Al mio paese nessun morto è mai morto…

 

da: http://erbariodellastrega.splinder.com/

di Alfredo Romano

Non ho avuto libri da bambino, non c’erano i libri. La carta era quella paglierina del pizzicagnolo che ti incartava un’aringa o cento grammi di ricotta forte detta schianta. La pagina era quella di un vecchio giornale che trovavi dal barbiere, tagliata fino a ricavarne un mazzo di quadratini da inchiodare sul muro: serviva a pulire il rasoio dalla schiuma da barba intrisa di peli. Per non dire di quella scritta in latino quando si andava a servire messa a don Salvatore. A fare i bravi si guadagnava anche un ordo missae, l’annuario delle messe, che portavo a casa raggiante: era pur sempre un libro.

Non c’erano libri da bambino, ma è stata una fortuna per me non avere libri da bambino, ci sarebbe stato tempo per questi.

Non ho avuto libri… ma ho avuto in casa dei narratori che ricordo come altrettanti libri parlanti le cui voci mi giungono ora, nel tempo, misteriose, inafferrabili. Non si dice che quando muore uno dei nostri vecchi è come se morisse una biblioteca?

L’arte del raccontare è stata una prerogativa della mia famiglia. I miei nonni materni[1], come i miei genitori, erano depositari di una sconfinata tradizione orale fatta di storie vere e fantastiche, satire e lazzi tipici dell’astuzia contadina. E poi canti d’amore e di dispetto, poesie religiose e d’occasione, proverbi, modi di dire, indovinelli, filastrocche, conte, ecc.

Erano i tempi dell’ozio, inteso come tempo necessario da dedicare allo spirito, allo svuotamento dei pensieri, al comunicare, al tramandare. Era questo il “perder tempo” a raccontare. Il momento magico arrivava di sera, quando il buio scatenava le paure sopite, quando il latrare dei cani sembrava provenire dagli abissi infernali. La morte era in agguato, ma i morti non erano morti e tornavano a solleticare i vivi. C’erano strane donne vestite di nero che salivano il sagrato della chiesa per la funzione serale, poi, a rito finito, di loro nessuna traccia. C’era un cane sconosciuto, enorme, vestito di una lanugine bianca, che di notte girava il paese e scompariva all’alba: era l’uomo pugnalato per sbaglio davanti all’osteria in una sera di lampi e di tuoni, e la moglie, a cercarlo, era inciampata sul corpo nel buio.

Al mio paese nessun morto è mai morto, i sogni erano sempre tempestati di anime, di anime in pena che invocavano i suffragi così come gli eroi greci rimasti insepolti invocavano una degna sepoltura. Le anime erano i rami degli ulivi pronti a ghermirti che pendevano al chiaro di luna disegnando strane ombre sulle strade bianche e polverose. Le anime bussavano alla finestra annunciate dal lugubre verso della civetta, oppure camminavano decise sui cornicioni delle case vestite di lunghissimi camici bianchi, o battevano i talloni al di sopra delle lamie per spaventare i dormienti. A questi stessi non esitavano magari a tirare i piedi, per rimproverarli di non aver posto nella bara tutti gli oggetti dovuti o per essere trapassate senza le dovute scarpe nuove.

Perfino a tavola, nell’atto di mangiare un cocomero fresco o qualche altra delizia, bisognava augurarsi che allo stesso modo si “refrigerassero” i morti: ddefriscu a lli morti (refrigerio ai morti) era l’immancabile ritornello.

È in questo clima che si raccontava, trasfigurati da una lampada a petrolio, in un gioco di lampi e di ombre che si rincorrevano per la stanza con i mezzibusti severi degli avi pendenti dalle pareti.

Mio nonno Pasqualino aveva l’abitudine, d’estate, di recarsi a Rimini. Trascorreva 15 giorni da suo figlio Luigi che si era sposato colà durante la seconda guerra. Così mia nonna Maria Neve restava sola ed era abitudine, ogni volta, che un nipote le facesse compagnia durante la notte. Questo privilegio toccava a me, perché ero il più grande di quattro fratellini. Bene, si trattava di un’occasione unica. Prima di addormentarmi nel letto matrimoniale, mia nonna si trasformava in un’intera compagnia di teatro. Delle volte, per drammatizzare meglio i suoi racconti, si levava in piedi sul letto e gridava e gesticolava a più non posso. Io ero lì come incantato, spettatore ignaro di eventi irripetibili, catapultato in storie che prendevano corpo nei suoi cicì cicì dei tanti passeri, nei suoi bum-bum del Nanni Orcu, nelle bucce di noci di Giovannino; oppure nelle battaglie intorno a Guerin Meschino, a Genoveffa di Parigi con la sua capretta e al possente Fioravante.

E poi lei, sempre così religiosa, a dirmi di preti e monaci che si volevano fottere le donne pie (Il fatto dei tre preti, di San Giorgio ecc.), ma che alla fine, per quante essi stessi ne subivano, risultavano più degni di commiserazione delle loro vittime.

Mio padre Giovannino e mia madre Lucia, questa voglia di raccontare l’hanno esercitata fino all’ultimo, anche sul letto di morte durante la lunga malattia. Papà, a dire il vero, nella circostanza ci dava come l’illusione che stesse per migliorare. Si usava a Collemeto, quando si veniva a sapere di uno che stava per morire, fargli visita “per vederlo un’ultima volta” si diceva. Generalmente l’ora era quella pomeridiana. Mio padre avvertiva, già dal brusio, la gente approssimarsi alla porta di casa. Come per incanto sgranava gli occhi, si liberava del copricapo di lana e, con un certo sforzo, riusciva a porsi seduto sul letto; chiedeva perfino un pettine per darsi una sistemata. Bene, i nuovi arrivati si mettevano seduti tutt’intorno al letto in un’atmosfera mesta, come per una veglia funebre. A mio padre invece non sembrava vero trovarsi intorno un pubblico tutto per lui, come lo aveva avuto in tante altre felici occasioni quando aveva narrato e sedotto accompagnandosi con grandi gesti. E attaccava: il suo preferito era Don Tonino. Incredibile!, la gente crepava dal ridere e se ne tornava a casa non certo con l’impressione di aver fatto visita a un morente. Ma, usciti che erano tutti, ecco che mio padre tornava a morire: forse, in cambio di un ultimo sorso di vita, aveva combinato qualche scellerato patto con sorella Morte. E noi a illuderci ogni volta.

E mia madre. Alcuni dei racconti li ho scritti quasi sotto dettatura. Nel suo letto d’ospedale, in alcune pause del dolore, al fine di distrarla, le chiedevo di raccontare. Li conoscevo già quei racconti, ma avevo voglia di tornare su passi ormai caduti nell’oblio, su alcuni ritmi, su dei toni di voce, delle sfumature, perfino su dei gesti e smorfie facciali essenziali al racconto. Avevo voglia, questo sì, di far restare mia madre nelle parole, di portarmela via in un quaderno di appunti, magico, che poi avrei sfregato come la lampada di Aladino. Ma questo, lei, lo aveva capito bene.

Verbum caro factum est, la parola si è fatta carne. Mai detto evangelico fu più vero. Non esiste per me fascino più grande della parola. Posso scrivere, posso bearmi con una pittura, un paesaggio, un film, una sonata di Chopin, per ricondurre poi tutto alla parola. La parola da sola è musica, è poesia. La parola non ha bisogno di supporti per essere bella. Ci sono canzoni che preferisco, proprio così, cantare senza chitarra. Lo strumento ti obbliga in qualche modo a una misura già definita, mentre l’animo ha bisogno di librarsi all’infinito senza catene, come avveniva nel canto gregoriano.

Tutto questo sento di non averlo appreso soltanto a scuola, sono convinto di averlo anche ereditato. E quando a scuola è arrivato il mio primo libro di lettura, ho scoperto che era fatto di parole, parole da declamare ad alta voce, per dare anima e corpo a pagine e a segni di per sé morti. Forse è per questo che amo così tanto il libro, questo scrigno che basta scardinare per imbattersi in parole che viaggiano per mari e mondi sconosciuti, parole che concertano suoni e visioni che preludono all’unico paradiso che possiamo sognare su questa bellissima terra.


[1]Parlo sempre dei nonni materni. Di quelli paterni, purtroppo, la nonna è morta due anni prima che io nascessi, il nonno quando avevo l’età di cinque anni.

(Introduzione all’ultima edizione del volume Lu Nanni Orcu, papa Cajazzu e altri racconti salentini. Nardò, Besa, 2008).

 

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