di Armando Polito
A beneficio dei lettori più giovani che non hanno probabilmente mai sentito questo nesso o avuto la voglia di conoscerne il significato (quanto alla degustazione, invece, sono certo che McDonald’s e compagni ne hanno decretato, e da tempo, la fine…) dirò che si tratta di un piatto tipico quanto semplice della nostra cucina, a base di ceci e sottili strisce di pasta fritta, un piatto contadino, come oggi si suol dire, con accezione finalmente positiva, velata, comunque dall’artificiosità che accompagna lo snobismo e che è insita in tutto ciò che è, sempre come oggi si dice, trendy.
Il geografo arabo Idrisi nell’opera Kitab-Rugiar (Libro di Ruggiero) del 1154 parla della itryia (così suona la trascrizione dall’arabo) una specie di capellino molto sottile. Ancora oggi in Sicilia è comune chiamare i capellini tria. Riporto, tradotto, il passo in questione: A ponente di Termini Imerese vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini, con una bella pianura e vasti poderi nei quali si fabbricano vermicelli (itryia) in quantità tale da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi.
Si presume che Idrisi nell’adoperare il vocabolo itryia si riferisse ad un tipo di pasta conosciuto nel proprio paese di origine. siciliani probabilmente nell’inventare gli spaghetti si ispirarono all’itryia, dando vita, comunque, ad un prodotto nuovo. Da questi due tipi di paste si hanno diversi piatti tipici. Uno di questi, con sicure discendenze di tradizione araba o comunque orientale, è la pasta fritta croccante di capellini, appunto tria, lessati e cosparsi di miele e cannella. Che gli arabi conoscessero i capellini è fuori di dubbio, per i loro contatti con l’oriente, tenendo presente che i cinesi da millenni cucinavano i famosi capellini di soia. Il nostro ciciri e tria non sarebbe altro, dunque, a prima vista, che una variante del piatto dolce siciliano prima descritto.
Un’ultima riflessione: comunemente si crede che a far conoscere i vermicelli sia stato Marco Polo (nato un secolo dopo l’opera di Idrisi) nel suo Milione: in realtà, nel Meridione d’Italia già si fabbricavano da tempo…
Non è finita: nel primo libro delle Satire di Quinto Orazio Flacco (poeta latino del 1° secolo a. C.) la satira 6 ai versi 114/115 contiene, a mio avviso, un probabile riferimento al tipico piatto neritino dei cìciri e ttria: …inde domum me/ad porri et cìceris rèfero laganìque catìnum: …poi me ne ritorno a casa dove mi attende un piatto di porri, ceci e pasta sfoglia.
Ora mi soffermerò sul precedente laganìque: esso è composto da -que enclitico (che significa e) e da làgani, genitivo di làganum. Dal nominativo plurale làgana è nata la voce dialettale làiana (vale la pena ricordare, a vanto del dialetto, che la voce latina non è sopravvissuta in italiano; quella che sembra foneticamente più vicina, lasagna, deriva da un latino *lasània, dal classico làsanum=treppiedi, in Petronio vaso da notte , a sua volta dal greco làsanon con lo stesso significato).
La làiana è la sfoglia di pasta da cui, volendo, si ricavano le lasagne. L’originario latino làganum significa frittella, in altri autori pizza; tuttavia, il vocabolo è usato da Apicio (gastronomo latino vissuto tra il I° secolo a. C. e il I° d. C.) anche come sinonimo di tractum=pasta sfoglia (da tràhere=tirare). Làganum, poi, è dal greco làganon=dolce di farina, miele e olio; tuttavia l’espressione elkiùein làganon (in cui elkiùein, come sempre, significa tirare, stendere) ci consente di capire che in sostanza il làganon era la sfoglia da cui si partiva per realizzare il dolce che aveva lo stesso nome: storia parallela a quella del làganum latino.
Debbo infine dire che la voce è usata in frasi di rimprovero rivolte ai bambini come sostituto ammiccantemente eufemistico di lagna.
Insomma, se Orazio avesse aggiunto a quel làgani anche il participio passato fricti (ma ho già detto che la voce làganum può significare da sola frittella), avremmo avuto la certezza assoluta di trovarci di fronte alla citazione del nostro cìciri e ttria, dal quale, e chiudo, per evidentissimo slittamento metaforico dovuto a somiglianza (quella che solo la gente semplice e i poeti sono, da sempre, in grado di cogliere), è nato il nome dialettale di una specie di narciso, il cicirittrìa.
Mi convinco sempre più che nello scrivere vi deve essere una sapienza simile a quella che si usa nel preparare buone pietanze dal sapore armonico ed equilibrato: ad esempio, in un brano come questo, io ravvedo una dose appropriata di profonda cultura ben accompagnata da una viva intelligenza, ingredienti che rendono il tutto una gustosa sintesi di nozioni e ricerca dal forte retrogusto di passione per lo studio e la vita.