di Elio Ria
Se il mio male fosse medicabile nessuno lo medicherebbe. Nelle mille notti di voli e di acrobazie gli angeli sospetti danzano la follia. Questo giorno pallido, indignato, inopportuno, ripetuto, sconquassato, non richiesto, è terribilmente in tensione con le ore degli artigiani del cielo che in affanno arredano salotti di nubi. Le pagine consumate del libro delle magie deflagrano riti e consulenze, formule alchemiche indesiderate. Un labile sorriso di un passante si perde sugli alberi del frutteto del giardino del signore del paese. Pendono i rami di frutti carnosi e succulenti in attese di raccolta. Ahi, quanti passano dal mio sguardo senza lasciare traccia come i fiori maledetti che non germogliano frutti. È un’estate splendida che non fa per me. Questo giorno che non mi lascia e mi sorprende con i dettagli di un giardino colorato di muretti e alberi e fiori e colori mi commuove.
Il profumo che dal giardino si propaga per la corte appisolata conclude il fumo della pipa di un vecchietto seduto sull’uscio di casa a respirare aria di donne in passeggio sotto il sole nudo di agosto.
La ferrovia taglia in due il paese e il rumore dell’antica littorina fascista solleva il cuore dal silenzio di un meriggio stantio. Non c’è molto da fare. C’è tanto da osservare o da sfidare.
I vecchi seduti sulla panchina di ferro smaltiscono noia con i discorsi sfavillanti del pettegolezzo paesano che dà soddisfazione e piacere all’immaginazione, né a nulla serve il saluto del prete a distrarre le loro narrazioni. È tutto un andare lento verso il passato di un paese che converge inopinatamente al centro del cerchio temporale delle usanze in prossimità del presente. Lentamente per gustare parvenze di modernità incastonate nelle ore delle tradizioni di un tempo.
E io a guardare gente, chiese, case, corti e vie per sopraffare la lentezza della vita, che manifestamente non ne vuole sapere di modernità.
C’è qualcuno che come ombra s’aggira furtivo per non scoprirsi: un uomo di età incerta, magro e purgato. È talmente malandato che la febbre non lo cerca né osa presentarsi nelle sue vene. I suoi occhi appaiono come caverne buie e misteriose. Le mani rozze e contorte. Raccoglie i mozziconi di sigarette sparsi per le strade, poi a tastarli con il pollice e l’indice e infine riutilizzati per un’ultima boccata di fumo grigio.
Scorre così questa giornata – che ormai volge verso l’ora sesta del pomeriggio – nelle storie minime di gente che nessuno vorrebbe conoscere o pensare di raccontare. Eppure c’è un mondo nel mondo, occultato dagli occhi avidi e superbi delle persone, transitato nel confine dell’indicibile o meglio della linea di vergogna dell’emarginazione, periferia di consumo e di parcheggio della vita.
Il sagrestano della chiesa principale e importante del paese chiama a raccolta le donne e gli uomini del paese per la celebrazione della Messa. Il rito va onorato ogni giorno e il dolore senza una liturgia non può esistere per dare l’illusione di una cura. E nel passo spedito e certo delle vedove intravedo il trascorrere di un tempo sempre uguale e mai diverso, che non sa concedersi né distrazione né trasgressione, incapace di rinnovamento.
È il tempo del sud che nell’estremo tentativo di apparire sempre fecondo e laborioso rilascia immagini piacevoli di gente diversa in luoghi multiformi di spettacolarità di colori, di inappetenza modernista ma con la voglia di sbalordire gli orologi dei campanili delle chiese silenziose dei santi protettori di incondizionato amore per il dio che ha voluto una terra così ricca di eccellenze.
È tardi! Invero è sempre la stessa ora da quando ho smesso di leggere il libro di Goethe. Ho ricevuto però diletto dal mio peregrinare visivo per un paese che ancora ha tanto da inventare. Ormai l’afa è alla gola e un buon bicchiere d’acqua ci vuole per ristorarmi. C’è ancora da vedere per conoscere, un po’ difficile da capire, tentare di spiegare la terra del sud.
Il mio malessere è in ritirata, adesso. Non può accedere oltre, e c’è un indizio dell’ora decima che preannuncia divertimento di lune succose.
Ho voluto scriverti per raccontarti di me, ma poi ho preferito inviarti piccoli frammenti di vita di un paese che mi sta a cuore, non per sbalordirti ma per significarti il benessere interiore che mi prende nel riordinare e ripensare i fatti giornalieri contaminati dalle astrazioni di esistenze.
Mi vengono in soccorso le parole, la sintesi poetica di Vittorio Bodini per dire ciò che ho provato nel leggere questo intenso articolo sul nostro Salento :
“Qui non vorrei vivere dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare…”
ma è un nesso assolutamente gratuito e personale.