di Armando Polito
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nome italiano: salvia
nome scientifico: Salvia officinalis L.
famiglia: Lamiaceae
nome dialettale neretino: sàrvia
Il nome italiano e la prima parte di quello scientifico la dicono lunga sulle sue proprietà terapeutiche, dal momento che sàlvia deriva dalla radice sal– dei latini salvus=salvo e salus=salute e, probabilmente servàre [da cui l’italiano, con passaggio –v->-b-) serbare ed il composto (con mantenimento della consonante originaria) conservare]=salvare, proteggere, custodire, nonché servus=schiavo (la cui funzione era quella di proteggere il padrone). Officinalis significa da laboratorio (altro riferimento allo sfruttamento terapeutico). Lamiaceae è forma aggettivale da lamium1. La forma dialettale presenta il consueto passaggio –l->-r-.
Il notevole numero di varietà che la specie di cui mi occupo oggi presenta classificate ricalca antiche conoscenze.
Plinio (I° secolo d. C.): “E c’è pure la (lenticchia) selvatica chiamata dai Greci elelisfaco2, da altri spaco3. È più liscia della coltivata, ha la foglia più piccola , più secca e più profumata. C’è un’altra varietà di quella selvatica, dal profumo più intenso: questa è più tenera. ha le foglie simili a quelle del cotogno, ma più piccole e bianche, con cui si prepara il decotto utilizzando anche i rami. Stimola il ciclo mestruale e favorisce la diuresi e sana i morsi della pastinaca marina. Inoltre funge da anestetico nelle contusioni. Si beve con l’assenzio contro la dissenteria. Essa col vino risolve i ritardi mestruali, il suo decotto bevuto riduce quelli abbondanti. Di per sé l’erba arresta le emorragie dovute a ferita. È efficace pure contro il morso dei serpenti e se è cotta nel vino lenisce il prurito dei testicoli. Gli erboristi dei nostri tempi la chiamano alla greca elelisfaco, alla latina salvia, simile alla menta, bianca, profumata. Con la sua applicazione favoriscono l’espulsione del feto morto, nonché combattono i vermi delle orecchie e delle piaghe”4; “Un’altra varieta (di tussilagine) da alcuni è chiamata salvia, simile al verbasco. Essa viene pestata e, dopo essere stata filtrata, viene riscaldata e così si beve contro la tosse e i dolori dei fianchi; è efficace contro gli scorpioni e i serpenti marini. Giova pure contro i serpenti ungersi col suo olio”5.
Chiudo col classico consiglio della nonna: se non si ha dentifricio a portata di mano basta strofinare i denti con una foglia di salvia; da parte mia raccomando di controllare bene che nell’ambiente in cui la piantina cresce non ci siano pericolose presenze, per evitare, non certo per colpa della salvia o di un rospo, la fine che fecero Pasquino e Simona nella settima novella della quarta giornata del Decameron del Boccaccio6.
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1 Varietà di ortica di cui parla Plinio (Naturalis historia, XXI, 55): Morsu carens lamium vocatur (Quella priva di spine si chiama lamio).
2 Da elelìzo=essere volto (qui nel senso di somigliare)+sfakos=salvia. Teofrasto (IV°-III° secolo a. C.)(Historia plantarum, VI, I, 4) lo nomina tra le piante prive di spine e poco dopo (VI, 2, 5) così dice. “Lo sfaco sembra differire dall’elelelisfaco come una painta coltivata da una selvatica: infatti la foglia dello sfaco è più tenera, piccola e più secca, quella dell’elelisfaco più ruvida”.
3 In greco sfakos o sfakon. Oltre a Teofrasto (vedi nota 2) lo sfaco compare in un frammento (363) di Cratino, (commediografo del V° secolo a. C.): Spontaneamente produce per lui il titimallo e lo sfaco..; in un frammento di Eupoli (contemporaneo del precedente): Prendiamo il nutrimento da selve di ogni tipo, divorando i teneri ramoscelli di abete e di corbezzolo e oltre a questi anche i germogli, il citiso e lo sfaco profumato…”; in una commedia (Le donne alle Tesmoforie, 486) di Aristofane (V°-IV° secolo a. C.): e qui pestava i frutti del cedro, aneto e salvia…; in una commedia (Lo scontroso, 605) di Menandro (I°-III° secolo a. C.):combattendo con le pietre che facevano crescere solo timo selvatico e salvia.
4 Op. cit., XXII, 71: Est et silvestri elelisphacos dicta a Graecis, ab aliis spacos. Ea est sativa lente levior et folio minore atque sicciore et odoratiore. Est et alterum genus eius silvestris, odore gravi: haec mitior. Folia habet cotonei mali effigie, sed minora et candida, quae cum ramis decoquuntur. Menses ciet et urinas et pastinacae marinae ictus sanat. Torporem autem obducit percusso loco. Bibitur cum absinthio ad dysenteriam. Cum vino eadem commorantes menses trahit, abundantes sistit decocto eius poto. Per se imposita herba vulnerum sanguinem cohibet. Sanat et serpentium morsus. Et si in vino decoquatur, pruritus testium sedat. Nostri, qui nunc sunt, herbarii elelisphacon graece, latine salviam vocant, mentae similem, canam, odoratam. Partus emortuos ea adposita extrahunt: item vermes aurium ulcerumque.
5 Op. cit., XXVI, 17 Altera a quibusdam salvias appellatur, similis verbasco. Conteritur ea et colata calefit atque ita ad tussim laterisque dolores bibitur; contra scorpiones eadem et dracones marinos efficax. Contra serpentes quoque ex olio perungi ea prodest. Hyssopi fasciculus cum quadrante mellis decoquitur ad tussim.
6 Fu adunque, non è gran tempo, in Firenze una giovane assai bella e leggiadra secondo la sua condizione, e di povero padre figliuola, la quale ebbe nome Simona; e quantunque le convenisse colle proprie braccia il pan che mangiar volea guadagnare e filando lana sua vita reggesse, non fu per ciò di sì povero animo che ella non ardisse a ricevere amore nella sua mente, il quale con gli atti e colle parole piacevoli d’un giovinetto di non maggior peso di lei, che dando andava per un suo maestro lanaiuolo lana a filare, buona pezza mostrato aveva di volervi entrare. Ricevutolo adunque in sé col piacevole aspetto del giovane che l’amava, il cui nome era Pasquino, forte disiderando e non attentando di far più avanti, filando, ad ogni passo di lana filata che al fuso avvolgeva mille sospiri più cocenti che fuoco gittava, di colui ricordandosi che a filar gliele aveva data. Quegli dall’altra parte molto sollicito divenuto che ben si filasse la lana del suo maestro, quasi quella sola che la Simona filava, e non alcuna altra, tutta la tela dovesse compiere, più spesso che l’altra era sollicitata. Per che, l’un sollicitando e all’altra giovando d’esser sollicitata, avvenne che l’un più d’ardir prendendo che aver non solea e l’altra molto della paura e della vergogna cacciando che d’avere era usata, insieme a’ piaceri comuni si congiunsono. Li quali tanto all’una parte e all’altra aggradirono che, non che l’un dall’altro aspettasse d’esser invitato a ciò, anzi a dovervi essere si faceva incontro l’uno all’altro invitando. E così questo lor piacere continuando d’un giorno in uno altro e sempre più nel continuare accendendosi, avvenne che Pasquino disse alla Simona che del tutto egli voleva che ella trovasse modo di poter venire ad un giardino, là dove egli menar la voleva, acciò che quivi più adagio e con men sospetto potessero essere insieme. La Simona disse che le piaceva; e, dato a vedere al padre una domenica dopo mangiare che andar voleva alla perdonanza a San Gallo, con una sua compagna chiamata la Lagina al giardino statole da Pasquino insegnato se n’andò. Dove lui insieme con un suo compagno, che Puccino avea nome, ma era chiamato lo Stramba, trovò; e quivi fatto uno amorazzo nuovo tra lo Stramba e la Lagina, essi a far de’ lor piaceri in una parte del giardin si raccolsero, e lo Stramba e la Lagina lasciarono in un’altra. Era in quella parte del giardino, dove Pasquino e la Simona andati se ne erano, un grandissimo e bel cesto di salvia; a piè della quale postisi a sedere e gran pezza sollazzatosi insieme, e molto avendo ragionato d’una merenda che in quello orto ad animo riposato intendevan di fare, Pasquino, al gran cesto della salvia rivolto, di quella colse una foglia e con essa s’incominciò a stropicciare i denti e le gengie, dicendo che la salvia molto bene gli nettava d’ogni cosa che sopr’essi rimasa fosse dopo l’aver mangiato. E poi che così alquanto fregati gli ebbe, ritornò in sul ragionamento della merenda, della qual prima diceva. Né guari di spazio perseguì ragionando, che egli s’incominciò tutto nel viso a cambiare, e appresso il cambiamento non istette guari che egli perde la vista e la parola, e in brieve egli si morì.
Le quali cose la Simona veggendo, cominciò a piagnere e a gridare e a chiamar lo Stramba e la Lagina. Li quali prestamente là corsi, e veggendo Pasquino non solamente morto, ma già tutto enfiato e pieno d’oscure macchie per lo viso e per lo corpo divenuto, subitamente gridò lo Stramba: – Ahi malvagia femina, tu l’hai avvelenato. E fatto il romor grande, fu da molti, che vicini al giardino abitavano, sentito. Li quali, corsi al romore e trovando costui morto ed enfiato, e udendo lo Stramba dolersi e accusare la Simona che con inganno avvelenato l’avesse, ed ella, per lo dolore del subito accidente che il suo amante tolto avesse, quasi di sé uscita, non sappiendosi scusare, fu reputato da tutti che così fosse come lo Stramba diceva. Per la qual cosa presala, piagnendo ella sempre forte, al palagio del podestà ne fu menata. Quivi, prontando lo Stramba e l’Atticciato e ’l Malagevole, compagni di Pasquino che sopravenuti erano, un giudice, senza dare indugio alla cosa, si mise ad esaminarla del fatto; e non potendo comprendere costei in questa cosa avere operata malizia né esser colpevole, volle, lei presente, vedere il morto corpo e il luogo e ’l modo da lei raccontatogli, per ciò che per le parole di lei nol comprendeva assai bene. Fattola adunque senza alcuno tumulto colà menare dove ancora il corpo di Pasquino giaceva gonfiato come una botte, ed egli appresso andatovi, maravigliatosi del morto, lei domandò come stato era. Costei, al cesto della salvia accostatasi e ogni precedente istoria avendo raccontata, per pienamente darli ad intendere il caso sopravenuto, così fece come Pasquino aveva fatto, una di quelle foglie di salvia fregatasi a’ denti. Le quali cose mentre che per lo Stramba e per lo Atticciato e per gli altri amici e compagni di Pasquino sì come frivole e vane in presenzia del giudice erano schernite, e con più istanzia la sua malvagità accusata, niuna altra cosa per lor domandandosi se non che il fuoco fosse di così fatta malvagità punitore, la cattivella, che dal dolore del perduto amante e dalla paura della dimandata pena dallo Stramba ristretta stava, per l’aversi la salvia fregata a’ denti in quel medesimo accidente cadde che prima caduto era Pasquino, non senza gran maraviglia di quanti eran presenti. O felici anime, alle quali in un medesimo dì addivenne il fervente amore e la mortal vita terminare! E più felici, se insieme ad un medesimo luogo n’andaste! E felicissime, se nell’altra vita s’ama, e voi v’amate come di qua faceste! Ma molto più felice l’anima della Simona innanzi tratto, quanto è al nostro giudicio, che vivi dietro a lei rimasi siamo, la cui innocenzia non patì la fortuna che sotto la testimonianza cadesse dello Stramba e dell’Atticciato e del Malagevole, forse scardassieri o più vili uomini, più onesta via trovandole con pari sorte di morte al suo amante a svilupparsi dalla loro infamia e a seguitar l’anima tanto da lei amata del suo Pasquino. Il giudice, quasi tutto stupefatto dello accidente insieme con quanti ve n’erano, non sappiendo che dirsi, lungamente soprastette; poi, in miglior senno rivenuto, disse: – Mostra che questa salvia sia velenosa, il che della salvia non suole avvenire. Ma acciò che ella alcuno altro offender non possa in simil modo, taglisi infino alle radici e mettasi nel fuoco-. La qual cosa colui che del giardino era guardiano in presenza del giudice faccendo, non prima abbattuto ebbe il gran cesto in terra, che la cagione della morte de’ due miseri amanti apparve. Era sotto il cesto di quella salvia una botta [rospo] di maravigliosa grandezza, dal cui venenifero fiato avvisarono quella salvia esser velenosa divenuta. Alla qual botta non avendo alcuno ardire d’appressarsi, fattale d’intorno una stipa grandissima, quivi insieme colla salvia l’arsero, e fu finito il processo di messer lo giudice sopra la morte di Pasquino cattivello. Il quale insieme con la sua Simona, così enfiati come erano, dallo Stramba e dallo Atticciato e da Guccio Imbratta e dal Malagevole furono nella chiesa di San Paolo sepelliti, della quale per avventura eran popolani.