Quando lo trovo, per il patretercu, …”, disse il forestiero e se n’andò bestemmiando tra i denti. Uccio a stento riuscì a trattenere il riso, sapeva che suo zio più di una volta si divertiva a prendere in giro il prossimo.
Le donne andando via la mattina avevano lasciato a zio e nipote le istruzioni per la giornata: “Scoprite i fichi e attenti al tempo…”.
“Sì, sì non preoccupatevi, andate tranquille”.
Non pioveva da mesi ed il cielo era terso e luminoso come ogni altro giorno.
Tolti i cannizzi di paglia, messi lì la sera per riparare i fichi spaccati di fresco dall’umidità della notte, ed assolte ciascuno per suo conto altre faccende, zio e nipote consumarono un’abbondante zuppa fredda fatta con patate lesse, pomodori, cipolle e peperoncino, e poi scrutarono il cielo come facevano spesso per abitudine. C’era qualche lembo bianco di nuvola qua e là ma non si era ancora formato nessun cumulo tale da impensierire. Lo zio si accese la pipa di creta e si distese sulla littera, poi quasi subito posò la pipa in terra, si abbassò la coppola sugli occhi e si addormentò supino. Uccio, che fumava di nascosto, approfittò del momento di tranquillità per diseppellire il suo tabacco e trinciarlo con calma; quindi lo sistemò in un borsellino di pezza e lo nascose di nuovo. Diede un’ultima occhiata al cielo, disse “Mah” e si sdraiò anche lui. Si addormentarono perché non avevano preoccupazioni particolari.
Non si sa quanto dormirono, forse un bel po’, finché il ragazzo non percepì un toc toc toc familiare. Pioveva.
Schizzò subito fuori pensando ai cannicci dei fichi che bisognava prendere in due per portarli dentro.
“Zio Donato, zio Donato… Piove”.
Lo zio si svegliò e venne subito sull’uscio.
“Come piove?!”, esclamò.
“Zio Donato, alzati che sta piovendo. Sta dilluviando”.
In effetti dai cannizzi colava acqua che subito aveva preso il colore dell’aceto.
“Ormai”, disse lo zio Donato quando si rese conto della situazione, “ormai non c’è più niente da fare, abbiamo fatto il pancotto. Sai cosa facciamo adesso? Ci sediamo qui, tu di là ed io di qua, e ci godiamo lo spettacolo”.
Ed osservarono la pioggia cadere copiosa e formare rigagnoli veloci dopo aver inzuppato il suolo polveroso. Nemmeno un tuono di avvertimento come succedeva spesso quando pioveva d’estate!
Come era prevedibile, al ritorno dei pellegrini zio e nipote se ne dovettero sentire di tutti i colori.
“Vi abbiamo lasciati qui in due apposta e siete stati capaci di bagnare i fichi! La mia meraviglia”, diceva la zia Nunziata, “non è tanto per il ragazzo…”, e via rimbrotti al marito.
“Noi non volevamo farli bagnare”, disse lo zio Donato dopo aver incassato in sislenzio per un po’. “Ci ha presi il sonno. Che cosa volete fare? Vuol dire che il prossimo anno a Sanarica andremo noi due e la guardia ai fichi la farete voi”.
A Galatone i pellegrinaggi ai vari siti sacri presenti sul territorio si chiudevano il 14 settembre col pellegrinaggio all’altro Crocifisso, quello di Tabelle, una località che si trova a circa 3 Km da Galatone.