di Wilma Vedruccio
Per molto tempo Borgagne non è stato il mio paese, era il paese di mia madre, il paese dei nonni materni che coltivavano garofani in vasi di fortuna, nel loro giardinetto dietro casa, con al centro l’albero di mèndule. La loro casa, sotto un arco di pietra con un rosaio di rosa ndurante per ghirlanda, in quello che oggi si dice centro storico, si affacciava nella stessa corte dove imperava un geranio rosso scuro di velluto, dentro una capasa, e dove Romeo, il cacciatore di sanguette, passava i pomeriggi a fumare la pipa e a riposare sul gradone di liccisu.
Odor di rose a maggio, odor di botti di vino in tutte le stagioni.
La poesia di San Martino si mandava a memoria facilmente.
Ora, dopo vicissitudini ed affanni, è il paese in cui vivo stabilmente, io che ho eletto il Salento intero a patria mia poichè un paese solo mi par poco.
Olivi cingono Borgagne tutta in tondo, le vigne le vedi solo se ti inoltri a piedi nel feudo di Pasulo, in alcune conche le puoi ancora trovare, coi cippuni che affondano nell’acqua, nelle annate in cui abbondano le piogge.
Il centro abitato, cresciuto molto negli ultimi decenni, sembra voler assediare gli oliveti, morde la campagna che si ostina a fiorire intorno, cancella sciardine, innocenti vittime sacrificate al dio delle lottizzazioni, mentre la popolazione è ferma ad un numero costante, circa 2000, che ha cristallizzato istituzionalmente il paese in un dimensione sgradita di frazione. Poche le sezioni di scuola di base. Tante le macchine e le case.
Duemila anime, dunque, suppergiù, un microcosmo multiforme di culture, dalle roccaforti ancora resistenti di cultura contadina a frange giovanili postmoderne, da stili di vita quasi arcaici a quelli riconducibili a forme sfrenate di consumismo a gogò, con annessa problematica e malcostume inerente a cosa farsene degli oggetti in più, se non abbandonarli nelle campagne quali istallazioni di arte informale.
Il meglio del paese viene fuori nelle occasioni di partecipazione corale a festività, civili e religiose. Dal pellegrinaggio a Roca, nel mese di maggio, alle feste patronali, dalla Maratona di Primavera al premio Vrani, per salentini geniali e operosi, fino allo travolgente Borgoinfesta, tre giorni di ininterrotta giostra di musica, arte, cibo e solidarietà, che si offre a stanziali del Salento e a turisti d’ogni dove e che vuole allungare sguardo e benefici all’Africa lontana del Benin, dove i ragazzi dell’orfanotrofio di Ouenou, guardano a Borgagne quale paese di Bengodi, a ragione.
Ogni iniziativa è frutto di lunga programmazione, di concertazione, di volontariato generoso oltre che di forte motivazione.
La Chiesa Madre è ricca di tracce del passato di cui non si ha memoria, parla di arte, religione, ricchezza, di pietas e di amore per la natura.
Il santuario di Borgagne è la zona dell’Olmo, sopravvissuta a smanie di lottizzazione. Si trova ai piedi della mappa, quale propaggine naturale per un paese bucolico, da sogno, frammento di coltivi illuminati del passato, quando si combatteva con metodi naturali, la presenza d’acqua, eccessiva.
Ora la zona dell’Olmo è un residuo “culturale” che parla di rapporto positivo fra gente di buona volontà e territorio, di equilibrio fra natura e uomo. Le sue foglie raccontano per tutta la stagione storie scordate.
Lo so, la mia descrizione del paese carezza aspetti di poco conto, marginali, alternativi, non sono queste le cose che contano in banca, che parlano di crescita e di guadagni…voi che ne dite, rincorriamo la modernità ad ogni costo o ci aggrappiamo a ciò che di bello ancora s’intravede?
Aggrappiamoci sempre a ciò che di bello ancora s’intravede!
I luoghi che ci hanno visto nascere, ci lasciano nel cuore amore e ricordi che si radicano nell’animo. E’ la nostra storia che accompagna il nostro vivere.