Per una mostra di Ezio Sanapo
“Passo doppio”, o della fine della leggenda nera
di Nello Wrona
Conosco Ezio Sanapo da più di vent’anni, da quando cioè tra le pagine della
rivista “SudPuglia”, poi “Apulia”, si era raggrumato, romantico e disperato
quanto può essere un trasognato Don Chisciotte di fine millennio, un gruppo
di poeti, scrittori, romanzieri, artisti (pittori, soprattutto, e poi scultori, fotografi,
gente dallo sguardo lungo e disincantato), giornalisti, editori. Per tutti, uno
squalo che mordeva dentro, dannazione e tormento di errabondi suonatori di
violino, sognanti a volte, eccessivi quasi sempre, nel deserto illimite e senza
confini del Salento.
Ezio Sanapo era ai margini di quel gruppo, non vi entrò mai – come dire? – in
modo organico, militante, ma con quel gruppo si misurò, lui fortemente laico
e con intatti propositi di rivolta, con intelligenza e ironia.
Erano gli anni Novanta, o giù di lì: crollavano Muri, che scoprivano patrie inquiete, e scoppiavano i bubboni di Tangentopoli e di Mani pulite, una tempesta
annunciata mesi prima da un film tristemente profetico, “Il portaborse” di
Nanni Moretti. Dice il protagonista in una sequenza ormai celebre: «Il grigiore,
la noia e anche l’eccessiva onestà fanno senz’altro più danni al Paese». La
classe politica, in Italia, è decapitata: spariscono o si dissolvono partiti storici
come la DC, il PSI, il PSDI, il PLI; il PCI si chiama ora Partito Democratico della Sinistra, la falce e il martello sono sepolti all’ombra di una quercia frondosa.
È una stagione di sangue e di mattanze (Falcone e Borsellino), di vuoti politici,
di imbonitori televisivi prestati alla politica, del telemarketing elettorale, di
un partito di plastica (“Forza Italia”), in un Paese sfiancato dalla crisi economica
e da un “effimero” elevato a sistema culturale (il suo profeta intellettuale,
Renato Nicolini, protagonista delle Estati romane, è scomparso pochi giorni
fa), dove la noia della “generazione X” è uno stato d’animo permanente.
Dico questo, e mi sono dilungato nella premessa, perché “Passo doppio” di
Ezio nasce in quegli anni, è una gestazione lunga e complessa, perché rivela
un malessere esistenziale che in quegli anni svuoterà le piazze e i cortili (per
chi ha memoria: l’ultimo grande movimento di massa sono i giovani che picconano il Muro di Berlino; negli anni seguenti i giovani entreranno nelle pagine
della cronaca nera e si chiameranno “black bloc” e renderanno tristemente
famosi i sit in delle potenze mondiali) ricacciando le persone nelle case, a
spiare con occhi di gatto dietro persiane e finestre e porte impietosamente
chiuse e sprangate a chiave.
Tramontata la stagione della solidarietà del vicinato, svuotati come denti cariati
i centri storici, violentato persino il bianco della calce (il bianco che al Sud
fa (faceva) miracoli, scriveva Giuseppe Cassieri, ora oscenamente deturpato
con sorprendenti gamme di colori che nelle facciate delle case vanno dal giallo
canarino al verde al viola al malva, e con il benestare delle amministrazioni
comunali), il rifugio nel privato, tra confortevoli mura domestiche, chiudersi la
porta alle spalle, definitivamente, sembrava un passo obbligato.
Un passo obbligato, come lo era stato, Ezio, accantonare i temi e la narrativa
pittorica della cultura contadina, dei contadini dalle mani callose, del culto dei
morti (in un Salento sempre più affrancato da una servitù confinata nei libri di
Fiore, di Levi o di Scotellaro, ma di nuovo popolo di formiche incolonnate ora
ai caselli autostradali o in fila ai checking degli aeroporti pronti a timbrare i biglietti di una nuova emigrazione, qualificata e intellettuale, con il trolley e l’iPad
in mano).
Un passo obbligato, come lo è stato emigrare una prima volta, sei anni in terra
elvetica, e poi tornare a Supersano, provare a forzare l’uscio delle case,
scardinare le diffidenze, parlare di diritti e di sindacato, captare le ansie e i sogni
della gente, e poi emigrare una seconda volta (nel Nord Italia) ad allargare
i confini (non soltanto della propria arte) e andare a vedere, come si dice,
dove fa giorno. Sottilissimo il filo che lega questi momenti, come quello che in
una sua bellissima tela (“Gruppo di famiglia in esterno”) regge i panni del bucato,
appesi ad asciugare, esposti al caldo del sole ma anche alle intemperie.
Non si può vivere di monologhi, ha detto Ezio Sanapo in una remota intervista,
e nemmeno di voli solitari, aggiungo io. Dice Paul Éluard:
«Non verremo alla meta ad uno ad uno, ma a due a due.
Se ci conosceremo a due a due, noi ci conosceremo tutti, noi ci ameremo tutti e i figli un giorno rideranno della leggenda nera dove un uomo
lacrima in solitudine».
Stupenda metafora, quella del volo a due, che ricorda i violinisti e gli amanti
delle promenades di Chagall, che si librano e volteggiano in aria mano nella
mano, in modo sconcertante e a dir poco naturale, e sulla quale don Italo
Mancini nel 1985 – nella solitudine, questa sì perfetta, delle bianche scogliere
di Leuca – scrisse una pagina memorabile, parlando del volo elitario, verticale,
del gabbiano Jonathan e della morale imperfetta dello stormo, cioè della
crassa ignoranza del branco.
Ecco, la scia lunga, il colpo di coda degli anni Novanta è che in qualche modo
si sia tentati da un volo solitario e verticale, cioè dalla tragica dimensione
della solitudine, dove solo a Dio e agli angeli, come dice Francesco Bacone, è
concesso di fare da spettatori. Mentre la logica di questa mostra, la cifra stilistica
di Sanapo e la sua esperienza di artista (uso questo termine in maniera
provocatoria con lui, che si ritiene solo un umile apprendista del colore) vanno
nella direzione opposta, cioè verso un percorso di coppia (non solo nel senso
più corrente di uomo-donna, del “còpula” latino), puntano dritte verso storie
condivise, che possano far riemergere l’uomo dalle macerie di giorni sempre
uguali, che scorrono anonimi, arroccati dietro cancelli elettrici, muri di
confine, vetri blindati e telecamere di sorveglianza contro un nemico immaginario
che preme minaccioso alle frontiere.
[Ecco, a proposito del nemico alle frontiere, una singolare coincidenza di date:
l’8 agosto del 1991 (riaffiorano sempre gli anni Novanta…) dal mercantile
“Vlora” sbarcarono a Bari oltre ventimila albanesi che erano saliti con la forza
a bordo nel porto di Durazzo; la loro prigionia nello stadio del capoluogo pugliese, contro il parere del sindaco e contro qualsiasi sentimento di umanità;
le rivolte; il rimpatrio di quasi tutti gli esuli. Per loro l’abbondanza, la fortuna,
il sogno di una nuova “Mèrica” restarono una chimera confinata nella calura
di un girone dantesco; per noi, fu la perdita definitiva dell’innocenza, rispetto
a un’emergenza immigrazione mai conclusa, anzi in questi ultimi mesi drammaticamente accentuatasi, con gli sbarchi clandestini sulle nostre coste, a un
passo dalle nostre case].
Contro il nemico, scrive Borges, si costruì l’infinita muraglia cinese e il suo imperatore ordinò, anche, che si bruciassero tutti i codici, tutti i libri, tutti i ritratti,
tutti i quadri, tutte le stoffe colorate e tutte le insegne dei negozi. Non si può
nulla predare se tutto è già distrutto e dimenticato: è il paradosso di un presente
orfano di memoria, di un “quando” senza risposta, di un mondo infantile
abbozzato da un dio capriccioso che lo abbandonò, per gioco appunto o
per stanchezza, a metà dell’opera.
“Passo doppio”, invece, è la porta spalancata di casa, un invito a guardare cosa
vi succede dentro, a sbirciare dove e come possono nascere le nuove speranze.
Che si tratti di un ballo appena accennato, o di un vorticare frenetico
di mani e di gambe, o di una scala a pioli che sembra tentare la scalata fino
al cielo, il messaggio più eloquente è che, dietro ogni apparenza e contro ogni
apparenza, in fondo al tunnel c’è sempre una speranza.
Guardando questa “nostra” gente ballare, dure e callose le mani, viene in
mente “L’avventura di due sposi” di Italo Calvino, dove è rappresentata la vita
quotidiana di due giovani sposi, operaio lui, impiegata lei, una vita familiare
vincolata e condizionata dai rispettivi orari di lavoro, stritolati dalla logica del
capitalismo e di una società industriale che con i suoi ritmi produttivi priva i
due giovani sposi persino del tempo per amarsi e rende frettolose e fredde e
furtive le loro carezze, negando loro persino il piacere di tenersi per mano. La
speranza è quella di ritrovarsi, per un attimo, a condividere davanti a una bacinella d’acqua il tubetto del dentifricio.
E in direzione della speranza sembra guardare la moglie del casellante, lo
sguardo penetrante e insistente a cercare treni su altri binari, oltre la linea dell’orizzonte, oppure le due figure femminili, la donna e la bambina, in bilico sul
binario in attesa del treno, o aspettando di sentirne il fischio (“Binario unico”),
o la donna che splende di luce propria, come le lucciole di pasoliniana memoria,
nel “Ritratto di amanti in un interno”, dove la passione e l’amore non
hanno volti, ma sono ridotti a pura sostanza.
La speranza, dicevo. È una vigilia, dice Sanapo, è l’attesa, il sabato del villaggio,
e quando si realizza (la speranza) ti rendi conto che, come l’utopia, questa
speranza ti ha fatto camminare, proprio come l’utopia dello scrittore uruguayo
Eduardo Galeano, così cara a Sanapo: «L’Utopia sta all’orizzonte. Mi avvicino
di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi e l’orizzonte
si allontana di dieci passi. Per quanto cammini, non la raggiungerò mai. A
cosa serve l’utopia? A questo: serve a camminare».
Ma la speranza è anche un filo sottilissimo ed esile, che si tratti del filo dell’uomo
e della donna che ricamano (splendida metafora dei ruoli invertiti nella
società moderna…), o del filo dei guinzagli di “Isola pedonale” (l’uomo e la
donna si avvicinano, si conoscono, mantengono le distanze? O altro?), o il filo
che muove la macchinina dell’autoscontro e porta una coppia tra gli scossoni
della vita, tra rischi di colpi e di collisioni.
L’individuo da solo non conta niente, non dà certezze, non fornisce risposte (si
veda il quadro con il manichino, e subito dopo quello con l’appendiabiti, da
leggersi l’uno e l’altro in sequenza, come se fossero collocati nella stessa stanza):
in termini pittorici, è il rovesciamento dell’impressionismo, che diede uno
scossone alla riproduzione naturalistica della forma, che porterà alla scomposizione del soggeto rappresentato e infine alla sua dissoluzione nell’astrazione, nel concettuale e nell’informale. Lo aveva lucidamente anticipato, nel 1832, Honoré de Balzac, nel suo “Capolavoro sconosciuto” dove il protagonista del racconto, il pittore Frenhofer, nega l’esistenza in natura delle linee, il contorno degli oggetti, definiti in realtà dalla luce che avvolge dinamicamente superfici e volumi.
Ezio le linee le usa, eccome, con il seppia o il nerofumo, definisce i contorni
e le mase corporee, e le pieghe degli abiti, e le architetture e i ritagli del cielo,
non lascia spazio agli equivoci o alle imposture delle macchie e dei tocchi
di colore, delle ombre e dei riflessi, dei valori tonali, prospettici e atmosferici:
in questo è un artigiano tardo-rinascimentale, lontano anni luce dall’artista individuale, narciso e nevrotico dell’età romantica e dei giorni nostri.
Provate a guardare, ora, questi quadri, e di ognuno di loro vi sembrerà di poterci
entrare dentro, e girare intorno ai personaggi, sentire il calore della pelle
e anche il sudore, e di poterli guardare da ogni angolazione, come se si fosse
allo stesso tempo protagonisti e spettatori, che è poi il vero senso della tragedia,
dove gli uomini, tutti gli uomini, sono spettatori, e il vero miracolo della pittura:
che è quello di lasciarci dentro un dubbio, più spesso un’emozione. E di
farci credere che presto finiranno, anche per noi, i giorni della leggenda nera.