Centesimo su centesimo, pensando al funerale…

 

collezione privata Nino Pensabene

 

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO FINE OTTOCENTO

 

LU LIBBRU TI LA CAMPANA

 

Le vecchie contadine, una volta vedove, risparmiavano centesimo su centesimo per pagarsi già in vita le spese del funerale

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Rimaste vedove, le donne contadine, seguendo l’esempio delle mamme,  delle nonne e delle anziane zitelle, si davano a mettere da parte, centesimo su centesimo, il gruzzoletto destinato a pagare le spese del loro funerale, giacché da vive – dicevano – si poteva anche saltare i pasti o rimanere a camino spento, ma da morti si doveva avere almeno la bara.

Uso voleva che gli spiccioli raggranellati venissero di volta in volta depositati presso l’arciprete o il parroco, che al momento opportuno avrebbe personalmente provveduto alle esequie, rispettando coscienziosamente le volontà espresse e già annotate, assieme alle somme versate, su di un registro che in gergo popolare veniva indicato come “Lu libbru ti la campana” (“Il libro della campana”). Volontà e depositi, infatti, si sviluppavano in modo parallelo, poiché le prime dipendevano inesorabilmente dalla minore o maggiore consistenza dei secondi che, a volte, per quanti sacrifici si facessero, risultavano appena bastevoli all’indispensabile guscio di legno.

L’acquisto della bara, appunto, era l’assillo più pressante, il primo che si doveva assolvere, quello che, una volta assicurato, concedeva un sospiro di sollievo permettendo di comunicare alla comare più vicina la propria soddisfazione: “Cristu m’à bbinitétta, cummàre mia, e ngià tegnu ssicuràtu lu liéttu pi’ ll’osse” (“Cristo mi ha benedetta, comare, mia, e già tengo assicurato il letto per le ossa”).

Subito dopo si pensava alla mancia per il sacrestano incaricato a suonare le campane, tenendo presente che nella somma predestinata doveva rientrare lu miéru e lla pagnòtta, ossia il bottiglione di vino e la forma di pane farcita di ricòtta ‘scante (ricotta piccante) che, poco tempo prima del funerale, l’arciprete provvedeva di far trovare all’interno del campanile: il campanaro poteva così, fra una scampanata e l’altra, mangiare e bere pi’ lla salùte sua e llu ddifrìscu ti l’ànime sante (alla sua salute e in suffragio delle anime sante del purgatorio).

Quella delle campane, ossia la durata del loro suono, pure essendo un’esteriorità fine a sé stessa, veniva tenuta molto in conto, vista come elemento caratterizzante o, per meglio dire, discriminante tra funerale e funerale. Per il transito dei ricchi, infatti, le campane suonavano a lungo, tutte e quattro contemporaneamente, e poiché – nella filosofia pratica del popolo – ciò era dovuto alla soddisfazione del sacrestano – che più ‘mangiava’ più si sbracciava a suonare -, in quelle occasioni le battute erano sempre le stesse:

Zzoche unte osce!…  Stà ssiénti cummàre?” (“Funi ingrassate oggi!… Stai sentendo comare?”)

Stà ssentu, e ccomu stà ssentu!… Lu fattu gghète ca rassu ti puércu no fface caddhri a lli manu!…” (“Sto sentendo, e come sto sentendo!… Il fatto è che il grasso di maiale evita i calli alle mani!…”).

Una volta depositati gli spiccioli destinati alla ricompensa del sacrestano, si passava a risparmiare quelli per lu precamuérti (il becchino), un personaggio che nel sentimento degli umili aveva un posto di rilievo, poiché, oltre a essere in pratica l’ultimo esecutore del rito funebre, rappresentava simbolicamente la continuità di un rapporto fra il regno dei morti e la terra dei vivi. A lui si devolveva non soltanto la custodia dei corpi, ma il mistero stesso che si accentrava nel loro disfacimento e che trovava ragione solo nell’esplicazione di un culto ch’era paura e speranza insieme. Sospeso fra la realtà del lumino da accendere e l’irrealtà di un suo segreto dialogo con gli spiriti dell’aldilà, il becchino riscuoteva rispetto, se non addirittura amore: gli spiccioli da lasciargli in regalia erano dunque quelli che si risparmiavano con più cuore, giacché il sentimento del personale interesse veniva scavalcato da un più puro senso di gratitudine.

Uso voleva che, a tale scopo, si lasciasse all’arciprete quel tanto di denaro quanto bastava per acquistare nnu facciulittòne ti fae e nna pignàta ti uégghiu (un fazzolettone di fave [due-tre chili] ed una pignatta di olio [due-tre litri]): le fave perché ritenute per tradizione il cibo sacro dei morti; l’olio perché stimato ricchezza della casa, simbolo di benedizione per il povero, che non sempre poteva permettersi nnu cuéru ti pane cu nna croce ti uégghiu (una crosta di pane condita con un segno di croce fatto con l’olio).

Lu libbru ti la campana”, sia pure come frangia sempre più sfilacciata, è amaramente sopravvissuto al diciannovesimo secolo, protraendosi – con tutti i sacrifici e le privazioni di una vecchiaia povera – fin quasi alla seconda guerra mondiale.

Fra i compiti socio-umanitari delle arcipreture o parrocchie del Salento c’era anche questo; un merito che diveniva addirittura nascosto là dove parroci o arcipreti, provenienti da famiglie abbienti, in casi estremi intervenivano personalmente pi’ ddare pace e rriposo all’osse di qualche creatura sventurata.

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2 Commenti a Centesimo su centesimo, pensando al funerale…

  1. E’ sempre un piacere leggere questi bei testi.
    Anche se sono testimonianza di un triste passato, è bene che questa memoria non cada in oblio.
    Si deve guardare al futuro con la memoria nel passato, sempre.

  2. Lei non sa, caro Giuseppe, quanto piacere reca alla mia anima e alla mia psiche sentire parlare in questi termini un giovane della sua età.
    Queste sono le consolazioni, le uniche, che si possono raccogliere dopo anni e anni di lavoro, quando ormai ti credi di essere un vecchio non vincitore per la realtà di un serio passato di studi e di ricerche ma vittima di una maledetta offensiva deformazione intellettuale.

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