di Alessio Palumbo
Premessa. In questo articolo verranno utilizzati, in maniera spesso indistinta, termini come “pirati”, “corsari”, “bucanieri”: si tratta di una necessaria semplificazione, dovuta alla brevità dello scritto.
Passeggiando lungo le nostre coste, le antiche torri di guardia che le punteggiano possono far sorgere, soprattutto nelle belle giornate di mare calmo, immagini lontane. Sono scene di piccole battaglie, scorrerie, assalti più o meno cruenti: in una parola, pirateria.
Se già in seguito alla crisi dell’impero romano d’occidente e nel corso di tutto il medioevo, le nostre coste erano state oggetto di assalti, spoliazioni e rapine da parte di genti provenienti dal mare, la caduta di Costantinopoli e l’espansionismo turco nel Mediterraneo cronicizzarono il pericolo.
In particolar modo, dall’inizio del ‘500 fino al 1571, anno della sconfitta ottomana a Lepanto, non si contano gli attacchi dei pirati nel Salento. Nel 1537 Castro, difesa da Mercurio Gattinara, dovette arrendersi ai turchi del pirata Barbarossa e, nonostante le assicurazioni ricevute, subì saccheggi, rapimenti e violenze. In quegli stessi giorni, piccole squadre di pirati attaccarono villaggi e casali sulla costa jonica, penetrando sino ad Ugento, Gallipoli e Salve. Solo nell’agosto di quel terribile anno la nostra terra fu abbandonata dagli ottomani, che confluirono in altre zone del Mediterraneo per combattere veneziani e spagnoli.
Dopo le imprese del pirata Barbarossa, furono bucanieri come Torghud e Dragut Bassà a tormentare le nostre coste con continui attacchi. Gli assalti si concentrarono spesso intorno a Leuca, al suo santuario e nei paesi vicini (Ugento, Salve, Gagliano,. etc.). Dal 1571, la sconfitta dei turchi a Lepanto, non indebolì l’azione dei pirati che, sentendosi ancora più liberi dai vincoli che li legavano ad Istanbul, ripresero le loro scorrerie, saccheggiando nuovamente Castro.
L’innalzamento di torri, la ricostruzione dei castelli di Lecce, Otranto, Gallipoli, il rafforzamento delle mura cittadine (ad esempio ad Acaya), l’organizzazione di truppe armate, furono delle buone soluzioni per contenere l’assalto dei pirati, che tuttavia continuarono a pungolare le nostre coste ancora per un paio di secoli.
Dalla fine del ‘500 la pirateria smise quasi del tutto di essere un arma a servizio della politica della Sublime Porta. Organizzati in bande spesso comprendenti slavi, magrebini, greci e “rinnegati” italiani, i corsari perpetuarono la loro opera anche se in modo meno organizzato.
Intorno al 1624-1626 gli assalitori arrivarono ad incendiare lo stesso santuario di Leuca e saccheggiarono la vicina Castrignano. Ancora nel XVIII secolo e fino all’inizio del XIX questi banditi del mare, spesso provenienti da Tripoli, continuarono la loro azione anche se in modo molto più blando, soprattutto per la ferma opposizione delle truppe stanziate lungo le coste salentine. Tricase, Patù, San Foca, le spiagge delle attuali province di Lecce, Brindisi e Taranto, furono ancora l’approdo per le terribili flottiglie di predoni. Le grida, le campane a martello, i lamenti dei superstiti e di chi veniva rapito continuarono, ancora per lungo tempo, ad echeggiare lungo le rive e nei borghi della nostra terra.
L’attacco dei pirati era sempre un evento traumatico per le popolazioni che vivevano sul mare: “anche quando il pericolo non c’è si teme: qualche volta anzi lo ha creato la fantasia, e i Turchi, perché per i salentini barbareschi e pirati levantini in genere erano Turchi, sono stati visti anche quando non c’erano. Grida, pianti e parapiglia: le città si serravano, i villaggi suonavano a martello, gli uomini si chiudevano nei castelli, le donne scappavano nei conventi, i più fuggivano quanto più era possibile dal mare: vane precauzioni talvolta” (S. Panareo, Turchi e Barbareschi ai danni di Terra d’Otranto, in Rinascenza Salentina, Fasc. 1, 1933, p. 4).
A mo’ di conclusione, ripercorriamo brevemente una vicenda, riportata più nel dettaglio da Panareo nell’articolo di Rinascenza Salentina sopra citato, relativa ad uno degli ultimi assalti di pirati nel Salento. Correva l’anno 1837.
Alle prime luci dell’alba del 21 settembre 1837, le ville dei notabili salentini che sono soliti trascorrere l’estate nella marina di Tricase sono ancora avvolte in un profondo sonno: gli abitanti riposano godendosi gli ultimi retaggi della bella stagione. Il giorno prima, nelle acque prospicienti la città di Tricase, è stato avvistato un brigantino a vele quadrate, ma nessuno ha sospettato nulla. Da tempo non si hanno attacchi pirateschi. La notte stessa, invece, l’agile battello attracca nei pressi del punto Arco, poco distante dalla stazione doganale, ed il suo equipaggio, organizzato in squadre, si avventura sulla terraferma.
Le testimonianze dell’epoca parlano, spesso esagerando, di centinaia di aggressori, molto probabilmente la cifra reale oscilla tra i trenta ed i sessanta malviventi: dei brutti ceffi, vestiti alla calabrese (o siciliana) con berretti rossi, “camisciotti”, “scarpitti” e folti mostacci. Gente che conosce sì la lingua italiana, ma la parla con accenti ed espressioni diverse. Armati di tutto punto, con armi da fuoco e da taglio, i banditi danno l’assalto ai villini, uccidendo un servo che rifiuta di collaborare e svaligiando parecchie case. Depredano i proprietari di tutti gli averi, tanto da lasciarli completamente nudi. Alcuni pirati cercano persino di rapire le donne, ma uno dei capi si oppone. L’assalto non risparmia nessuno: viene derubato persino un parroco e la stessa piccola chiesa di San Nicola è fatta oggetto di saccheggio.
L’allarme viene lanciato dopo un paio d’ore dallo sbarco e le campane delle chiese di Tricase suonano a martello per avvertire la popolazione dell’attacco. L’intervento delle forze dell’ordine è inefficace e ad un brigadiere viene quasi fatto saltare il mento con una fucilata. I filibustieri riescono a svaligiare altri villini e a riprendere la via del mare. Nonostante le indagini e le ispezioni successive, di loro non si ebbe più traccia.
Secondo Panareo non si è trattato di un reale attacco piratesco ma di una grandiosa azione brigantesca: “niente pirati stranieri; gente nostra, tutt’al più frammista a qualche malvivente dalmata o albanese, accordatosi con gente della stessa risma per fare un colpo su una marina, dalla quale, perché frequentata da “signori”, si sperava chissà quale bottino”. Di fatto l’inusuale sistema di attacco dal mare, che riportava ai fasti della pirateria, sconvolse la cittadinanza, lasciando un profondo senso di insicurezza tra le istituzioni stesse.
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http://www.maruggio.eu/attacco-a-maruggio-13-giugno-1637-un-interessante-libro-di-tonino-filomena-e-cosimo-marseglia.html