IL MAIALE NEL SALENTO
di Massimo Vaglio
Il vocabolo maiale, viene fatto risalire a Maia, la dea, madre di Mercurio alla quale veniva sacrificato. Questo termine, oggi viene usato in modo generico, ma un tempo si appellavano così esclusivamente i porci castrati destinati all’ingrasso. Dai Greci, grandi cultori di carni suine l’usanza passò ai Romani che in origine le consumavano in concomitanza di riti sacrificali dedicati a Saturno, il dio della semina e della fertilità, durante i cosiddetti saturnali, feste e giochi che si svolgevano in dicembre e che spesso evolvevano in vere e proprie orge.
Ben presto, i Romani, indiscussi grandi padri della gastronomia, ne estesero grandemente il consumo codificando una serie infinita di piatti. Tutte le parti venivano mirabilmente valorizzate creando, anche da tagli secondari e da parti anatomiche che oggi sarebbe impensabile utilizzare, quelle che venivano considerate prelibate leccornie, spesso ad esclusivo appannaggio di pochi facoltosi eletti. Ne sono un esempio macroscopico, le mammelle e le vulve di scrofa di apiciana memoria, alle quali, oltre al valore gastronomico, venivano attribuite anche una forte valenza simbolica come propiziatrici della fertilità e persino delle spiccate virtù terapeutiche.
Sempre *Apicio, non si è limitato a ideare e divulgare ricette, ma spesso ha codificato l’intero processo produttivo protocollando finanche la dieta alimentare che doveva essere fatta seguire agli animali soprattutto in prossimità della macellazione. Per i maiali consigliava di dar loro da bere vino e miele onde far acquisire alle carni, e in particolare al fegato, una particolare delicatezza.
Il consumo delle carni suine, è tabù per una larga parte della popolazione mondiale, se ne astengono gli indiani secondo la cui religione è un animale impuro, gli ebrei e i mussulmani, secondo alcuni studiosi all’origine di questo tabù alimentare ci sarebbe la frase biblica: Degli animali mangerete tutti quelli che hanno lo zoccolo fesso e ruminano (Levitico XI, 3), ma perché allora tale prescrizione non è seguita anche dai cristiani? Domanda legittima, a cui in attesa di autorevoli interpretazioni teologiche, non ci resta che ironizzare con maligna benevolenza parafrasando Dante: più che la religione, potè la gola.
Non sarebbe neppure il primo caso di sospetta inadempienza alle divine regole da parte dei cristiani, tante, come noto, sono infatti le religioni che sottostanno al lapidario precetto biblico: Astenetevi dal sangue. Non è stato mai così per tanti cristiani che si sono sempre rimpinzati di sanguinacci, insaccati di sangue, e di maiale per giunta. Certamente, una discussione teologica su questi punti nei secoli scorsi c’è stata e deve essere stata anche piuttosto aspra, probabilmente lo “sdoganamento”, delle carni di maiale è coincisa, e in modo non si sa quanto casuale, con la raffigurazione di un simpatico suinetto nell’iconografia ufficiale di un grande santo come Sant’Antonio Abate.
Ma le motivazioni di tali deroghe c’è anche una radice storica ed economica, infatti, con la caduta dell’Impero Romano, la foresta riprese piede, riconquistando molti terreni sino ad allora coltivati, i nuovi conquistatori di ceppo germanico non avevano come Greci e Romani una cultura gastronomica basata sull’olio d’oliva, sul grano e sul vino, bensì sulle carni e sul lardo considerato caposaldo del loro sistema alimentare.
Si andò così a sviluppare un’integrazione dell’economia silvo-pastorale dei germanici con quella agricola di tradizione romana, nacque così l’economia agro-silvo-pastorale, un modello economico che ancora sopravvive in alcune aree montane e interne della nostra penisola e che ha sempre trovato nel maiale un elemento fondamentale.
Per quanto attiene al Salento, la diffusione del maiale, una volta completata verso la fine del XIX secolo la distruzione delle grandi foreste di querce quali quella di Belvedere, di quelle del feudo di Lecce, nonchè il forte ridimensionamento dei boschi dell’Arneo.
L’allevamento dei maiali, sino ad allora importante in quando praticato allo stato brado in questi enormi comprensori, rimase circoscritto ad un numero limitato di capi diffusamente allevati presso le numerose masserie. Non a caso, presso quasi tutte le masserie, o almeno nei pressi delle più importanti, vi era un bosco di querce dalle grosse ghiande, destinato precipuamente a questo scopo. Restano tuttora alcuni esempi, soprattutto nei dintorni di Maglie che miracolosamente sopravvissuti, si presentano cinti da muri a secco di notevole altezza, caratterizzati dal cosiddetto “batticane”, ossia da un accorgimento costruttivo atto a scongiurarne il superamento da parte di lupi ed altri predatori ed ospitano esemplari di quercia di straordinaria mole e bellezza. In questi boschi, si praticava l’allevamento dei maiali, come si direbbe oggi, a stabulazione libera, questi avevano come principale alimento le ghiande che cadevano spontaneamente e qualche integrazione costituita da sottoprodotti aziendali.
Nell’Inchiesta Agraria (monografia circa lo stato di fatto dell’agricoltura nella Provincia di Terra d’Otranto), pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del Regno, il 24 dicembre del 1878, così si legge: la razza suina che qui allevasi, è unica, cioè ha un tipo a sè, ed è essenzialmente indigena. Sono animali di statura vantaggiosa, di precoce sviluppo (…). Mancano stazioni di riproduzione di questa specie: i branchi più considerevoli hanno il loro verro, del quale si servono i piccoli allevatori. (…) Considerata poi la importanza della industria in rapporto alla popolazione, la nostra Provincia è la 63° del Regno nella scala d’ordine decrescente, con una media di 11,4 per 100 ab., mentre il Regno ne conta 58. La stessa monografia riporta il numero effettivo dei capi che fra riproduttori e animali all’ingrasso ammontava a 4841 capi nel comprensorio dell’attuale Provincia di Lecce su di un totale 5612 capi presenti in tutta la Provincia di Terra d’Otranto che ricordiamo comprendeva anche le attuali province di Brindisi e Taranto. Quindi, almeno per quanto atteneva alla provincia di Lecce un numero di capi sufficiente a supportare una consolidata tradizione gastronomica. Alle carni prodotte localmente, si aggiungevano poi tutta una serie di salumi e derivati del maiale che venivano importati dalle più vocate zone montuose delle regioni limitrofe, spesso frutto di baratti con prodotti della terra e di pregiati manufatti artigianali quali le calzature.
Il maiale, fu definito nell’800, con un lusinghiero paragone, animale enciclopedico, poiché, come del sapere non si gettava via nulla e nel Salento, oggi come un tempo, anche le parti più secondarie diventano pietanze universalmente apprezzate.
A partire dal sanguinaccio leccese, in entrambe le versioni, dolce e salata; le deliziose coppe di testa; la salsiccia salentina; i tanti piatti composti: dalle cosiddette cicurate, ove si utilizzavano anche i piedini e le teste; al fegato, avvolto nel peritoneo e arrostito alla brace.
La semplice carne di maiale “allessa” è forse, però la specialità universalmente più apprezzata, un piatto semplicissimo, una specie di uovo di Colombo della gastronomia salentina, che nelle tante sagre che in ottobre vengono dedicate al maiale trova magistrali esecutori o semplicemente l’atmosfera giusta per essere archiviata come un’esperienza gastronomica indimenticabile.
*( Apicio, Marco Gavio, gastronomo romano del I sec. D.C. , autore del famoso ricettario, De re coquinaria, pervenutoci in un rifacimento in latino volgare del IV secolo)
Carne di maiale “allessa”
La carne di maiale, con tutta la cotenna e tagliata in grossi pezzi, viene collocata in caldaie nelle quali si è portata ad ebollizione acqua salata aromatizzata con qualche foglia di alloro. La cottura si esegue a fiamma allegra per un tempo relativamente breve (circa un’ora), e comunque sino a quando la cotenna si lascerà trafiggere facilmente dai rebbi di una forchetta. Il segreto di questa preparazione è però un altro: infatti a casa difficilmente riusciremo ad ottenere della carne saporita come quella che invece potremo gustare in sagre quali quelle di Ortelle, Carpignano Salentino., Muro Leccese ecc. Il segreto risiede nel fatto che in queste sagre, nello stesso calderone in ebollizione, vengono continuamente aggiunte carni, per cui la cottura delle stesse avviene in una sorta di brodo saporosissimo che ne esalta mirabilmente il gusto. La carne di maiale “allessa” va mangiata caldissima, spolverata di pepe nero macinato al momento e di sale fino.
Cicurata
Cicorie selvatiche con la carne di maiale
La cicurata è un piatto che generalmente si prepara in autunno, periodo in cui un tempo riprendeva la macellare dei maiali, che per motivi igienici veniva interrotta in primavera e non poteva riprendere prima della Madonna delle Grazie (8 settembre) valorizzando un altro prodotto di stagione, le cicoriette selvatiche. Mondate le cicoriette dalle foglie ingiallite e maltrattate, rasate il fittone e risciacquatele più volte per essere sicuri che non rimangano spiacevoli residui di terra lessatele sino a metà cottura in acqua salata e scolatele. In una casseruola fate imbiondire due o tre spicchi d’aglio in olio di frantoio, eliminateli e mettete a rosolare della carne di maiale a dadini, preferibilmente pancetta oppure altro taglio purché abbia la cotica; salate e spolverizzate con pepe fresco macinato, aggiungete le cicorie e completate la cottura, in ultimo conditele con formaggio pecorino dolce. Servite ben caldo.
Cicureddhre a brotu
Cicorie selvatiche in brodo di maiale
Preparate un brodo abbastanza lungo utilizzando dei piedini di maiale oppure la testina spezzettata orecchio compreso; anche se potete naturalmente utilizzare anche dei tagli più pregiati purché completi di cotica. Comunque qualunque parte utilizziate dovrete preventivamente raschiarla con un coltello, fiammeggiarla, sbollentarla e infine lessarla, aromatizzando il brodo semplicemente con una cipolla intera ed una foglia di alloro. Quando la carne sarà cotta calate le cicoriette ben nettate e lavate e fatele cuocere nel brodo così ottenuto. Servitele bollenti insieme alla carne, e volendo a dei crostini di pane leggermente bruscato, cospargendo il tutto di pecorino grattugiato.
Le parole di Massimo Vaglio suonano incantatrici anche alle orecchie di una come me che rifugge l’uccisione degli animali. Non sono vegetariana, ma, all’occorrenza, mi cibo il meno possibile di tutto ciò che prima aveva una codina e delle zampe. Siamo predatori, si sa, pastori, allevatori nell’evoluzione della specie e abbiamo fatto spesso in modo che la macellazione avesse il tono del rituale propiziatorio, dell’offerta sacra, dell’iniziazione di qualcuno a qualche carica divina. Prestigiatori di classe, sebbene, dalla cronaca, risulti che spesso la classe sia andata a farsi benedire.
Ebbene, Massimo, attraverso notizie raccolte dalla storia e dal mito, oltre che da studi zootecnici e dalle tradizioni, ha trasportato su piume di riguardo il maiale dal tempo dei romani e dei greci alle campagne salentine, fornendoci per di più succulente ricette per apprezzare più a fondo sapori antichi e gusti nuovi.
Ricordiamoci solo che la necessità della nostra nutrizione con tutti i virtuosismi culinari che ne derivano, non devono mai farci dimenticare il rispetto per i nostri animali di allevamento, e il caro Massimo concorderà con me.
Qualcuno, da lassù, ce ne sarà grato.
Grazie Raffaella, per i tuoi peraltro consueti, bellissimi e profondi pensieri. Condivido pienamente le tue riflessioni, ritengo che sia una forma di rispetto anche allevare con rispetto i nostri animali, magari allo stato brado o semibrado ( a proposito è stata coniata la frase animali felici) e quando si saranno sacrificati, un’ulteriore forma di rispetto consiste nell’ammannire le loro carni con diligenza e perizia, utilizzandone ogni parte nel migliore dei modi.