di Antonio Bruno*
L’olio d’oliva extra vergine qualche settimana fa veniva pagato al mercato di Andria all’ingrosso Euro 2,75 al chilo. Se l’olio ha il marchio dop (denominazione d’origine protetta) oppure igp (indicazione geografica protetta) allora può arrivare a quasi 7 euro al chilo, ma di questo tipo di olio ce n’è davvero molto poco.
Il numero di piante di olivo per ettaro si aggira in provincia di Lecce nel caso di impianto tradizionale a 400 piante che producono mediamente 45 chili di olive. Dalle olive si ricava mediamente il 18% di olio per cui da un ettaro di oliveto si ricavano 18.000 chili di olive e quindi 3.240 chili di olio che se è andato tutto bene, e sempre se risultasse tutto extravergine con i prezzi di qualche giorno fa sarebbe venduto a 2,75 euro al chilo.
Ecco che, se tutto viene fatto a regola d’arte e l’annata è stata buona, un ettaro di oliveto fornisce al proprietario una produzione lorda pari a circa 9.000 euro. Dai 9.000 euro però bisogna togliere i costi di produzione e cioè le spese per le lavorazioni, la concimazione, la potatura, la raccolta e trinciatura della legna, la difesa dai parassiti, la raccolta, il trasporto e infine la molitura. Cosa resta? Leggiamolo dalle parole scritte dagli agricoltori di Martano domenica 25 gennaio 2009 e che anche quest’anno risuonano nel Salento leccese: “Produrre olio non conviene più? Allora abbattiamo gli olivi del Salento e magari facciamone legna da ardere, con quel che costa il gas.
Sebbene la Legge n.144/51 permetta solo l’abbattimento di 5 alberi di ulivo ogni biennio, quando sia accertata, la morte fisiologica, la permanente improduttività o l’eccessiva fittezza dell’impianto da parte dell’Ispettorato provinciale dell’agricoltura, alla luce della crisi che sta attraversando il comparto olivicolo si comunica all’Ispettorato la necessità di operare lo svellimento totale degli alberi di olivo presenti nei terreni di proprietà.
Tra l’altro in controtendenza rispetto alla linea perseguita dal governo regionale che, con la legge regionale n. 14 del 4 giugno 2007 recante “Tutela e valorizzazione del paesaggio degli ulivi monumentali della Puglia”, entrata in vigore il 7 giugno 2007, aveva inteso tutelare e valorizzare gli alberi di ulivo monumentali in virtù della loro funzione produttiva, di difesa ecologica e idrogeologica nonché in quanto elementi peculiari e caratterizzanti della storia, della cultura e del paesaggio regionale, cercando di porre un freno al fenomeno dell’espianto e commercio degli alberi, specie di quelli secolari.”.
Il motivo? “Le attuali condizioni di mercato” – aggiungono gli olivicoltori – che in assenza di nessun intervento istituzionale a sostegno della economicità aziendale, rendono passiva, deficitaria ed antieconomica la loro coltivazione ed il loro mantenimento ai fini agricoli.
Dopo un secolo la storia si ripete solo che nel 1918 chi aveva occasione di percorrere le campagne del Salento leccese non poteva fare a meno di restare sorpreso nel vedere il grande movimento rappresentato dalla distruzione di oliveti che si andava compiendo a partire dal 1915. Tale distruzione era senza tregua sia d’estate che in inverno e sia che gli alberi di olivo si trovassero in buono che in cattivo stato di vegetazione e che producessero o meno un buon quantitativo di olive.
Nel 1918 si sentivano i colpi secchi della scure amplificata nel silenzio che allora dominava le campagne, chi si avventurava per le strade rurali era investito dall’odore acre del fumo che si sprigionava dalle carbonaie che si incontravano in ogni dove nelle contrade del Salento leccese. E sempre percorrendo la rete viaria salentina si incrociavano ovunque lunghe file di carri stracarichi di legna.
Questa immagine di devastazione è stata la caratteristica del Salento leccese del 1915 – 18 che costituisce la prova della crisi gravissima che in quel periodo stava attraversando l’oliveto e l’olivicultura salentina.
In quel periodo non c’era necessità di recarsi in campagna per poter vedere le migliaia e migliaia di metri cubi di legna d’olivo che si accatastavano nei pressi delle stazioni ferroviarie. Inoltre a Piazza delle Erbe era possibile vedere i carri ricolmi che formavano una lunga coda per aspettare uno dopo l’altro di poter essere pesati sulla bascula dell’Ufficio daziario.
Questa situazione era già evidente in tutto il Regno d’Italia e il governo di allora avuta chiara la situazione pubblicò un decreto luogotenenziale l’8 agosto del 1916 che aveva la funzione di moderare questa piaga del taglio senza scrupoli degli oliveti meridionali.
Le norme per accordare la concessione del taglio degli olivi contenute in quel decreto erano troppo vaghe ed indeterminate al punto che due anni dopo, ovvero nel 1918, si poteva assistere a questo scenario devastante ed apocalittico di taglio dei veri e propri boschi d’olivo del Salento leccese.
Quel decreto imponeva la costituzione di commissioni che dovevano autorizzare o meno la distruzione degli olivi che però agivano senza criteri precisi tanto che alcune volte autorizzavano la distruzione di oliveti che avrebbero dovuto essere rispettati e altre volte vietavano il taglio di oliveti vecchi ed improduttivi.
I proprietari di oliveti del 1915 – 18 erano incentivati a divenire taglialegna dai prezzi altissimi dei combustibili legna e carbone e quindi non esitavano a chiedere lo svellimento dei loro oliveti. Gli astuti proprietari per fare in modo che la domanda di autorizzazione per il taglio fosse fondata e accettata dalla commissione hanno scritto interminabili motivazioni alcune volte giuste, ma spesso le argomentazioni addotte erano solo dei pretesti alcuni dei quali addirittura ridicoli.
La maggior parte degli olivicoltori giustificavano la loro domanda di svellimento per l’improduttività delle loro piante. Spergiuravano che la mancanza di produzione permaneva nonostante avessero impiegato tutti i mezzi messi a disposizione dalla tecnica e dalla scienza. Altri giustificavano la domanda di taglio con la volontà di trasformare l’oliveto in seminativo da destinare alla coltivazione del tabacco o del vigneto che a loro dire garantivano un reddito di gran lunga più elevato.
Altri dichiaravano di voler tagliare il loro oliveto per destinare il terreno alla coltivazione raccomandata allora dal governo ovvero quella dei cereali, essendo che il paese ne aveva necessità essendo stato tanti anni in guerra. Infatti in quel periodo il Governo raccomandava di aumentare quanto più era possibile la produzione di derrate alimentari. Tale argomentazione risultava altamente umanitaria e spesso inteneriva i cuori dei componenti della commissione ottenendo in tal modo l’agognata autorizzazione al taglio.
Ma le ragioni che allora fecero più presa sull’animo dei componenti della commissione furono quelle di salvaguardare la salute dei lavoratori, potatori e raccoglitrici di olive che potevano essere contagiati dalla malaria che imperversava in quegli anni in quegli oliveti.
Tutti i motivi addotti hanno avuto un gran successo tanto che la commissione ha autorizzato il taglio del 90% degli oliveti dei proprietari che presentarono domanda di distruzione.
Per questi motivi nel 1918 il Governo si apprestava a licenziare un altro decreto in sostituzione di quello del 1916, ma mentre il Governo provvedeva c’era un’altra causa che dava davvero ragione ai proprietari di oliveti di distruggere tutto ed era l’istituzione in quegli anni del calmiere sugli oli.
Col termine calmiere dal greco kalamométrion, si intende l’imposizione per legge di un tetto massimo ai prezzi al consumo per uno o più prodotti, solitamente di prima necessità. Questa misura venne presa dal governo per contrastare un aumento eccessivo dei prezzi causato dall’inflazione. Per questo motivo se prima di questa decisione a voler tagliare gli oliveti erano solo i proprietari di quelli infruttiferi o poco fruttiferi affascinati dal miraggio dell’alto prezzo della legna, dopo l’introduzione del calmiere anche i proprietari di oliveti produttivi si lasciavano trascinare dalla corrente.
Il produttore di olive e di olio del 1918 faceva un ragionamento molto semplice dopo aver fatto i calcoli sulle spese di coltivazione e di raccolta del prodotto e tenuto conto anche della produzione di olive che non è costante, arrivavano alla conclusione di distruggere i loro oliveti vendendoli per legna anziché ricavare olio. Questo poiché l’olio avrebbe finito con l’essere venduto a prezzo di calmiere ritenuto per quegli anni eccessivamente basso rispetto a quello di altri grassi commestibili.
Le notizie riportate sono state redatte dal Prof. Ferdinando Vallese che conclude la sua nota con l’affermazione che il problema non era di facile soluzione perché, comunque si cercasse di risolverlo, si urterebbero gli interessi dei proprietari se si propendesse per l’applicazione del calmiere e quelli dei consumatori se del calmiere si intendesse fare a meno.
Ora come allora gli olivicoltori pur consapevoli che l’espianto indiscriminato di ulivi porterebbe alla deturpazione del paesaggio tipico del nostro territorio, non vedono altre soluzioni alla grave crisi che sta attraversando il settore, che mette in serio pericolo la loro sopravvivenza aziendale.
L’albero di ulivo, emblema del paesaggio e della storia dell’economia salentina, corre il rischio di scomparire perché risulta antieconomico.
Oggi la legna e il carbone non rappresentano la “suggestione energetica”, oggi va il rinnovabile, il solare e l’eolico, frutta tanti Euro all’anno, da riuscire ora come allora a distruggere gli oliveti del Salento leccese.
Ad oggi la Puglia occupa per le energie rinnovabili il primo posto in Italia per potenza installata con oltre 100 Megawatt. Tra eolico, fotovoltaico e biomasse, il Piano Energetico regionale (Pear) prevede l’installazione di poco meno di 5 mila Mw di potenza entro il 2016.
L’obiettivo “minimo” fissato dal Pear, prevede l’installazione di almeno 200 MW, cioè il doppio del risultato raggiunto fino ad oggi. Questo vuol dire che siamo solo a metà dell’obiettivo considerato minimo. Ora come allora la crisi del mercato è affrontata dagli agricoltori vendendo ciò che hanno avuto dai loro padri per ricavare energia.
Allora la situazione cambiò. E oggi? Cosa faranno gli olivicoltori di oggi con un prezzo dell’olio di 300 euro al quintale?
*Dottore Agronono
Bibliografia
L’Agricoltura Salentina del 1918
Marcello Scoccia Capo Panel ONAOO Rilevazione prezzi del 02 e 03 Aprile 2010 TN 13 Anno 8
Disciplinare Consorzio di tutela DOP Terra d’Otranto
UNAPROL FILIERA OLIVICOLA ANALISI STRUTTURALE E MONITORAGGIO DI UN CAMPIONE DI IMPRESE
http://www.frantoionline.it/ultime-notizie/produrre-olio-non-conviene-piu.html
Paolo De Maria L’olio nel Salento
Adriano Del Fabro Coltivare l’olivo e utilizzarne i frutti
Glauco Bigongiali Il libro dell’olio e dell’olivo: come conoscere e riconoscere l’olio genuino
Interessante analisi, non fa una grinza, ma oggi più di ieri si reclama il diritto a coltivare la Terra, intesa non come territorio o proprietà. Gli ulivi sono patrimonio della collettività ed elementi ambientali su cui le moltiplicazioni tecniche hanno poco potere e sono anacronistiche. Qualche decennio fa si ripeteva la tiritera della qualità dell’olio d’oliva e i finanziamentii per raggiungerla sono cascati a pioggia e chi parla di qualità oggi parla di energia impossibile. GLI ULIVI NON SONO PIANTE FORESTALI. Ora che la qualità e raggiunta non ci si trova con i prezzi, allora invitiamo a riflettere sul prezzo non renumerativo di una miriade di piccole aziende olivicole che rinunciano vivamente l’antipolitica dell’economia di mercato che è decisa da qulacuno che non ha mai raccolto un oliva da terra. Il calmiere dei prezzi potrebbe essere un alternativa possibile, l’alternativa di chi coltiva la Terra rispettandola, di chi non ha bisogno di illuminarsi per lavorare anche di notte perchè gli basta la luce della luna. La responsabilità è di chi ha gli pseudopoteri di decidere sul sacrifio dei lavoro altrui.
“gli alberi d’ulivo non si sradicano punto e basta!” questo ho detto in una discussione con un signore che però francamente mi ha fatto un po’ pensare quando mi diceva che possiede un uliveto di circa cinquanta alberi secolari in contrada “petrore”, a Cutrofiano, una delle zone dove da sempre si è prodotto un ottimo olio d’oliva, alberi enormi di celline, produttivi, ma che i costi di gestione erano insostenibili per lui che aveva perso il lavoro e aveva due figli… mi diceva che per “mundarli” (potarli) erano necessari minimo 2.500 euro, essendo alberi altissimi le ulive potevano essere raccolte solo per caduta e che l’olio prodotto era considerato lampante dai commercianti disposti a pagarlo non più di un euro al kg e che quindi per lui l’unica soluzione era venderli sottoforma di legna e rivendicava il diritto di farlo… credo che bisognerebbe pensare anche a qualche forma di tutela economica per chi possiede e coltiva questi importantissimi monumenti naturali e storici che però non danno pane e in tempi di crisi drammatica come questi diventano un lusso purtroppo insostenibile per molti…