di Marcello Gaballo
Di tanto in tanto è utile variare sul tema. Ci siamo mai posti il perché di quelle fotografie enormi, anche 70×100, che esistono in casa dei nonni o dell’anziana zia? Mi riferisco ai ritratti degli antenati defunti che un tempo campeggiavano sulle bianche pareti tinteggiate a calce, tramessi in eredità da padre in figlio per diverse generazioni. Tutti con pesante cornice in noce, vetro alquanto spesso, pose ieratiche, comunque sempre di grandi dimensioni. Belli o brutti, giovani o anziani, talvolta anche umili pose di contadine con la pelle bruciata dal sole o con volti marcatamente segnati dalle rughe. Difficilmente invece si notavano persone in tenera età, graziose fanciulle, coppie di amanti, figlioletti in triciclo, bimbe con la “pupa”, come è più naturale che fosse.
Nel modestissimo bilancio familiare, tante volte mi son chiesto, perché investire in un grande ritratto dell’avo? Forse per mantenere vivo il ricordo? E in tal caso non sarebbe forse bastata una piccola foto da inserire, accanto alle tante altre, sul comodino o fermarla nell’intercapedine tra lo specchio e la cornice del comò? Reminiscenze degli antichi Lares, direbbe qualcuno, proprio come quegli spiriti protettori degli antenati defunti che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale. Forse.
Credo però di aver trovato il vero motivo e mi piace condividere l’ipotesi con i lettori.
E’ di questi giorni una insolita usanza del popolo salentino emersa da una occasionale visita in casa di amici, che mi hanno invitato ad esplorare il magazzino dell’abitazione ereditata dai nonni.
Tra le varie cianfrusaglie, alcune delle quali mi è piaciuto fotografare prima dell’irrimediabile perdita nella pubblica discarica, una in particolare mi ha colpito e mi ha permesso di ragionare sulla premessa.
Un quadro ottagonale di circa 90×50 cm conteneva sotto il vetro protettivo una corona di fiori interamente realizzata in lamina di ferro. Fiorellini abilmente lavorati in delicata porcellana spiccavano su una base di foglie metalliche di quercia, tutte colorate al naturale, seppur sbiadite dal tempo e in parte ossidate, nonostante la protezione ermetica garantita dal vetro e dalla cassa in cui era disposto il tutto.
Attorno alla composizione era disposto un nastro merlettato nero su cui erano attaccate delle lettere realizzate con cartone dorato: A Rolli Anna Maria- il marito.
La disposizione della ghirlanda era tale da racchiudere nella parte centrale un foglio di carta, ormai tarlato e consunto in più parti, su cui ancora si leggevano alcune parole sopravvissute al tempo. Facile intuire che si trattava di una lettera dedicatoria, scritta in bella grafia, che il marito e i desolati figli avevano composto dedicandola alla perduta moglie e madre, che aveva lasciato tutti prematuramente. Siglava il testo un teschio con le ossa femorali incrociate, evidentemente ripreso dalla classica iconografia cimiteriale.
Una corona funebre! Ma non riuscivo a spiegarmi perché mai potesse trovarsi in quel magazzino anziché nel cimitero, dove era naturale fosse ospitata a imperitura memoria, accanto alle spoglie mortali della povera donna.
Intanto la datazione del nostro reperto. L’amica, oggi settantenne, mi riferisce trattarsi di un omaggio funebre che suo nonno aveva tributato alla moglie, deceduta in giovane età, subito dopo aver partorito la seconda figlioletta. Facendo un po’ di calcoli dobbiamo far risalire il manufatto alla seconda metà dell’800.
Era uso, in quei tempi e fino ad un cinquantennio addietro, portare questo quadro nel cimitero in occasione dell’Ottavario dei Defunti e lì lasciarlo per tutto il periodo, per poi riprenderselo in casa. Veniva appeso in una stanza del cimitero, a sinistra entrando, con molti altri dello stesso genere, quasi a voler rispolverare la memoria degli astanti su quanti avevano lasciato questa terra.
Appositi artigiani realizzavano su commissione questi lavori. Il falegname avrebbe preparato la cassa, in base alle possibilità e gusto del richiedente, consigliando una meno costosa forma quadrata o rettangolare, sino alle più lussuose forme esagonali o ottagonali. Il pubblico scrivano avrebbe scritto la lettera sulla base delle essenziali indicazioni fornite dal familiare, riportando i nomi dei congiunti in formule stereotipate, scelte tra le più strazianti in base all’età del defunto e del dolore causato dalla sua perdita. Lo stagnino avrebbe realizzato la composizione floreale e, su una base standardizzata di foglie, aggiungeva i fiori di maggior gradimento da parte del committente: rose e gelsomini (come nel nostro caso), margherite, iris, crisantemi (i più costosi), tutti sapientemente fissati con sottile fil di ferro, come ho potuto notare osservando il retro della composizione. Con gusto ai fiori si alternano foglie di edera e di rosa.
Dopo aver incluso la lettera e sistemato a dovere il nastro messciu Pici sigillava con vetro spesso, affinché resistesse ai sobbalzi del “trainu” (carro) con cui si trasportava annualmente il pesante e ingombrante omaggio.
Intervistato qualche altro anziano a proposito di tale pratica, qualcuno mi ha confermato l’usanza e mi ha riferito che, oltre a questo tipo di composizione, si era soliti portare nel cimitero, sempre nell’Ottavario dei Defunti, i ritratti delle persone più care. Le quattro pareti della stanza venivano dunque ricoperte da quadri di ogni misura, evidentemente grandi per poter essere notati da tutti i visitatori, visto che venivano appesi a diverse altezze. I miei interlocutori però ricordano solo fotografie, non corone funebri come quella ritrovata, essendo la fotografia privilegio di pochissimi e ancor più elitario il ritratto dipinto. Ecco dunque svelato (o almeno così son portato a credere) il mistero di quelle enormi foto che hanno sempre dato tanto fastidio a noi moderni, che non sappiamo mai dove relegare.
Un’usanza del tutto sconosciuta a chi scrive. Sarebbe interessante raccogliere eventuali ricordi e testimonianze di tale pratica, forse adottata in molti altri comuni salentini, probabilmente sfuggita agli etnologi.
Invidio sanamente, caro Marcello, la curiosità con cui hai esaminato il reperto e la forte emozione che inevitabilmente avrai provato. Sarà deformazione professionale, ma per me non c’è differenza tra un testo autografo o un’epigrafe più o meno antichi e un graffito pompeiano: in tutti aleggia lo spirito del passato inevitabilmente filtrato dal tempo e dall’evoluzione della cultura, quel passato per il quale nei tempi odierni del tutto e subito nutriamo indifferenza o, peggio, disprezzo. Per questo, riprendendo un discorso recente, ho l’impressione che anche quei pochissimi interventi operati sul nostro patrimonio obbediscano alla filosofia corrente del mordi e fuggi, dell’usa e getta e spaventa anche me la moda di porre lo spettatore (non importa se turista profano o autodidatta che, magari ne sa più di uno specialista) a contatto del passato mediante ologrammi, ricostruzioni virtuali e diavolerie simili, che hanno l’unico scopo, sempre secondo me, da un lato di procedere alla spettacolarizzazione della cultura (e la spettacolarizzazione, anche nella divulgazione, mal si coniuga con la scientificità), dall’altro di consentire alle aziende che costruiscono quegli aggeggi di sbarcare il lunario. Ben diversa era la mia proposta di fedele conservazione attraverso la pura immagine digitalizzata e corretta divulgazione. Tornando al tuo reperto, credo che l’ipotesi da te formulata sia più che attendibile (probabilmente fanno eccezione, per intuibili motivi finanziari, le gallerie dei defunti delle famiglie “patrizie” ancora oggi in bella mostra), mi auguro che il tuo appello finale abbia buon esito e, sarà egoismo, sarà ancora una volta deformazione professionale, voglio sperare che si riesca a raccogliere un buon numero di messaggi di queste dediche funerarie, sufficienti a trarre conclusioni da un punto di vista linguistico (e non solo da quello), pur nella presumibile streotipicità delle formule.
ALL’ESTERO PER UN IMPEGNO DI LAVORO HO POTUTO GUSTARE SOLO ORA L’INTERESSANTE POST DI MARCELLO.
RICORDO DI AVER NOTATO QUALCOSA DI SIMILE A QUANTO CON PRECISIONE E GUSTO DESCRIVE E DOCUMENTA, MA SOLO IN POCHISSIME TOMBE MOLTO ANTICHE DEL CIMI TERO DI GALLIPOLI, E NELLE MIE ESPERIENZE DI VISITE CEMETERIALI (MEGLIO SAPERE PRIMA DOVE SI ANDRà A FINIRE ,COSI MI SONO PRENOTATO UN POSTO VICINO AI MIEI GENITORI, NON MI INTERESSA LA FREQUENZA DELLE VISITE… DOPO!) VISTO CHE NEI MIEI VIAGGI NON PERDO OCCASIONE DI VISITARE QUALCHE CIMITERO, MONUMENTALE E NO, ANCHE ALL’ESTERO, SONO CERTO DI NON AVER RILEVATO OPERE SIMILARI A QUELLA DESCRITTA DA MARCELLO. PROBABILMENTE NE ESISTONO, MA MAGARI SONO PROTETTE IN CAPPELLE NON FACILMENTE VISITABILI.
MI ASSOCIO (E’ FACILE E ANCHE COMODO) ALLE GIUSTE SPERANZE DI ARMANDO CON L’AUGURIO CHE IL POST DI MARCELLO SERVA AD APRIRE UN NUOVO CAPITOLO SULLA STORIA DELLE TRADIZIONI FUNERARIE SALENTINE.
I RITI DI PASSAGGIO RAPPRESENTANO E DEFINISCONO L’EVOLUZIONE DI UN POPOLO… QUESTE RECENTI DOCUMENTAZIONI FOTOGRAFIDE DEI TEMPI PASSATI MI SUGGERISCONO QUALCOSA…
GRAZIE A MARCELLO PER PORTARE AVANTI QUESTE PREZIOSE RICERCHE!
BUONA FINE DI SETTIMANA A TUTTI.
Nei primi anni cinquanta ricordo che nel Cimitero di Nardò, in occasione del mese di novembre nel locale che allora esisteva all’ingresso in cui ora vi è solo un portone era in uso esporre le foto dei defunti con formati i più differenti con in primo piano i morti dell’ultimo anno.
Credo che le dimensioni inconsuete di quelle fotografie fossero il tentativo riuscito della fotografia di scalzare l’antica ritrattistica coi pennelli. Nell’ottocento la fotografia prende il posto nella rappresentazione realistica di persone e paesaggi alla pittura classica e quasi per reazione la pittura si rifugia in una nuova rappresentazione originale che non cerca più il realismo ma nuove tecniche (espressionismo, puntinismo, ecc.. e poi fino al cubismo e all’arte moderna). In pratica si sostituiva il costoso ritratto riservato solo ai benestanti con quasi economiche fotografie, incorniciate ancora nell’uso del ritratto.L’oggetto di del post era più facile forse rintracciarlo in un cimitero, magari su una sepoltura gentilizia. Forse li fu esposto per molto tempo e poi riportato in casa per diverse ragioni.